[Pagina precedente]...inazione ammirabile, Angiolina non ne volle sapere. Era già vestita per uscire e poi l'aveva già avvisato che ella non intendeva disonorare la propria casa.
Egli, nel frattempo, aveva fatta un'osservazione per la quale credette di dover deviare dai suoi proponimenti. S'accorse ch'ella lo esaminava con curiosità per capire se in lui l'amore fosse diminuito o aumentato dal possesso. Ella si tradiva con un'ingenuità commovente; doveva aver conosciuti degli uomini che provavano ripugnanza per la donna avuta. A lui fu molto facile di provarle ch'egli non era di quelli. Rassegnatosi al digiuno ch'ella gli imponeva, si accontentò di quei baci di cui era vissuto per tanto tempo. Ma presto i baci soli non bastarono più, ed egli si ritrovò a mormorarle nelle orecchie tutte le dolci parole apprese nel lungo amore: -
Ange!
Ange! Il Balli gli aveva fornito l'indirizzo di una casa ove davano a fitto delle stanze. Egli gliela indicò. A lungo, per non sbagliare, ella si fece descrivere quella casa e la posizione della stanza, ciò che imbarazzò non poco Emilio il quale non l'aveva vista. Aveva baciato troppo per saper osservare, ma quando fu solo sulla via s'accorse, con sua grande meraviglia, che soltanto allora sapeva esattamente dove bisognava andare a cercare quella stanza. Non v'era dubbio! Era stato diretto da Angiolina.
Vi andò subito. La proprietaria della camera si chiamava Paracci, ed era una vecchierella nauseante dalle vesti sucide sotto alle quali s'indovinavano le forme del petto abbondante, un resto di giovinezza in mezzo ad una vizza vecchiaia, la testa con pochi capelli ricci sotto ai quali luceva la pelle porosa e rossa. Lo accolse con grande gentilezza e, subito d'accordo, gli disse ch'ella non affittava che a chi conosceva molto bene dunque a lui sì.
Egli volle vedere la stanza e vi entrò, seguito dalla vecchia, per la porta sulle scale. Un'altra porta - sempre chiusa - disse la Paracci con l'accento di chi giura, la congiungeva al resto del quartiere. Più che ammobiliata, era ingombrata da un enorme letto dall'apparenza pulita e da due grandi armadi; c'era un tavolo nel mezzo, un sofà e quattro sedie. Non ci sarebbe stato posto neppure per un solo altro mobile.
La vedova Paracci stava a guardarlo, le mani sui grossi fianchi sporgenti, con l'aspetto sorridente - una brutta smorfia che metteva in mostra la bocca sdentata - di chi si attende una parola di soddisfazione. Infatti nella stanza c'era anche qualche tentativo d'abbellimento. In capo al letto stava piantato un ombrello chinese e sulla parete, anche qui, erano appese varie fotografie.
Gli sfuggì un grido di sorpresa vedendo accanto alla fotografia di una donna seminuda, quella di una giovanetta ch'egli aveva conosciuta, un'amica di Amalia, morta qualche anno prima. Chiese alla vecchia donde le fossero venute quelle fotografie, ed ella rispose che le aveva comperate per adornare quella parete. Egli guardò lungamente la faccia buona di quella povera ragazza che aveva posato tutta impettita dinanzi alla macchina del fotografo, forse l'unica volta in sua vita, per servire da ornamento a quella stanzaccia.
Eppure in quella stanzaccia, in presenza della sozza vecchia che stava a guardarlo lieta d'aver conquistato un nuovo cliente, egli sognò d'amore. Precisamente in quelle condizioni era eccitantissimo figurarsi Angiolina che veniva a portargli l'amore desiato. Con un fremito di febbre, egli pensò: domani avrò la donna amata!
La ebbe quantunque mai l'avesse amata meno di quel giorno. L'attesa l'aveva reso infelice; gli pareva d'essere nell'impossibilità di godere. Circa un'ora prima di andare all'appuntamento pensò che se non vi avesse trovata la gioia attesa, avrebbe dichiarato ad Angiolina di non volerla vedere più, e precisamente con le parole: - Sei tanto disonesta che mi ripugni. - Aveva pensate queste parole accanto ad Amalia, invidiandola perché la vedeva disfatta ma tranquilla. E aveva pensato che l'amore, per Amalia, restava il puro grande desiderio divino: era nell'effettuazione che la piccola natura umana si trovava bruttata, avvilita.
