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... . Ritrasse Ferdinando re de' Romani, che poi fu imperatore, e di quello tutti i figliuoli, cioè Massimiliano oggi imperatore et il fratello, ritrasse la reina Maria, e per l'imperatore Carlo il duca di Sassonia, quando era prigione. Ma che perdimento di tempo è questo? Non è stato quasi alcun signore di gran nome, né principe, né gran donna, che non sia stata ritratta da Tiziano, veramente in questa parte eccellentissimo pittore. Ritrasse il re Francesco Primo di Francia, come s'è detto, Francesco Sforza duca di Milano, il marchese di Pescara, Antonio da Leva, Massimiano Stampa, il signor Giovanbatista Castaldo et altri infiniti signori. Parimente in diversi tempi, oltre alle dette, ha fatto molte altre opere: in Vinezia di ordine di Carlo Quinto fece in una gran tavola da altare Dio in Trinità, dentro a un trono la Nostra Donna, e Cristo fanciullo con la colomba sopra, et il campo tutto di fuoco per lo amore, et il Padre cinto di cherubini ardenti; da un lato è il detto Carlo Quinto e dall'altro l'imperatrice, fasciati d'un panno lino, con mani giunte in atto d'orare, fra molti Santi, secondo che gli fu comandato da Cesare, il quale fino allora nel colmo delle vittorie, cominciò a mostrare d'avere animo di ritirarsi, come poi fece, dalle cose mondane, per morire veramente da cristiano timorato de Dio e disideroso della propria salute. La quale pittura disse a Tiziano l'imperatore, che volea metterla in quel monasterio dove poi finì il corso della sua vita. E perché è cosa rarissima, si aspetta che tosto debba uscire fuori stampata. Fece il medesimo un Prometeo alla reina Maria, il quale sta legato al monte Caucaso et è lacerato dall'aquila di Giove, et un Sisifo all'inferno, che porta un sasso, e Tizio stracciato dall'avoltoio. E queste tutte dal Prometeo infuori ebbe sua maestà, e con esse un Tantalo della medesima grandezza, cioè quanto il vivo, in tela et a olio. Fece anco una Venere et Adone, che sono maravigliosi, essendo ella venutasi meno et il giovane in atto di volere partire da lei, con alcuni cani intorno molto naturali. In una tavola della medesima grandezza fece Andromeda legata al sasso e Perseo che la libera dall'orca marina, che non può essere altra pittura più vaga di questa, come è anco un'altra Diana, che standosi in un fonte con le sue ninfe, converte Atteon in cervio. Dipinse parimente un'Europa, che sopra il toro passa il mare. Le quali pitture sono appresso al Re catolico tenute molto care, per la vivacità che ha dato Tiziano alle figure con i colori in farle quasi vive e naturali. Ma è ben vero che il modo di fare che tenne in queste ultime è assai diferente dal fare suo da giovane. Conciò sia che le prime son condotte con una certa finezza e diligenza incredibile e da essere vedute da presso e da lontano, e queste ultime, condotte di colpi, tirate via di grosso e con macchie, di maniera che da presso non si possono vedere e di lontano appariscono perfette; e questo modo è stato cagione che molti, volendo in ciò immitare e mostrare di fare il pratico, hanno fatto di goffe pitture, e ciò adiviene perché se bene a molti pare che elle siano fatte senza fatica, non è così il vero e s'ingannano, perché si conosce che sono rifatte e che si è ritornato loro addosso con i colori tante volte, che la fatica vi si vede. E questo modo sì fatto è giudizioso, bello e stupendo, perché fa parere vive le pitture e fatte con grande arte, nascondendo le fatiche. Fece ultimamente Tiziano in un quadro alto braccia tre e largo quattro, Gesù Cristo fanciullo in grembo alla Nostra Donna et adorato da' Magi, con buon numero di figure d'un braccio l'una, che è opera molto vaga, sì come è ancora un altro quadro, che egli stesso ricavò da questo e diede al cardinale di Ferrara il vecchio. Un'altra tavola, nella quale fece Cristo schernito da' giudei, che è bellissima, fu posta in Milano nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a una cappella.
