[Pagina precedente]...zioni tra i passeggieri. Un'amenità ! Persone che nella prima settimana avevan dato segno di non potersi patire, erano stretti ora in una conversazione che pareva amichevole; altre che da principio eran come cucite l'una all'altra, ora sembrava che si scansassero con ripugnanza. Una lunga navigazione è come una breve esistenza a parte, nella quale le amicizie nascono, maturano e cadono con la stessa rapidità con cui s'avvicendano le stagioni sul piroscafo, dove si passa in tre settimane dalla primavera all'autunno. La certezza di separarsi all'arrivo per non rivedersi, incoraggia alle confidenze, e fa piantare senza complimenti i nuovi amici al primo screzio; e la facilità di farsi passare per diversi o da più di quello che siamo è insieme uno stimolo a cercare amicizie, e una cagione di altrettante rotture, perché facendo ognuno con noi il gioco medesimo, appena scopriamo la truffa, è finita. Per queste ragioni le amicizie, a bordo, ballano la contraddanza. E poi non c'è cosa che faccia commettere tante piccole viltà come la noia. Il decimo giorno, piuttosto che annoiarsi, alcuni vanno ad attaccare umilmente la conversazione di certi tali, che hanno offesi fino alla sera innanzi con una manifestazione evidentissima di antipatia. Vidi fra le altre coppie nuove il prete napoletano che passeggiava con un giovane argentino, il quale era stato fino allora uno dei suoi più impertinenti e patenti canzonatori, e che ora stava a sentire con visibile deferenza le sue dissertazioni sopra las emisiones fiduciarias y de numerario di non so che istituzione finanziaria di Buenos Ayres; e dall'altra parte del cassero quel pidocchio riunto del mugnaio, che s'era appiccicato non so come al vecchio chileno, con cui si lagnava a voce alta della falta de limpieza (mancanza di pulizia) dei piroscafi italiani, senza vedere sulla sua faccia severa un'espressione di nausea, che annunziava un'imminente voltata di schiena. Ma la gran novità era dietro al timone: il marito della signora svizzera in colloquio per la prima volta col deputato argentino, a cui pareva che spiegasse il meccanismo del solcometro, ed era comicissima la profonda attenzione che questi fingeva di prestargli, volgendo però lo sguardo di tratto in tratto, con un giro lento del capo, verso l'antica violatrice del suo domicilio, la quale passeggiava fra il toscano imbronciato e il tenore radiante, tutta vezzi e sorrisi, ma con l'occhio attento agli altri due: stupita, si capiva, e contenta di quel riavvicinamento inaspettato. Andando in su e in giù, essa passava davanti alla piccola pianista, seduta da un lato; e questa l'avvolgeva ogni volta con uno sguardo di sotto in su, lungo e profondo, in cui balenavano la curiosità e l'invidia sensuale, e ogni sorta d'appetiti compressi di piccola belva in catene; dopo di che il suo viso ripigliava la solita espressione di impassibilità monacale. Sua madre, intanto, che stava seduta fra lei e la signora della spazzola, andava facendo a brani con gli occhi e con la lingua un nuovo vestito lillà della sposa, un po' infagottata, veramente; la quale le voltava le spalle, stretta al braccio dello sposo, e ferma in piedi con lui davanti alla "domatrice" che pareva li stuzzicasse con degli scherzi imbarazzanti, cullando sopra una poltrona a bilico la sua mal dissimulata sbornietta d'estratti d'erba. E ogni cosa dominava col suo sguardo acuto di poliziotto l'agente di cambio, appoggiato all'albero di mezzana, con le braccia incrociate sul petto, nell'atto d'un uomo che aspetta un avvenimento. Tutti gli altri, ritti o seduti a due a due, discorrevano alla stracca, tirando sbadigli a canto fermo; e il mar giallo e flaccido faceva degno fondo a tutte quelle facce pettegole e sonnolente. Tra i moltissimi quadretti, cancellati gli uni dagli altri, che presentò il cassero durante il viaggio, non so perché, mi rimase vivo nella memoria, dipinto a color di mota, quello di quel giorno e di quel momento.
