[Pagina precedente]...e avevan curiosità di saperlo. Così di cento altri miracoli meccanici dell'ingegno umano, dei quali ci serviamo e andiamo alteri, noi siamo poco meno ignoranti dei selvaggi che disprezziamo perché li ignorano. Eppure non solamente per l'ignorante che non n'ha altra idea da quella d'un pentolone gigantesco e d'un intrico misterioso di ruote, ma anche per chi ne acquistò qualche nozione nei libri, è un piacere nuovo e grande la prima volta che si decide a infilare il camiciotto turchino d'un macchinista e a discendere in quell'inferno tenebroso e sonoro, di cui non aveva mai visto che il fumo per aria. Quando s'è arrivati in fondo e si leva il capo a guardare in su, dove non appare più il giorno che come un barlume, ci pare d'essere calati dal tetto giù fra le fondamenta d'un alto edifizio; e alla vista di tutte quelle scalette di ferro ripidissime che s'alzano l'una sull'altra, di quelle griglie orizzontali che girano sul nostro capo, di quella varietà di cilindri, di tubi colossali e d'ordigni d'ogni fatta, agitati da una vita furiosa, formanti tutti assieme non so che spaurevole mostro di metallo, che occupa con le sue cento membra palesi e celate quasi una terza parte del piroscafo enorme, si rimane immobili dalla maraviglia, umiliati di non comprendere, di sentirsi così piccoli e deboli davanti a quel prodigio di forza. Cresce ancora l'ammirazione quando si penetra nel vulcano che da vita a ogni cosa, fra quelle sei smisurate caldaie, sei case d'acciaio, divise da quattro strade che s'incrociano, simili a un quartiere chiuso e infocato, dove molti uomini neri e seminudi, dai volti e dagli occhi accesi, ingoiando a ogni tratto delle ondate d'acqua, lavorano senza posa a pascere trentasei bocche roventi, le quali divorano in ventiquattr'ore cento tonnellate di carbone, sotto il soffio di sei colossali trombe a vento, ruggenti come gole di leoni. Par di ritornare alla vita quando, uscendo di là grondanti di sudore, ci ritroviamo davanti alla macchina, dove pure ci pareva, poco innanzi, d'esser quasi sepolti. E non di meno si stenta un pezzo ancora a riavere la mente libera. Il macchinista ha un bello spiegare. Quel movimento vertiginoso di stantuffi, di bilancieri e di turbine, che gl'ingrassatori rasentano con un'apparenza di noncuranza che fa rabbrividire; quel frastuono assordante che producono insieme lo strepito metallico delle manovelle, i fischi delle valvole atmosferiche, il rumor sordo delle pompe ad aria e i colpi secchi degli eccentrici; quel va e vieni di spettri coi lumi alla mano, che salgono e scendono per le scalette, spariscono nelle tenebre, riappariscono di sopra e di sotto, facendo scintillare per tutto acciaio, ferro, rame, bronzo, e rischiarando di volo forme strane, movimenti incompresi, passaggi e profondità sconosciute, tutto questo ci confonde nel capo anche le poche idee nette che avevamo prima di scendere. E ci sentiamo rassicurati davanti alla grandezza poderosa dei meccanismi; ma scema questo sentimento a poco a poco, al veder con che cura minuta i macchinisti li vigilano, e con che attenzione inquieta stanno a sentire se in quel concerto uniforme di suoni scappi la più leggera nota stonata, e se fra quei vari odori abituali si avverta menomamente il bruciato; e come corrono a toccare qua e là se la temperatura dei metalli superi quel dato grado, a vedere se spunti in qualche parte un indizio di fumo sospetto, a mantenere costante la pioggia d'olio che da cinquanta lubricatori scende di continuo su tutte le articolazioni dell'immane corpo. Perché quel corpo immane, che affronta e vince le tempeste dell'oceano, è delicato come un organismo umano, e il più piccolo turbamento del più piccolo dei suoi membri lo sconturba tutto, e vuole un rimedio immediato. A un corpo vivo egli rassomiglia infatti, assetato, come gli uomini che gli danno il pasto, dall'incendio ch'egli bolle nel ventre, e costretto a tracannar senza tregua dal mare un torrente d'acqua, ch'egli rigetta in fontane fumanti; e tutto quel