Alla reina di Portogallo in un quadro fece un Cristo poco minore del vivo, battuto da' giudei alla colonna, che è bellissimo. In Ancona, all'altare maggiore di San Domenico fece nella tavola Cristo in croce, et a' piedi la Nostra Donna, San Giovanni e San Domenico bellissimi e di quell'ultima maniera fatta di macchie, come si disse pure ora. È di mano del medesimo nella chiesa de' Crucicchieri in Vinezia la tavola, che è all'altare di San Lorenzo, dentro al quale è il martirio di quel Santo, con un casamento pieno di figure, e San Lorenzo a giacere in iscorto, mezzo sopra la grata, sotto un gran fuoco, et intorno alcuni che l'accendono. E perché ha finto una notte, hanno due serventi in mano due lumiere, che fanno lume dove non arriva il riverbero del fuoco che è sotto la grata, che è spesso e molto vivace; et oltre ciò ha finto un lampo, che venendo di cielo e fendendo le nuvole, vince il lume del fuoco e quello delle lumiere, stando sopra al Santo et all'altre figure principali; et oltre ai detti tre lumi, le genti che ha finto di lontano alle finestre del casamento hanno il lume da lucerne e candele che loro sono vicine, et insomma il tutto è fatto con bell'arte, ingegno e giudizio. Nella chiesa di San Sebastiano all'altare di San Niccolò è di mano dello stesso Tiziano in una tavoletta un San Niccolò che par vivo, a sedere in una sedia finta di pietra, con un Angelo che gli tiene la mitria, la quale opera gli fece fare Messer Niccolò Crasso avocato. Dopo fece Tiziano per mandare al Re cattolico una figura da mezza coscia in su d'una Santa Maria Madalena scapigliata, cioè con i capelli che le cascano sopra le spalle, intorno alla gola e sopra il petto, mentre ella alzando la testa con gl'occhi fissi al cielo mostra compunzione nel rossore degl'occhi, e nelle lacrime dogliezza de' peccati; onde muove questa pittura chiunche la guarda estremamente, e, che è più, ancor che sia bellissima non muove a lascivia, ma a comiserazione. Questa pittura, finita che fu, piacque tanto a [Badoer] Silvio gentiluomo viniziano, che donò a Tiziano per averla cento scudi, come quelli che si diletta sommamente della pittura; là dove Tiziano fu forzato farne un'altra, che non fu men bella, per mandarla al detto Re catolico.
Si veggiono anco ritratti di naturale da Tiziano un cittadino viniziano suo amicissimo chiamato il Sinistri, et un altro nominato Messer Paulo da Ponte, del quale ritrasse anco una figliuola, che allora aveva, bellissima giovane, chiamata la signora Giulia da Ponte, comare di esso Tiziano, e similmente la signora Irene, vergine bellissima, letterata, musica et incaminata nel disegno, la quale morendo circa sette anni sono, fu celebrata quasi da tutte le penne degli scrittori d'Italia. Ritrasse Messer Francesco Filetto oratore di felice memoria, e nel medesimo quadro dinanzi a lui un suo figliuolo, che pare vivo, il qual ritratto è in casa di Messer Matteo Giustiniano amatore di queste arti, che ha fattosi fare da Iacomo da Bassano pittore un quadro che è molto bello, sì come anco sono molte altre opere di esso Bassano, che sono sparse per Vinezia e tenute in buon pregio, e massimamente per cose piccole et animali di tutte le sorti.
Ritrasse Tiziano il Bembo un'altra volta, cioè poi che fu cardinale, il Fracastoro et il cardinale Accolti di Ravenna, che l'ha il duca Cosimo in guardaroba, et il nostro Danese scultore ha in Vinezia in casa sua un ritratto di man di Tiziano d'un gentiluomo da Ca' Delfini. Si vede di mano del medesimo Messer Niccolò Zeno, la Rossa moglie del Gran Turco, d'età d'anni sedici, e Cameria di costei figliuola con abiti et acconciature bellissime. In casa Messer Francesco Sonica, avocato e compare di Tiziano, è il ritratto di esso Messer Francesco di mano dell'istesso, et in un quadrone grande la Nostra Donna, che andando in Egitto, pare discesa dell'asino e postasi a sedere sopra un sasso nella via con San Giuseppo appresso e San Giovannino, che porge a Cristo fanciullo certi fiori colti per man d'un Angelo dai rami d'un albero che è in mezzo a quel bosco pieno d'animali, nel lontano del quale si sta l'asino pascendo; la quale pittura, che è oggi graziosissima, ha posta il detto gentiluomo in un suo palazzo, che ha fatto in Padoa da Santa Iustina. In casa d'un gentiluomo de' Pisani appresso San Marco è di mano di Tiziano il ritratto d'una gentildonna che è cosa maravigliosa. A monsignor Giovanni della Casa fiorentino, stato uomo illustre per chiarezza di sangue e per lettere a' tempi nostri, avendo fatto un bellissimo ritratto d'una gentildonna che amò quel signor mentre stette in Vinezia, meritò da lui essere onorato con quel bellissimo sonetto, che comincia:

Ben vegg'io, Tiziano, in forme nove
l'idolo mio, che i begl'occhi apre e gira,

con quello che segue. Ultimamente mandò questo pittore eccellente al detto Re catolico una cena di Cristo con gl'Apostoli in un quadro sette braccia lungo, che fu cosa di straordinaria bellezza.
Oltre alle dette cose e molte altre di minor pregio, che ha fatte quest'uomo e si lasciano per brevità, ha in casa l'infrascritte abbozzate e cominciate: il martirio di San Lorenzo, simile al sopra detto, il quale disegna mandare al Re catolico; una gran tela, dentro la quale è Cristo in croce con i ladroni et i crucifissori a basso, la quale fa per Messer Giovanni d'Anna, et un quadro, che fu cominciato per il doge Grimani, padre del patriarca d'Aquileia. E per la sala del palazzo grande di Brescia ha dato principio a tre quadri grandi, che vanno negl'ornamenti del palco, come s'è detto ragionando di Cristofano e d'un suo fratello, pittori bresciani. Cominciò anco molti anni sono, per Alfonso Primo duca di Ferrara, un quadro d'una giovane ignuda, che s'inchina a Minerva, con un'altra figura a canto, et un mare, dove nel lontano è un Nettunno in mezzo sopra il suo carro, ma per la morte di quel signore, per cui si faceva quest'opera a suo capriccio, non fu finita e si rimase a Tiziano. Ha anco condotto a buon termine, ma non finito, un quadro dove Cristo appare a Maria Madalena nell'orto in forma d'ortolano, di figure quanto il naturale, e così un altro di simile grandezza, dove, presente la Madonna e l'altre Marie, Cristo morto si ripone nel sepolcro, et un quadro parimente d'una Nostra Donna, che è delle buone cose che siano in quella casa; e come s'è detto un suo ritratto, che da lui fu finito quattro anni sono, molto bello e naturale, e finalmente un San Paulo che legge, mezza figura, che pare quello stesso ripieno di Spirito Santo. Queste dico tutte opere ha condotto, con altre molte che si tacciono per non fastidire, infino alla sua età di circa settantasei anni.