A un dato punto, il quadro prese vita, e la pittura si cangiò in scena di commedia. Il toscano piantò la compagnia, quasi bruscamente, e se n'andò difilato verso prua, con un disegno sul viso, come di rappresaglia amorosa; e un minuto dopo la signora svizzera e il tenore si separarono: questi si mise a sedere in disparte e finse di leggere un libro; quella si diresse verso il marito, da cui l'argentino s'allontanò subito, facendo a lei un saluto diplomatico. L'agente di cambio mi comparve accanto, come una larva. - Stia a vedere - mi disse - una bell'operazione di strategia di bordo. Lei che scrive deve osservar queste cose. Il toscano s'è ritirato dal combattimento. Il tenore sta in riserva. La signora eseguisce una finta manovra in faccia al nemico. Oh perdio! Me l'han fatta ieri; non me la faranno più oggi. - In fatti la signora faceva mille moine al marito, gl'infilava il braccio sotto il braccio, gli parlava nell'orecchio, pareva che gli domandasse delle spiegazioni intorno al solcometro. E la faccia del capelluto professore era maravigliosa: rivelava un intero sistema di filosofia, che doveva essere antico in lui: egli socchiudeva gli occhi, come un gatto che s'appisola, e torceva tutto il viso da una parte, mostrando la punta della lingua, con una smorfia indicibilmente lepida; la quale però lasciava trapelare una certa intenzione astuta di canzonatura, come se in cuor suo egli ridesse di lei, di sé, dell'altro, degli altri, del mondo intero. Intanto il tenore era scomparso. E la signora si passava una mano sugli occhi e copriva col ventaglio dei piccoli sbadigli poco spontanei, come per mostrare che aveva voglia d'andare a dormire - Attenti! - disse l'agente. - Ora vien la mossa decisiva. - Non lo aveva anche detto, che la signora s'era staccata dal marito, e lentamente, facendo un visetto insonnito, attraversava il cassero, per discendere. — Eh! — sclamò l'agente; - il momento è ben scelto. Non c'è un cane di sicuro dentro a quei forni di sotto... Ma c'è la giustizia di Dio! - E scappò sotto egli pure. Non una di queste mosse era sfuggita a quel serpente a sonagli della madre della pianista, la quale bisbigliava le sue osservazioni alla sua vicina, la signora della spazzola; e tutt'e due, mandando scintille dagli occhi, s'alzarono a un punto solo, e si mossero... Ma era inutile. La svizzerella tornava su, velando la stizza col suo bel sorriso, e tenendo un libro fra le mani, come se fosse scesa per pigliar quello; e due minuti dopo, dall'altra scala, ricompariva il tenore, solfeggiando e guardando il mare, con un'affettazione di indifferenza che tradiva una rabbia canina. A pochi passi dietro di lui veniva innanzi l'agente, felice, che mi fece di lontano un cenno della mano aperta, col pollice al naso. Il tenore s'avvicinò a me, e mi disse: — Bel mare, eh?
Il mare era orribile; ma lui un originale divertentissimo. Avevo fatto la sua conoscenza alla latitudine delle isole Canarie, e parlato con lui due o tre volte, la sera. Era sui trentacinque, ma d'aspetto più giovane: un viso di primo lavorante sarto, con due baffetti biondi arricciati all'insù, e due occhi che dicevano continuamente: - Sono io! -: pronuncia di maniera, passo da conte d'Almaviva, vestito dei fratelli Bocconi. Egli guardava l'orizzonte con aria trionfante come se l'oceano atlantico fosse un'immensa platea che lo chiamasse alla ribalta. E trinciava di geografia, di letteratura, d'arte, di politica, con una certa disinvoltura volpina, andando sempre lì lì per dire uno strafalcione, ma ritenendosi sempre in tempo, dopo aver dato un'occhiata diffidente al conlocutore. In letteratura e in politica usava d'un artifizio curioso. Tutt'a un tratto, senza alcun appiglio con la conversazione, esclamava solennemente, con l'occhio fisso all'orizzonte: - Guglielmo Shakespeare!, - e si passava una mano sulla fronte, come se seguisse il corso d'una meditazione muta; ma niente: non era altro che un nome che gli veniva su, come una bolla d'aria. Oppure, cadendo il discorso sopra un personaggio storico, su Napoleone I, per esempio: - Ah! - sclamava, torcendo il viso; - non mi parli di Napoleone I, per l'amor del cielo! - come se avesse intorno a quell'argomento un gran tesoro di idee proprie, immutabili, sulle quali non potesse nemmeno ammettere la discussione. E non gli si cavava una parola di più. Infine, per riassumere tutto il vasto sistema delle sue idee e delle sue simpatie intellettuali, soleva dire: - Io tengo sempre tre libri sul tavolino da notte: Dante, il Fausto e... - La prima volta disse la Bibbia; ma poi se ne scordò, e un altro giorno disse invece: I misteri del popolo di Eugenio Sue. Sul piroscafo, peraltro, io non gli vidi mai altro in mano che Gli amori dell'imperatrice Eugenia. Un ultimo tratto. Diceva d'essere stato volontario con Garibaldi; ma quando il discorso cadeva sui fatti, non accennava mai ad alcuna campagna particolare, parlava di quelle guerre con una certa indeterminatezza vaporosa, come di avvenimenti dell'antichità più remota, appartenenti quasi all'età delle favole. In fondo, un umore gioviale. Non s'inaspriva che parlando di un certo impresario di Bologna, che pareva fosse l'odio della sua vita, e ripeteva sempre la stessa frase: - Gli farò sputare il cuore. - Lui intanto, quel giorno, aveva sputato la voglia.
Passate le due il cassero si sgombrava. Il tenore scendeva nel salone a canterellare sul pianoforte, il professore andava sul castello centrale a dar lezioni di varia scienza al basso popolo, gli argentini a giocare alle carte, gli altri a fare il bagno, a dormire, a scrivere o a rilisciarsi. Io seguitai quel giorno la signorina di Mestre che andava con la zia a fare la visita solita alla sua famiglia emigrante, col solito pacco di frutta e di dolci fini. Fin dai primi passi che fece a prua, potei notare quanto fosse già andata innanzi nella simpatia di tutta quella gente. Al suo apparire, anche i contadini più rozzi si scansavano, e tutti guardavano attentamente le vene azzurre di quel collo sottile, quelle mani gracili, quella grossa croce nera spiccante sul vestito color verdemare, che non disegnava alcuna curva, e pure aveva la sua grazia. Neanche sulla faccia delle donne più maldicenti e più ardite, che parlavan di lei dietro le sue spalle, non si vedeva l'ombra d'un pensiero maligno. E non era rispetto per la signora; ma per la triste sentenza che le vedeano scritta sul viso, e per la dolce rassegnazione con cui essa mostrava di portarla, senza nulla aver perduto della bontà e della gentilezza giovanile che nascon dall'amore felice della vita. Una parola che intesi mormorare sul suo passaggio mi fece tremar per lei, se l'avesse intesa: - Ecco la tisica. - Ma non l'intese. Dei ragazzi le andavano incontro, ed essa dava loro delle mandorle e dell'uva secca, carezzandoli sulle guance. A un certo punto, un emigrante avendole messo il piede sullo strascico, per inavvertenza, le si staccò il vestito sul fianco, e scoprì un palmo di sottana bianca. Mentre si raggiustava, le si avvicinò il dottore, e tutt'e tre discesero nell'infermeria.
Discesi dietro a loro. Andavano a visitare il vecchio contadino piemontese, malato di polmonite.
Il pover uomo era assai peggiorato. Coricato là nella sua cuccetta scura, con la barba grigia lunga, che lo faceva parere anche più scarno, aveva l'aspetto d'un morto disteso dentro una cassa, a cui fosse stata levata un'asse da un lato. All'apparire della signorina, che doveva aver già veduta più volte, fece quella contrazione della bocca, che annunzia il pianto nei bambini e nei malati sfiniti. E disse, con un nodo nella gola:
— A'm rincress per me' fieul!
M'accorsi che quelle parole diedero una stretta all'anima alla ragazza; la quale rispose subito, con voce alterata, ma fingendo franchezza: - Ma no, ma no. Che cosa dite? Rivedrete il vostro figliuolo. Oggi avete miglior cera. Badate bene di non perdere l'indirizzo. Dove l'avete messo?... (L'aveva nella giacchetta, ai piedi del letto). Sta bene. Il dottore ci farà attenzione. Volete che lo conservi io? che ve lo renda poi...
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