complesso di ordigni è come un torso titanico, di cui tutti gli sforzi convergono nell'impulso formidabile d'un lunghissimo braccio di ferro, col quale gira la gran vite di bronzo, che lacera l'onda e muove tutto. Si guarda e vengono in mente le antiche liburne, con le tre coppie di ruote ad ali, mosse da buoi; e s'immagina con un senso d'alterezza lo stupore che inchioderebbe là un antico a quella vista, e il grido d'ammirazione che gli uscirebbe dal petto! Egli però non potrebbe immaginar mai quanto quella maraviglia sia costata ai suoi simili: un secolo di tentativi sfortunati, un altro secolo di trasformazioni continue, una legione di grandi ingegni che spesero intere vite attorno a un perfezionamento che un altro successivo fece cader nell'oblio, e poi il martirio del Papin, il suicidio di John Pitch, il marchese di Jouffroy ridotto alla miseria, il Fulton beffeggiato, il Sauvage impazzito, una sequela interminabile d'ingiustizie e di lotte miserande, da lasciare in dubbio, leggendo la storia delle grandi invenzioni, se basti l'esempio del genio e della costanza eroica di chi le fece, a consolare la coscienza umana dell'ignoranza caparbia, della cupidigia feroce, dell'invidia infame che le ha combattute, e che, potendo, le avrebbe uccise. Tutto questo dice con le sue cento voci aspre e affannose quel colosso mirabile, destinato forse anch'esso a parere ai nostri nipoti lontani un rozzo e debole apparecchio di principianti.
Risalendo, incontrai sulla sommità della scala il grande prete, il quale, accennandomi con una mano la macchina, mi rizzò l'indice dell'altra davanti al viso, come un cero. Non capii. Voleva dirmi che la macchina del Galileo era costata un milione. Lo ringraziai, scansando il dito, e mi ritrovai sopra coperta a tempo giusto per vedere per la prima volta il mio Commissario nell'esercizio delle sue funzioni di pretore, e in una causa curiosissima. Entrava in quel momento nel suo ufficio la grossa bolognese di prua, con una faccia di leonessa ferita, e col suo inseparabile borsone a tracolla. L'uscio non essendo mascherato che da una sottile tendina verde, si sentiva qualche parola. Povero Commissario! Non tardai ad avere un'idea della santissima pazienza che egli doveva esercitare in quella specie di sedute. La voce della querelante incominciò concitata dalla collera, piena di superbia e di minacce. Non capii altro se non che si lagnava d'un'ingiuria, e che questa doveva essere una supposizione che aveva fatta un passeggiero sopra il contenuto del suo borsone misterioso. Riferiva il fatto, chiedeva la punizione dell'ingiuriatore, intimava al Commissario di fare il suo dovere. Questi la richiamò al rispetto della carica e le raccomandò di calmarsi, promettendo di domandare informazioni. A quelle parole, la voce di lei si raddolcì un poco, e mi parve che incominciasse un racconto, con un'intonazione sentimentale, che s'alzava grado a grado al drammatico. Sì, era la sua autobiografia, una delle solite: una famiglia distinta; un parente che scriveva nei giornali, e che avrebbe messi tutti a segno; la madre, il padre, una buona educazione, e poi delle disgrazie, l'ingiustizia della sorte, una vita illibata... A un tratto, la crisi inevitabile: uno scoppio di pianto. Allora udii la voce del Commissario che la confortava. E intanto si era formato davanti all'uscio un gruppo di donne e d'uomini della terza classe, fra i quali una faccia buffa di contadino, a cui mancava la punta del naso, e che doveva essere il reo, che s'andava scolpando: — Infine... non ho mica detto d'esser sicuro, io...: non ho fatto altro che una supposizione... - Era il reo. Infatti, essendosi affacciato all'uscio il Commissario, egli disse: - Son io, - ed entrò. Subito s'udì un'eruzione d'improperi bolognesi, che mandarono all'aria la famiglia distinta: - Carogna d'un fastidi! At el feghet d'avgnìrom dinanz? At ciap pr'el col, brott purzèll! brott grògn d'un vilan seinza educazion! - Poi s'intesero le tre voci insieme, poi quella sola del colpevole. Diamine! La cagion