È stato Tiziano sanissimo e fortunato quant'alcun altro suo pari sia stato ancor mai, e non ha mai avuto dai cieli se non favori e felicità. Nella sua casa di Vinezia sono stati quanti principi, letterati e galantuomini sono al suo tempo andati o stati a Vinezia, perché egli, oltre all'eccellenza dell'arte, è stato gentilissimo, di bella creanza e dolcissimi costumi e maniere. Ha avuto in Vinezia alcuni concorrenti, ma di non molto valore, onde gl'ha superati agevolmente coll'eccellenza dell'arte e sapere trattenersi e farsi grato ai gentiluomini; ha guadagnato assai perché le sue opere gli sono state benissimo pagate, ma sarebbe stato ben fatto che in questi suoi ultimi anni non avesse lavorato se non per passatempo, per non scemarsi coll'opere manco buone la riputazione guadagnatasi negl'anni migliori e quando la natura per la sua declinazione non tendeva all'imperfetto.
Quando il Vasari scrittore della presente storia fu l'anno 1566 a Vinezia, andò a visitare Tiziano come suo amicissimo e lo trovò, ancor che vecchissimo fusse, con i pennelli in mano a dipignere, et ebbe molto piacere di vedere l'opere sue e di ragionare con esso, il quale gli fece conoscere Messer Gian Maria Verdezotti gentiluomo veniziano, giovane pien di virtù, amico di Tiziano et assai ragionevole, disegnatore e dipintore, come mostrò in alcuni paesi disegnati da lui bellissimi. Ha costui di mano di Tiziano, il quale ama et osserva come padre, due figure dipinte a olio in due nicchie, cioè un Apollo et una Diana. Tiziano adunque, avendo d'ottime pitture adornato Vinezia, anzi tutta Italia et altre parti del mondo, merita essere amato et osservato dagl'artefici, et in molte cose ammirato et imitato, come quegli che ha fatto e fa tuttavia opere degne d'infinita lode, e dureranno quanto può la memoria degl'uomini illustri.
Ora se bene molti sono stati con Tiziano per imparare, non è però grande il numero di coloro, che veramente si possano dire suoi discepoli: perciò che non ha molto insegnato, ma ha imparato ciascuno più e meno, secondo che ha saputo pigliare dall'opre fatte da Tiziano. È stato con esso lui fra gli altri un Giovanni fiamingo, che di figure, così piccole come grandi, è stato assai lodato maestro, e nei ritratti maraviglioso, come si vede in Napoli, dove è vivuto alcun tempo e finalmente morto. Furono di man di costui (il che gli doverà in tutti i tempi essere d'onore) i disegni dell'anotomie, che fece intagliare, e mandar fuori con la sua opera, l'eccellentissimo Andrea Vessalio. Ma quegli che più di tutti ha imitato Tiziano è stato Paris Bondone, il quale nato in Trevisi di padre trivisano e madre viniziana, fu condotto d'otto anni a Vinezia in casa alcuni suoi parenti. Dove, imparato che ebbe gramatica e fattosi eccellentissimo musico, andò a stare con Tiziano, ma non vi consumò molti anni, perciò che vedendo quell'uomo non essere molto vago d'insegnare a' suoi giovani, anco pregato da loro sommamente et invitato con la pacienza a portarsi bene, si risolvé a partirsi, dolendosi infinitamente che di quei giorni fusse morto Giorgione, la cui maniera gli piaceva sommamente, ma molto più l'aver fama di bene e volentieri insegnare con amore quello che sapeva. Ma poi che altro fare non si poteva, si mise Paris in animo di volere per ogni modo seguitare la maniera di Giorgione. E così, datosi a lavorare et a contrafare dell'opere di colui, si fece tale, che venne in bonissimo credito, onde nella sua età di diciotto anni gli fu allogata una tavola da farsi per la chiesa di San Niccolò de' frati minori; il che avendo inteso Tiziano, fece tanto con mezzi e con favori, che gliele tolse di mano, o per impedirgli che non potesse così tosto mostrare la sua virtù, o pure tirato dal disiderio di guadagnare.
Dopo essendo Paris chiamato a Vicenza a fare una storia a fresco nella loggia di piazza ove si tien ragione, et a canto a quella che aveva già fatta Tiziano del giudizio di Salamone, andò ben volentieri e vi fece una storia di Noè con i figliuoli, che fu tenuta per diligenza e disegno opera ragionevole e non men bella che quella di Tiziano, in tanto che sono tenute amendue, da chi non sa il vero, d'una mano medesima. Tornato Paris a Vinezia, fece a fresco alcuni ignudi a' piè del ponte di Rialto, per lo qual saggio gli furono fatte fare alcune facciate di case per Vinezia. Chiamato poi a Trevisi, vi fece similmente alcune facciate et altri lavori, et in particolare molti ritratti che piacquero assai: quello del magnifico Messer Alberto Unigo, quello di Messer Marco Seravalle, di Messer Francesco da Quer e del canonico Rovere e monsignor Alberti. Nel Duomo della detta città fece in una tavola nel mezzo della chiesa ad istanza del signor vicario la Natività di Gesù Cristo, et appresso una Ressurezione. In San Francesco fece un'altra tavola al cavaliere Rovere, un'altra in San Girolamo et una in Ogni Santi con variate teste di Santi e Sante, e tutte belle e varie nell'attitudini e ne' vestimenti. Fece un'altra tavola in San Lorenzo, et in San Polo fece tre cappelle: nella maggiore delle quali fece Cristo che resuscita, grande quanto è il vivo et accompagnato da gran moltitudine d'Angeli, nell'altra alcuni Santi con molti Angeli attorno, e nella terza Gesù Cristo in una nuvola, con la Nostra Donna che gli presenta San Domenico, le quali tutte opere l'hanno fatto conoscere per valentuomo et amorevole della sua città.
In Vinezia poi, dove quasi sempre è abitato, ha fatto in diversi tempi molte opere, ma la più bella e più notabile e dignissima di lode, che facesse mai Paris, fu una storia nella scuola di San Marco da San Giovanni e Polo, nella quale è quando quel pescatore presenta alla signoria di Vinezia l'anello di San Marco, con un casamento in prospettiva bellissimo, intorno al quale siede il senato con il doge; in fra i quali senatori sono molti ritratti di naturale, vivaci e ben fatti oltre modo. La bellezza di quest'opera, lavorata così bene e colorita a fresco, fu cagione che egli cominciò ad essere adoperato da molti gentiluomini, onde nella casa grande de' Foscari da San Barnaba fece molte pitture e quadri, e fra l'altre un Cristo che sceso al limbo, ne cava i Santi Padri, che è tenuta cosa singolare. Nella chiesa di San Iob in Canal reio fece una bellissima tavola, et in San Giovanni in Bragola un'altra, et il medesimo a Santa Maria della Celeste et a Santa Marina. Ma conoscendo Paris che a chi vuole essere adoperato in Vinezia bisogna far troppa servitù in cortegiando questo e quello, si risolvé, come uomo di natura quieto e lontano da certi modi di fare, ad ogni occasione che venisse andare a lavorare di fuori quell'opere che innanzi gli mettesse la fortuna, senza averle a ire mendicando; per che trasferitosi con buona occasione l'anno 1538 in Francia al servizio del re Francesco, gli fece molti ritratti di dame et altri quadri di diverse pitture, e nel medesimo tempo dipinse a monsignor di Guisa un quadro da chiesa bellissimo et uno da camera di Venere e Cupido. Al cardinale di Loreno fece un Cristo ecce homo, et un Giove con Io, e molte altre opere. Mandò al re di Pollonia un quadro, che fu tenuto cosa bellissima, nel quale era Giove con una ninfa. In Fiandra mandò due altri bellissimi quadri: una Santa Maria Madalena nell'eremo, accompagnata da certi Angeli, et una Diana, che si lava con le sue ninfe in un fonte, i quali due quadri gli fece fare il Candiano milanese, medico della reina Maria, per donargli a sua altezza. In Augusta fece in casa de' Fuccheri molte opere nel loro palazzo, di grandissima importanza e per valuta di tremila scudi. E nella medesima città fece per i Prineri, grand'uomini di quel luogo, un quadrone grande, dove in prospettiva mise tutti i cinque ordini d'architettura, che fu opera molto bella; et un altro quadro da camera, il quale è appresso il cardinale d'Augusta. In Crema ha fatto in Santo Agostino due tavole, in una delle quali è ritratto il signor Giulio Manfrone, per un San Giorgio tutto armato. Il medesimo ha fatto molte opere in Civitale di Belluno, che sono lodate, e particolarmente una tavola in Santa Maria et un'altra in San Giosef, che sono bellissime. In Genova mandò al signor Ottaviano Grimaldo un suo ritratto grande quanto il vivo e bellissimo, e con esso un altro quadro simile d'una donna lascivissima.
Andato poi Paris a Milano, fece nella chiesa di San Celso in una tavola alcune figure in aria, e sotto un bellissimo paese, secondo che si dice, a istanza del signor Carlo da Roma, e nel palazzo del medesimo due gran quadri a olio: in uno Venere e Marte sotto la rete di Vulcano, e nell'altro il re Davit che vede lavare Bersabè dalle serve di lei alla fonte, et appresso il ritratto di quel signore e quello della signora Paula Visconti sua consorte, et alcuni pezzi di paesi non molto grandi, ma bellissimi. Nel medesimo tempo dipinse molte favole d'Ovidio al marchese d'Astorga, che le portò seco in Ispagna. Similmente al signor Tommaso Marini dipinse molte cose, delle quali non accade far menzione. E questo basti aver detto di Paris, il quale essendo d'anni settantacinque, se ne sta con sua comodità in casa quietamente, e lavora per piacere a richiesta d'alcuni prìncipi et altri amici suoi, fuggendo la concorrenza e certe vane ambizioni per non essere offeso e perché non gli sia turbata una sua somma tranquillità e pace da coloro che non vanno (come dice egli) in verità, ma con doppie vie, malignamente e con niuna carità, là dove egli è avezzo a vivere semplicemente e con una certa bontà naturale, e non sa sottilizzare, né vivere astutamente. Ha costui ultimamente condotto un bellissimo quadro per la duchessa di Savoia, d'una Venere con Cupido, che dormono custoditi da un servo, tanto ben fatti, che non si possono lodare a bastanza.
Ma qui non è da tacere che quella maniera di pittura, che è quasi dismessa in tutti gl'altri luoghi, si mantien viva dal serenissimo senato di Vinezia, cioè il musaico; perciò che di questo è stato quasi buona e principal cagione Tiziano, il quale quanto è stato in lui ha fatto opera sempre che in Vinezia sia esercitato e fatto dare onorate provisioni a chi ha di ciò lavorato. Onde sono state fatte diverse opere nella chiesa di San Marco e quasi rinovati tutti i vecchi e ridotta questa sorte di pittura a quell'eccellenza che può essere et ad altro termine, ch'ella non fu in Firenze et in Roma al tempo di Giotto, d'Alesso Baldovinetti, del Ghirlandai e di Gherardo miniatore. E tutto che si è fatto in Vinezia è venuto dal disegno di Tiziano e d'altri eccellenti pittori, che n'hanno fatto disegni e cartoni coloriti, acciò l'opere si conducessino a quella perfezzione a che si veggiono condotte quelle del portico di San Marco, dove in una nicchia molto bella è il giudizio di Salamone tanto bello, che non si potrebbe in verità con i colori fare altrimenti. Nel medesimo luogo è l'albero di Nostra Donna di mano di Lodovico Rosso, tutto pieno di Sibille e Profeti fatti d'una gentil maniera, ben commessa e con assai e buon rilievo. Ma niuno ha meglio lavorato di quest'arte a' tempi nostri, che Valerio e Vincenzio Zuccheri trivisani, di mano de' quali si veggiono in San Marco diverse e molte storie, e particolarmente quella dell'Apocalisse, nella quale sono d'intorno al trono di Dio i quattro Evangelisti in forma d'animali, i sette candelabri et altre molte cose, tanto ben condotte, che guardandole da basso paiono fatte di colori con i pennelli a olio; oltra che si vede loro in mano et appresso quadretti piccoli pieni di figurette fatte con grandissima diligenza; in tanto, che paiono non dico pitture, ma cose miniate, e pure sono di pietre commesse. Vi sono anco molti ritratti di Carlo Quinto imperatore, di Ferdinando suo fratello, che a lui succedette nell'imperio, e Massimiliano figliuolo di esso Ferdinando et oggi imperatore. Similmente la testa dell'illustrissimo cardinal Bembo, gloria del secol nostro, e quella del magnifico ... fatte con tanta diligenza et unione e talmente accomodati i lumi, le carni, le tinte, l'ombre e l'altre cose, che non si può veder meglio né più bell'opera di simil materia. E di vero è gran peccato che questa arte eccellentissima del fare di musaico, per la sua bellezza et eternità, non sia più in uso di quello che è, e che per opera de' prìncipi, che posson farlo, non ci si attenda.
Oltre ai detti, ha lavorato di musaico in San Marco a concorrenza de' Zuccheri, Bartolomeo Bozzato, il quale si è portato anch'egli nelle sue opere in modo da doverne essere sempre lodato. Ma quello che in ciò fare è stato a tutti di grandissimo aiuto, è stata la presenza e gl'avvertimenti di Tiziano, del quale, oltre i detti e molti altri, è stato discepolo e l'ha aiutato in molte opere un Girolamo (non so il cognome se non di Tiziano).

IL FINE DELLA VITA DI TIZIANO DA CADOR PITTORE



DESCRIZIONE DELL'OPERE DI IACOPO SANSAVINO SCULTORE FIORENTINO

Mentre che Andrea Contucci scultore dal monte Sansavino, avendo già acquistato in Italia et in Ispagna nome, dopo il Buonarruoto, del più eccellente scultore et architetto che fosse nell'arte, si stava in Firenze per fare le due figure di marmo che dovevano porsi sopra la porta che volta alla Misericordia del tempio di San Giovanni, gli fu dato a imparare l'arte della scultura un giovanetto figliuolo di Antonio di Iacopo Tatti, il quale aveva la natura dotato di grande ingegno e di molta grazia nelle cose che faceva di rilievo, per che conosciuto Andrea quanto nella scultura dovesse il giovane venire eccellente, non mancò con ogni accuratezza insegnargli tutte quelle cose che potevano farlo conoscere per suo discepolo. E così amandolo sommamente et ingegnandosi con amore e dal giovane essendo parimente amato, giudicarono i popoli che dovesse non pure essere eccellente al pari del suo maestro, ma che lo dovesse passare di gran lunga. E fu tanto l'amore e benivolenza reciproca fra questi quasi padre e figliuolo, che Iacopo non più del Tatta, ma del Sansovino cominciò in que' primi anni a essere chiamato, e così è stato e sarà sempre.
Cominciando dunque Iacopo a esercitare, fu talmente aiutato dalla natura nelle cose che egli fece, che ancora che egli non molto studio e diligenzia usasse talvolta nell'operare, si vedeva nondimeno in quello che faceva facilità, dolcezza, grazia et un certo che di leggiadro, molto grato agli occhi degli artefici, in tanto che ogni suo schizzo, o segno, o bozza ha sempre avuto una movenzia e fierezza, che a pochi scoltori suole porgere la natura. Giovò anco pur assai all'uno et all'altro la pratica e l'amicizia, che nella loro fanciullezza e poi nella gioventù ebbero insieme Andrea del Sarto et Iacopo Sansovino, i quali seguitando la maniera medesima nel disegno, ebbero la medesima grazia nel fare, l'uno nella pittura e l'altro nella scultura, per che conferendo insieme i dubbii dell'arte e facendo Iacopo per Andrea modelli di figure, s'aiutavano l'un l'altro sommamente. E che ciò sia vero ne fa fede questo, che nella tavola di San Francesco delle monache di via Pentolini è un San Giovanni Evangelista il quale fu ritratto da un bellissimo modello di terra, che in quei giorni il Sansovino fece a concorrenzia di Baccio da Monte Lupo, perché l'Arte di Por Santa Maria voleva fare una statua di braccia quattro di bronzo, in una nicchia al canto di Or San Michele, dirimpetto a' Cimatori; per la quale ancora che Iacopo facesse più bello modello di terra che Baccio, fu allogata nondimeno più volentieri al Montelupo, per esser vecchio maestro, che al Sansovino, ancora che fusse meglio l'opera sua, se bene era giovane. Il qual modello è oggi nelle mani degl'eredi di Nanni Unghero, che è cosa bellissima, al quale Nanni essendo amico allora il Sansovino, gli fece alcuni modelli di putti grandi di terra e d'una figura d'un San Niccola da Tolentino, i quali furno fatti l'uno e l'altro di legno grandi quanto il vivo con aiuto del Sansovino, e posti alla cappella del detto Santo nella chiesa di Santo Spirito.
Essendo per queste cagioni conosciuto Iacopo da tutti gl'artefici di Firenze, e tenuto giovane di bello ingegno et ottimi costumi, fu da Giuliano da San Gallo, architetto di papa Iulio Secondo, condotto a Roma con grandissima satisfazione sua; perciò che piacendogli oltre modo le statue antiche che sono in Belvedere, si mise a disegnarle. Onde Bramante, architetto anch'egli di papa Iulio, che allora teneva il primo luogo et abitava in Belvedere, visto de' disegni di questo giovane e di tondo rilievo uno ignudo a giacere di terra, che egli aveva fatto, il quale teneva un vaso per un calamaio, gli piacque tanto, che lo prese a favorire e gli ordinò che dovesse ritrar di cera grande il Laocoonte, il quale faceva ritrarre anco da altri, per gettarne poi uno di bronzo, cioè da Zaccheria Zachi da Volterra, Alonso Berugetta spagnolo e dal Vecchio da Bologna, i quali quando tutti furono finiti, Bramante fece vederli a Raffaello Sanzio da Urbino, per sapere chi si fusse di quattro portato meglio. Là dove fu giudicato da Raffaello che il Sansovino, così giovane, avesse passato tutti gli altri di gran lunga, onde poi per consiglio di Domenico cardinal Grimani, fu a Bramante ordinato che si dovesse fare gittare di bronzo quel di Iacopo; e così, fatta la forma e gettatolo di metallo, venne benissimo. Là dove rinetto e datolo al cardinale, lo tenne fin che visse non men caro che se fusse l'antico. E venendo a morte, come cosa rarissima lo lasciò alla Signoria serenissima di Vinezia, la quale avendolo tenuto molti anni nell'armario della sala del Consiglio de' Dieci, lo donò finalmente l'anno 1534 al cardinale di Loreno, che lo condusse in Francia.
Mentre che il Sansovino acquistando giornalmente con li studii dell'arte nome in Roma era in molta considerazione, infermandosi Giuliano da San Gallo, il quale lo teneva in casa in Borgo Vecchio, quando partì di Roma per venire a Firenze in ceste e mutare aria, gli fu da Bramante trovata una camera pure in Borgo Vecchio nel palazzo di Domenico dalla Rovere cardinale di San Clemente, dove ancora alloggiava Pietro Perugino, il quale in quel tempo per papa Giulio dipigneva la volta della camera di Torre Borgia; per che avendo visto Pietro la bella maniera del Sansovino, gli fece fare per sé molti modelli di cera, e fra gli altri un Cristo deposto di croce, tutto tondo, con molte scale e figure, che fu cosa bellissima. Il quale insieme con l'altre cose di questa sorte e modelli di varie fantasie, furono poi raccolte tutte da Messer Giovanni Gaddi, e sono oggi nelle sue case in Fiorenza alla piazza di Madonna. Queste cose dico furono cagione che 'l Sansovino pigliò grandissima pratica con maestro Luca Signorelli, pittore cortonese, con Bramantino da Milano, con Bernardino Pinturichio, con Cesare Cesariano, che era allora in pregio per avere comentato Vitruvio, e con molti altri famosi e begli ingegni di quella età.
Bramante adunque, desiderando che 'l Sansovino fusse noto a papa Iulio, ordinò di fargli aconciare alcune anticaglie. Onde egli messovi mano mostrò nel rassettarle tanta grazia e diligenza, che 'l Papa e chiunque le vidde giudicò che non si potesse far meglio. Le quali lode, perché avanzasse se stesso, spronarono di maniera il Sansovino, che datosi oltra modo alli studii, essendo anco gentiletto di complessione, con qualche trasordine addosso di quelli che fanno i giovani, s'amalò di maniera, che fu forzato per salute della vita ritornare a Fiorenza, dove giovandoli l'aria nativa, l'aiuto d'esser giovane e la diligenzia e cura de' medici, guarì del tutto in poco tempo. Per lo che parve a Messer Piero Pitti, il quale procurava allora che nella facciata dove è l'oriuolo di Mercato Nuovo in Firenze si dovesse fare una Nostra Donna di marmo, che essendo in Fiorenza molti giovani valenti et ancora maestri vecchi, si dovesse dare quel lavoro a chi di questi facesse meglio un modello. Là dove fattone fare uno a Baccio da Montelupo, un altro a Zaccheria Zatii da Volterra, che era anch'egli il medesimo anno tornato a Fiorenza, un altro a Baccio Bandinelli et un altro al Sansovino, posti in giudizio, fu da Lorenzo Credi, pittore eccellente e persona di giudizio e di bontà, dato l'onore e l'opera al Sansovino, e così dagl'altri giudici, artefici et intendenti. Ma se bene gli fu perciò allogata questa opera, fu nondimeno indugiato tanto a provedergli e condurgli il marmo per opera et invidia d'Averardo da Filicaia, il quale favoriva grandemente il Bandinello et odiava il Sansovino, che veduta quella lunghezza, fu da altri cittadini ordinato che dovesse fare uno degl'Apostoli di marmo grandi che andavano nella chiesa di Santa Maria del Fiore. Onde fatto il modello d'un San Iacopo, il quale modello ebbe, finito che fu l'opera, Messer Bindo Altoviti, cominciò quella figura e continovando di lavorarla con ogni diligenzia e studio, la condusse a fine tanto perfettamente, che ella è figura miracolosa e mostra in tutte le parti essere stata lavorata con incredibile studio e diligenzia ne' panni, nelle braccia e mani traforate e condotte con tant'arte e con tanta grazia, che non si può nel marmo veder meglio. Onde il Sansovino mostrò in che modo si lavoravano i panni traforati, avendo quelli condotti tanto sottilmente e sì naturali, che in alcuni luoghi ha campato nel marmo la grossezza che 'l naturale fa nelle pieghe et in su' lembi e nella fine de' vivagni del panno: modo dificile, e che vuole gran tempo e pacienza a volere che riesca in modo che mostri la perfezzione dell'arte; la quale figura è stata nell'Opera da quel tempo che fu finita dal Sansovino fin a l'anno 1565. Nel qual tempo del mese di dicembre fu messa nella chiesa di Santa Maria del Fiore, per onorare la venuta della reina Giovanna d'Austria, moglie di don Francesco de' Medici principe di Fiorenza e di Siena, dove è tenuta cosa rarissima, insieme con gli altri Apostoli pure di marmo, fatti a concorrenzia da altri artefici, come s'è detto nelle vite loro.
Fece in questo tempo medesimo per Messer Giovanni Gaddi una Venere di marmo in sur un nicchio, bellissima, sì come era anco il modello che era in casa Messer Francesco Montevarchi, amico di queste arti, e gli mandò male per l'innundazione del fiume d'Arno l'anno 1558. Fece ancora un putto di stoppa et un cecero bellissimo quanto si può di marmo per il medesimo Messer Giovanni Gaddi con molt'altre cose, che sono in casa sua, et a Messer Bindo Altoviti fece fare un camino di spesa grandissima, tutto di macigno intagliato da Benedetto da Rovezzano, che fu posto nelle case sue di Firenze; dove al Sansovino fece fare una storia di figure piccole per metterla nel fregio di detto camino, con Vulcano et altri dei, che fu cosa rarissima. Ma molto più begli sono due putti di marmo che erano sopra il fornimento di questo camino, i quali tenevano alcune arme delli Altoviti in mano, i quali ne sono stati levati dal signor don Luigi di Toledo, che abita la casa di detto Messer Bindo, e posti intorno a una fontana nel suo giardino in Fiorenza dietro a' frati de' Servi. Due altri putti pur di marmo di straordinaria bellezza sono di mano del medesimo in casa Giovanfrancesco Ridolfi, i quali tengono similmente un'arme.
Le quali tutte opere feciono tenere il Sansovino da tutta Fiorenza e da quelli dell'arte eccellentissimo e grazioso maestro. Per lo che Giovanni Bartolini, avendo fatto murare nel suo giardino di Gualfonda una casotta, volse che il Sansovino gli facesse di marmo un Bacco giovinetto quanto il vivo, per che dal Sansovino fattone il modello, piacque tanto a Giovanni, che fattogli consegnare il marmo, Iacopo lo cominciò con tanta voglia, che lavorando volava con le mani e con l'ingegno. Studiò dico quest'opera di maniera, per farla perfetta, che si mise a ritrarre dal vivo ancor che fusse di verno un suo garzone, chiamato Pippo del Fabbro, facendolo stare ignudo buona parte del giorno, il quale Pippo sarebbe riuscito valente uomo perché si sforzava con ogni fatica d'imitare il maestro. Ma o fusse lo stare nudo e con la testa scoperta in quella stagione, o pure il troppo studiare e patir disagi, non fu finito il Bacco, che egli impazzò in sulla maniera del fare l'attitudini, e lo mostrò, perché un giorno che pioveva dirottamente, chiamando il Sansovino Pippo et egli non rispondendo, lo vidde poi salito sopra il tetto in cima d'un camino, ignudo, che faceva l'attitudine del suo Bacco; altre volte pigliando lenzuola o altri panni grandi, e' quali bagnati se gli recava adosso all'ignudo come fusse un modello di terra o cenci et acconciava le pieghe, poi salendo in certi luoghi strani et arrecandosi in attitudini or d'una or d'altra maniera, di profeta, d'apostolo, di soldato o d'altro, si faceva ritrarre, stando così lo spazio di due ore senza favellare e non altrimenti che se fusse stato una statua immobile. Molte altre simili piacevoli pazzie fece il povero Pippo, ma sopra tutto mai non si poté dimenticare il Bacco che avea fatto il Sansovino, se non quando in pochi anni si morì.
Ma tornando alla statua, condotta che fu a fine fu tenuta la più bella opera che fusse mai fatta da maestro moderno, atteso che 'l Sansovino mostrò in essa una difficultà, non più usata, nel fare spiccato intorno intorno un braccio in aria che tiene una tazza del medesimo marmo traforata tra le dita, tanto sottilmente che se ne tien molto poco, oltre che per ogni verso è tanto ben disposta et accordata quella attitudine e tanto ben proporzionate e belle le gambe e le braccia attaccate a quel torso, che pare nel vederlo e toccarlo molto più simile alla carne. In tanto che quel nome che gl'ha, da chi lo vede se gli conviene, et ancor molto più. Quest'opera dico, finita che fu, mentre che visse Giovanni fu visitata in quel cortile di Gualfonda da tutti i terrazzani e forestieri, e molto lodata.
Ma poi essendo Giovanni morto, Gherardo Bartolini suo fratello la donò al duca Cosimo, il quale come cosa rara la tiene nelle sue stanze con altre bellissime statue che ha di marmo. Fece al detto Giovanni un Crocifisso di legno molto bello, che è in casa loro, e molte cose antiche e di man di Michelagnolo. Avendosi poi l'anno 1514 a fare un ricchissimo apparato in Fiorenza per la venuta di papa Leone X, fu dato ordine dalla Signoria e da Giuliano de' Medici che si facessero molti archi trionfali di legno in diversi luoghi della città. Onde il Sansovino non solo fece i disegni di molti, ma tolse in compagnia di Andrea del Sarto a fare egli stesso la facciata di Santa Maria del Fiore, tutta di legno, con statue e con istorie et ordine d'architettura, nel modo a punto che sarebbe ben fatto ch'ella stesse, per torne via quello che vi è di componimento et ordine tedesco; per che messovi mano (per non dire ora alcuna cosa della coperta di tela, che per San Giovanni et altre feste solennissime soleva coprire la piazza di Santa Maria del Fiore e di esso San Giovanni, essendosi di ciò in altro luogo favellato a bastanza), dico che sotto queste tende aveva ordinato il Sansovino la detta facciata di lavoro corinto, e che fattala a guisa d'arco trionfale, aveva messo sopra un grandissimo imbasamento da ogni banda le colonne doppie con certi nicchioni fra loro pieni di figure tutte tonde, che figuravano gl'Apostoli, e sopra erano alcune storie grandi di mezzo rilievo, finte di bronzo, di cose del Vecchio Testamento, alcune delle quali ancora si veggiono lungarno in casa de' Lanfredini. Sopra seguitavano gl'architravi, fregi e cornicioni, che risaltavano, et appresso varii e bellissimi frontespizii. Negl'angoli poi degl'archi, nelle grossezze e sotto, erano storie dipinte di chiaro scuro di mano d'Andrea del Sarto, e bellissime. Et in somma questa opera del Sansovino fu tale, che veggendola papa Leone disse che era un peccato che così fatta non fusse la vera facciata di quel tempio, che fu cominciata da Arnolfo tedesco.
Fece il medesimo Sansovino nel detto apparato per la venuta di Leone X, oltre la detta facciata, un cavallo di tondo rilievo, tutto di terra e cimatura, sopra un basamento murato, in atto di saltare e con una figura sotto di braccia nove. La quale opera fu fatta con tanta bravura e fierezza, che piacque e fu molto lodata da papa Leone, onde esso Sansovino fu da Iacopo Salviati menato a baciare i piedi al Papa, che gli fece molte carezze. Partito il Papa di Firenze et abboccatosi a Bologna con il re Francesco Primo di Francia, si risolvé tornarsene a Firenze, onde fu dato ordine al Sansovino che facesse un arco trionfale alla porta San Gallo, onde egli non discordando punto da se medesimo, lo condusse simile all'altre cose che aveva fatte, cioè bello a maraviglia, pieno di statue e di quadri di pitture ottimamente lavorati. