[Pagina precedente]...ssi da me, che meditava profondamente sull'ago calamitato. Se ne staccò appunto nel momento che l'agente ritornava, con la faccia d'un cacciatore che ha fatto presa. - Abbiamo un po' di movimento, - gli disse quegli, placidamente. - Già , - rispose l'agente; - di beccheggio. - Con questi scherzi amorevoli si passava il tempo.
Il mare non si godeva che sul far della notte, dopo che i passeggieri l'avevano sgombrato, tranne due o tre solitari. A quell'ora, quando sul cielo ancora un po' chiaro a occidente, il mare intagliava una linea nera purissima, ed essendo tutto nero, come un mare di pece, non attirava gli occhi in alcun punto determinato, era piacevole abbandonarsi a quel va e vieni di pensieri slegati e laceri, che somiglia al movimento delle immagini nel sogno; a cui battevano la misura i colpi cadenzati dell'elice. Ma i pensieri, a quell'ora, pigliano il color del mare. Davanti a quella faccia sconfinata delle acque che non mostra alcuna traccia né dell'uomo né del tempo, lo scopo del nostro viaggio, i nostri interessi, il nostro paese, tutto ci appar così lontano, confuso, piccolo, misero! E pensare che tre giorni prima di partire siamo stati feriti nell'anima dal saluto freddo d'un conoscente incontrato in via Barbaroux... Che pietà ! Ora quelli paion ricordi d'un'altra esistenza, che risorgono un momento appena, e precipitano, s'affogano in quell'abisso smisurato che ci si apre sotto ed intorno. E ci abbandoniamo al mare sopra una nave immaginaria che vada e vada senza posa, di là dalle ultime terre, per quell'immenso oceano australe, da cui tutti i continenti apparirebbero a un Micromega come raggruppati, rattratti nell'altro emisfero per la paura della sua solitudine. Ma in quella solitudine si perde e si sgomenta la fantasia, e rivola con desiderio impetuoso fra la razza umana, in mezzo alle creature più amate, in quella stanza, dove sono raccolti quei visi, al chiarore d'un lume, che brilla ora alla nostra mente come un sole. Ma quei visi non sorridono, e su tutti è dipinta un'inquietudine pensierosa, e l'idea che ogni giro dell'elice accresce la distanza enorme che ci separa da loro, ci rattrista. Distanza enorme? Per scemarla nel nostro concetto, ci proviamo a rimpicciolire il pianeta col paragone dell'universo: una goccia d'acqua sopra una molecola di mota: quale distanza possono interporre gl'infusori fra loro? Ma il pensiero è forzatamente ricondotto alla comparazione del mondo con noi medesimi, e il sentimento consueto della maraviglia rinasce. Sì, un'enorme distanza ci divide. Scacciamo dunque l'immagine di quei visi. Ripensiamo al mare, addormentiamo la mente sopra queste acque infinite. Che bel mare! E che pace! Eppure anche questa solitudine solenne quanti orrori ha veduti! Ha veduto passare gli avventurieri ingordi d'oro, che affilavano le armi per i macelli infami del nuovo mondo, rivolte di schiavi schiacciate nel sangue dentro alle stive dei negrieri, lunghi martirii di equipaggi famelici, naufragi orrendi nelle tenebre, agonie forsennate di famiglie avviticchiate alle sommità degli alberi, e urlanti col viso al cielo il nome di Dio, soffocato dall'onda. E questo potrebbe seguire a noi, per lo scoppio d'una caldaia, questa notte, fra un'ora, fra un minuto. Rabbrividendo, ci raffiguriamo allora la discesa lenta del nostro cadavere, giù di zona in zona, a traverso ad altrettanti mondi diversi di piante, di pesci, di crostacei, di molluschi, lungo una verticale di otto mila metri, fino all'oscurità fredda di quella distesa sterminata di fango vivente e di scheletri microscopici che forma il fondo del mare...
L'enigma della vita
LÃ sotto ondeggia e mormora...
Di chi son questi versi? Ah! il mio buon Panzacchi! Che farà ora? E qui ci si presenta la visione d'una serata festosa del Circolo degli artisti di Torino, come un gran cerchio luminoso che corra sul mare col piroscafo, e in cui girano, brillano cento visi conosciuti, e par di sentire le risa e le voci. Poi, a un tratto, si spegne. Lampi, sogni, tutte le amicizie, tutte le gioie, tutte le opere umane: la realtà eterna non è che questa formidabile massa d'acqua che fascia quattro quinti della terra, e questa terra, questa testa spaventosa, col cocuzzolo di ghiaccio e il cervello di fuoco, che fugge urlando e piangendo nell'infinito. Oh mistero! Prodigio! Se si potesse restar qui, in un'isola, per secoli e secoli, con la fronte nelle mani, a pensare, pensare, pur di riuscire a comprendere una volta, anche per la durata d'un lampo!
Duu! Cinqu! Vot!! Tucc! — Mi riscossero queste grida d'un gruppo d'emigranti lombardi che giocavano ogni sera alla mora sul castello centrale. A quell'ora, nel salone di sotto, si giocava agli scacchi e al domino; i passeggieri che dormivano in coperta ricevevan gli amici nei camerini illuminati, dove bevevano il Bordeaux o la birra; e a prua, intorno all'osteria, c'era ressa di passeggieri, che si presentavano col loro buono, debitamente firmato dal Commissario, per una tazza di caffè, per un bicchierino di rum, per un mezzo litro di vino, tanto per festeggiare la giornata finita. Andai a prua, a zonzare un poco, come un malvivente, sotto la protezione dell'oscurità , nella quale apparivano come ombre dei gruppi di donne coi bimbi addormentati sul seno, degli uomini che trincavano soli, in disparte, dei giovanotti che andavano in volta, tra la folla, con dei musi di cani da caccia, ficcando gli occhi in tutti i canti. E quella sera, per la prima volta, assistetti alla separazione dei due sessi, che si faceva sotto la sorveglianza del piccolo marinaio gobbo, incaricato di mandar le donne a dormire. Erano corsi, dalla partenza, nove giorni di vita claustrale all'aria aperta: gli affetti matrimoniali s'erano riattizzati un poco, e oltre alle legittime, s'eran formate delle coppie nuove, in cui quella maniera di vita produceva lo stesso effetto che nelle altre. Ma il gobbetto grigio doveva spartirle tutte egualmente, senza considerazione di alcun diritto legale, e ogni sera alle dieci, puntuale e inesorabile come il vecchio Silva, compariva con la lanterna alla mano, e cominciava a girare per tutti gli angoli, a sciogliere amplessi e a troncar colloqui amorosi, dicendo ogni cinque passi: - A letto! A letto, donne! A letto, ragazze! — Era una scena delle più comiche. Le coppie resistevano; separate qui, s'andavano a riattaccare più in là , tra il macello e il lavatoio, all'ombra della cambusa, dietro ai gabbioni, nei passaggi coperti, in tutti i luoghi dove non battesse il lume d'un fanale. E il povero gobbo ritornava sui suoi passi, ripetendo pazientemente: - Andemmo, donne! Andemmo, figgie, che l'è oôa! - qualche volta, per ingranziarsi le renitenti, diceva: - Andemmo, scignôe! - A capo d'un quarto d'ora, le donne sfilavano in processione, in mezzo a due ali d'uomini, come a una passeggiata di gala, e sparivano l'una dopo l'altra, per le porticine dei dormitori, giù nel ventre del bastimento. Alcune tornavano indietro a porgere ancora una volta i bimbi al bacio del marito, o a stringere e ristringere la mano ai nuovi amici; altre si soffermavano a chiamare i ragazzetti rimasti indietro: - Gioanniiin! - Baccicciiin! - Putela! - Picciriddu! - Piccinitt! - Gennariello! - e la lanterna tenuta in alto dal gobbetto rischiarava degli sguardi languidi di belle ragazze, degli occhi lustri di giovanotti, delle facce di mariti scontenti, a cui il regolamento pesava. - Andemmo! Andemmo! — continuava a gridare il gobbetto. - Un po' ciù presto, scignôe! - Finalmente, anche la coda della processione fu sotto. Ma il gobbo, che conosceva i suoi polli, tornò a fare un giro a prua, sicuro di trovarci ancora qualche amoretto rintanato, qualche peccato mortale racchiocciolato al buio; e ce lo trovò in fatti, come ce lo trovava ogni sera. Seguitandolo a pochi passi, sentii le sue esclamazioni di padre guardiano scandalizzato, e