della lite era proprio il contenuto ipotetico di quella famosa borsa, intorno al quale si beccavano il cervello da nove giorni tutti i capi ameni di prua, facendo le più bizzarre congetture del mondo. Ma la parola incriminata non s'intese. S'intese però il Commissario fare una risciacquata al contadino, minacciandogli i ferri, e questi chieder scusa, e la bolognese brontolare ancora; dopo di che l'uno uscì a capo basso e l'altra a fronte alta; ed io, alzata la tendina verde, vidi il giudice buttato a traverso al divano, con le mani sui fianchi, soffocato da un accesso d'ilarità , e spossato dallo sforzo che aveva fatto per contenerlo. Qual era dunque la supposizione? Che cosa ci doveva essere in quella benedetta borsa?... Oh! Impossibile indovinarlo! Una delle più buffonesche stramberie che possano passare pel capo d'un burlone impertinente; una pensata di cui avrebbe riso sotto i baffi anche il più arcigno moralista, e a cui l'autore delle Baruffe chiozzotte, salvo il rispetto, avrebbe potuto apporre il suo nome. E fui costretto anch'io a chieder aiuto al divano. Ma dovetti alzarmi subito perché entrava un'altra donna a lagnarsi d'una voce che avevano "messa in giro" a suo carico. Povero Commissario! - gli dissi uscendo; — la giornata è cominciata male e minaccia di finir peggio. — Eh! questo non è nulla! - rispose con la sua dolce rassegnazione. E data un'occhiata al termometro: — Vedrà - soggiunse — quando saremo ai trentasei gradi. — E ripresa la sua faccia di pretore, si rivolse alla nuova venuta.
Ma già il caldo aveva guastato le cose anche a poppa, come potei vedere benissimo la sera. Era una cosa da far compassione davvero. Fra quei quattro gatti, che dieci giorni prima non si conoscevano, che dopo altri dieci giorni si sarebbero separati per sempre, che avrebbero dovuto tutti non pensare ad altro che agli affetti o agli interessi che avevan lasciati in Europa o da cui erano attesi in America, là , su quelle quattro tavole sospese sopra l'abisso, s'era già ordita una trama intricata d'antipatie e d'inimicizie: astii nazionali fra il chileno e gli argentini, fra il peruviano e il chileno, fra gli italiani e i francesi; picche fra italiani di province diverse; gelosie miserabili d'ambizione fra le signore; una fungaia di passioncelle vergognose, che si manifestavano in sguardi maligni, e in ostentazioni reciproche di trascuranza o di avversione. Una metà dei passeggieri avrebbe messo le dita negli occhi all'altra metà . E non conto le altre sudicerie. E così nelle terze come nelle prime. Veramente, se il Galileo fosse andato a fondo tutt'a un tratto, non avrebbe affogato un grande carico di nobili sensi. Le due sole persone che, a giudizio d'occhio, avrebbero meritato di sornuotare, erano la signorina di Mestre e il garibaldino, che anche quella sera stavan seduti vicini, discorrendo. La relazione, mi disse l'agente di cambio, era nata da questo: che lui era stato compagno d'armi d'un fratello della ragazza, ferito a Bezzecca, e morto in un ospedale di Brescia. Certo, egli doveva vivere col pensiero al di sopra delle misere passioni degli altri, poiché il suo viso esprimeva una così ferma noncuranza di sé, della vita, della gente, un così alto e freddo disprezzo d'ogni bassezza, che nessuno se gli avvicinava, come se tutti avessero fiutato in lui un nemico d'istinto. Essa parlava; egli l'ascoltava, rispettoso, ma impassibile. E mi colpì, e mi rimase nella mente come l'impressione più viva di quella giornata, il modo come si separarono, la sera tardi: vedo ancora davanti a quella larva bianca, a quel viso di morta, su cui non balenava più altro che un raggio di speranza in un'altra vita, alzarsi e chinare il capo quel bel colosso sdegnoso, segnato dell'impronta del suicidio.
L'OCEANO GIALLO
Arrivato a questo punto, trovo sulla copertina della carta del Berghaus, sulla quale segnavo ogni giorno qualche ricordo, le parole: 11° giorno, colpo apoplettico spirituale. E mi riviene in mente un fat...
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