Ma quella sera godette. Angiolina lo fece attendere oltre mezz'ora, un secolo. Gli parve di sentire sola ira, un'ira impotente che aumentava l'odio ch'egli diceva di sentire per lei. Pensava di picchiarla quando sarebbe venuta. Non v'erano scuse possibili perché ella stessa aveva detto che quel giorno non andava a lavorare e che perciò poteva essere puntuale. Non era anzi per la certezza di non dover ritardare, ch'ella non aveva voluto accettare l'impegno per la sera prima? Ed ora lo aveva fatto aspettare prima un giorno intero e poi tanto, tanto tempo.
Ma quando ella arrivò, egli, che già aveva disperato di vederla, fu sorpreso della propria fortuna. Le mormorò sulle labbra e nel collo delle parole di rimprovero a cui ella neppure rispose perché avevano il suono di una preghiera, di una adorazione. Nella penombra la stanza della vedova Paracci divenne un tempio. Per lungo tempo nessuna parola turbò il sogno. Angiolina dava certo più di quanto aveva promesso. Ella aveva disciolti gli abbondanti capelli, ed egli si ritrovò con la testa appoggiata su un guanciale d'oro. Come un bambino egli vi appoggiò il volto per fiutarne il colore. Ella era un'amante compiacente e - in quel letto egli non sapeva lagnarsene - indovinava con un'intelligenza affinatissima i suoi desiderî. Là tutto diveniva soddisfazione e godimento.
Appena più tardi il ricordo di quella scena gli fece digrignare i denti dall'ira. La passione l'aveva liberato per un istante dal doloroso abito dell'osservatore, ma non gli aveva impedito d'imprimersi nella memoria ogni singolo particolare di quella scena. Ora appena poteva dire di conoscere Angiolina. La passione gli aveva dati dei ricordi indelebili, e su questi riusciva a ricostruire dei sentimenti che Angiolina non aveva espressi, che aveva anzi accuratamente celati. A mente fredda egli non sarebbe riuscito a tanto. Così, invece, egli sapeva, sapeva con certezza apodittica come se ella glielo avesse dichiarato a chiare note, ch'ella aveva conosciuto dei maschi che l'avevano soddisfatta meglio. Aveva detto più volte: - Ma adesso basterà Non ne posso più. - Aveva cercato un accento di ammirazione che non aveva trovato. Egli avrebbe potuto dividere la serata in due parti. Nella prima ella lo aveva amato; nella seconda s'era fatta forza per non respingerlo. Quando abbandonò il letto, tradì d'essere stanca di starvi. Allora, naturalmente, per indovinarla tutta, non occorse grande forza d'osservazione, perché, vedendolo esitante, ella lo spinse fuori dal letto dicendogli scherzosamente: - Andiamo, bell'uomo. - Bell'uomo! La parola ironica doveva essere stata pensata da una mezz'ora circa Egli l'aveva letta sulla sua faccia.
Come sempre, egli avrebbe avuto bisogno di restare solo per avere il tempo d'ordinare le proprie osservazioni. Per il momento percepì confusamente ch'ella non gli apparteneva più, la medesima sensazione che aveva avuta quella sera, in cui s'era trovato con Angiolina al Giardino Pubblico per aspettarvi il Balli e Margherita. Era un dolore atroce di amor proprio ferito e d'amarissima gelosia. Volle liberarsene, e non poté lasciarla senza aver tentato di riconquistarla.
L'accompagnò sulla via, poi, quantunque ella dichiarasse di aver fretta, l'indusse a rincasare per la via ch'egli aveva percorsa quella sera in cui ella era stata vista con l'ombrellaio. La via di Romagna era proprio quella della serata memoranda, con i suoi alberi nudi, che si proiettavano sul cielo chiaro, e il suolo ineguale coperto di fanghiglia densa. Una grande differenza era quella d'aver accanto Angiolina. Ma tanto lontana! Per la seconda volta, su quella stessa via, egli la cercò.