le sue minacce, a cui rispondevano delle voci maschili, che lo mandavano al diavolo, ed altre, più dolci, che parea che negassero o domandassero grazia. Ma egli non fece grazia, e vidi passare di corsa delle donne col capo basso, coi capelli in disordine, che cercavan di nascondersi agli sguardi dei curiosi, e sparivano, inseguite da una scarica di colpi di tosse. Spazzato che ebbe gli ultimi rimasugli d'amore, il vecchio gobbo si fermò con la sua lanterna davanti a me, e asciugandosi la fronte con la mano: - Anche questa giornataccia è finita! - esclamò. - Ah! che mestê! - Ma sul suo viso rozzo di buon diavolaccio, mentre guardava giù per la scala del dormitorio, si leggeva un sentimento di pietà per tutta quella miseria, e fors'anche per tutti quei desideri che aveva cacciati là sotto "d'ordine superiore". - È un duro dovere, eh? - gli dissi, per attaccare discorso, e sentire una delle sue sentenze filosofiche. Egli mi guardò in viso, alzando un po' la lanterna, e, dopo un momento di riflessione, disse sentenziosamente: - Quando un ommo si trova nella posizione che mi trovo mi, di giudicare il mondo com'è che si presenta a bordo, poveri e scignori, e le cose che succedono in mare, da ridere e da piangere, tanto donne che uomini, ma ancora più le donne che gli uomini, mi creda, scignore, quello lì si forma un'idea, che non si stupisce più di niente, e compatisce tutto. - Detto questo s'allontanò; e scomparsi a poco a poco anche gli uomini, il piroscafo rimase queto e in silenzio, come uno smisurato animale che scorresse sulle acque assopito, non facendo sentir altro che le pulsazioni regolari del suo cuore mostruoso.
SUL TROPICO DEL CANCRO
Il giorno dopo si doveva passare il tropico del Cancro. Me ne diede l'annunzio la mattina presto il solito cameriere, abbassando gli occhi: poiché aveva fra l'altre anche questa civetteria, d'abbassare gli occhi, mentre parlava, come per non lasciarsi leggere nell'anima la gioia del suo ultimo trionfo amoroso. Il tropico del Cancro! Era l'annunzio sgradito di quasi tremila miglia di zona torrida che s'avevano a percorrere prima di risentire la carezza fresca degli alisei dell'altro emisfero, e al solo pensarvi mi pareva di sentirmi filare due gocciole tepide giù dalle tempie. Misi il viso al finestrino: una maraviglia! L'oceano placidissimo, tutto argento e rosa, coperto d'un velo diafano di vapori a cui il sole nascente dava l'aspetto d'un leggerissimo polverìo luminoso, e a poche miglia lontano, in mezzo a quella bellezza immensa e virginea dell'acqua e dell'aria, un bastimento grande, che pareva immobile, con tutte le vele aperte e candide, come un gigantesco cigno dall'ali tese, che ci guardasse. Apro, e mi vien nella fronte e nel petto un soffio delizioso d'aria marina, che mi ricorre per le vene, e mi riscote tutto, come l'alito d'un mondo ringiovanito. Il bastimento era un veliere svedese che veniva probabilmente dal Capo di Buona Speranza, il primo che incontravamo dopo Gibilterra. Per pochi minuti mi biancheggiò agli occhi nella chiarezza di quell'aurora incantevole, simpatico come il saluto d'un amico: poi si nascose; e allora l'oceano mi parve più solitario e più silenzioso di prima; ma benigno sempre, come non l'avevo visto ancora, e d'una bellezza gentile, che faceva immaginare all'orizzonte le rive d'un giardino infinito. Era una di quelle mattine in cui i passeggieri si vanno incontro sul cassero col viso ridente e con le mani tese, come se il primo soffio d'aria avesse portato a ciascun di loro una buona notizia.
Ma quel bel tempo a capo di poche ore s'intorbidò, il cielo si coperse di nuvole, e l'aria divenne greve e calda, come se avessimo fatto un salto dalla primavera nell'estate. Eravamo entrati in quella grande massa di vapori, antico terrore dei naviganti, che il caldo dell'equatore solleva dall'oceano e ammonta su tutta la zona intertropicale: e che le creature fortunate di Giulio Verne, quando viaggiano per il cielo, vedono come una fascia oscura tesa attorno al nostro pianeta, simile alle strisce della faccia di Giove. Il bel mare della mattina era stato l'ultimo sorriso della zona temperata, blandita...
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