Le descrisse la corsa fatta allora. Le raccontò come il desiderio di vederla gliel'avesse fatta scorgere più volte dinanzi a sé, poi come una leggera ferita prodotta da una caduta l'avesse fatto piangere, perché era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Ella lo stette ad ascoltare lusingata di avere ispirato un tale amore e quand'egli si commosse lagnandosi che tanto soffrire non gli avesse conquistato tutto l'amore cui credeva di aver diritto, ella protestò con energia: - Come puoi dire una cosa simile? - Lo baciò per protestare con efficacia. Poi però commise l'errore, come al solito dopo averci ben pensato: - Non mi sono data al Volpini per essere tua? - Ed Emilio piegò la testa convinto.
Quel Volpini, senza saperlo, gli avvelenava le gioie che, secondo Angiolina, gli aveva procurate. Invece di soffrire per l'indifferenza di Angiolina, dopo di aver udito menzionare il Volpini, Emilio temette di lei e dei piani che in lei sospettava. Nel convegno seguente, con le prime parole egli chiese quali garanzie avesse avute dal Volpini per abbandonarglisi. - Oh, Volpini non può più fare a meno di me - disse ella sorridendo. Per il momento anche Emilio si tranquillò e gli parve che quella garanzia fosse sufficiente. Egli stesso, tanto più giovane del Volpini, non poteva fare a meno di Angiolina.
Durante il secondo appuntamento l'osservatore non s'assopì in lui un solo instante. N'ebbe il premio in una scoperta dolorosissima: nel tempo in cui egli con tanto sforzo s'era tenuto lontano da Angiolina, qualcuno doveva aver occupato il suo posto. Un altro, che non doveva somigliare ad alcuno degli uomini che egli conosceva e temeva. Non Leardi, non Giustini, non Datti. Doveva essere stato costui a prestarle degli accenti nuovi, bruschi, non manchevoli di spirito, e dei giuochi di parola grossolani. Doveva essere uno studente, perché ella maneggiava con grande disinvoltura alcune parole latine volte a senso turpe. Rispuntò quel disgraziato Merighi, il quale certamente non poteva sospettare che si continuasse ad abusare di lui; era stato lui ad insegnarle anche quelle parole latine. Come se ella fosse stata capace di sapere di latino senza farne pompa per tanto tempo! Invece chi le aveva insegnato il latino doveva essere il medesimo che le aveva apprese anche delle canzonette veneziane liberissime. Cantandole ella stonava, ma anche per saperle così doveva averle udite parecchie volte, tant'è vero che non avrebbe saputo rifare una sola nota delle canzonette udite più volte dal Balli. Doveva essere un veneziano perché ella si compiaceva spesso d'imitare la pronunzia veneziana che prima, probabilmente, aveva ignorata. Emilio lo sentiva accanto a sé, beffardo gaudente; arrivava a ricostruirlo fino a un certo punto, ma poi gli sfuggiva e non arrivò mai a conoscerne il nome. Nella raccolta di fotografie d'Angiolina non v'era alcuna faccia nuova. Il nuovo rivale non doveva avere il vezzo di regalare la propria fotografia, o forse ad Angiolina sembrava miglior politica di non esporre più le fotografie, alla cui raccolta ella aveva dedicata la propria vita. Tant'è vero che sulla parete mancava anche quella di Emilio.
Egli non ebbe alcun dubbio che se si fosse imbattuto in quell'individuo, l'avrebbe riconosciuto a certi gesti ch'ella doveva aver imitati da lui. Il peggio era che dalla sola ripetuta domanda da chi ella avesse appreso quel gesto o quella parola, ella indovinò la sua gelosia: - Geloso! - disse con un'intuizione sorprendente vedendolo serio e mesto. Sì; egli era geloso. Soffriva quando per un'esitazione ella si cacciava con gesto maschile le mani nei capelli, o per sorpresa gridava; - Oh, la balena! - o, quando scorgendolo triste, gli chiedeva: - Sei
invelenà oggi? - Soffriva come se si fosse trovato a faccia a faccia col suo inafferrabile rivale. Per di più, con la fantasia eccitata dell'innamorato, egli credette di scoprire nei suoni della voce d'Angiolina delle copie di quelli serii e un po' imperiosi del Leardi. Anche il Sorniani le doveva aver insegnato qualche cosa, e persino il Balli aveva lasciato traccia di sé, essendo stato copiato accuratamente in una certa sua affettazione d'intontita sorpresa o ammirazione. Emilio stesso non si riconosceva in alcuna parola o gest...
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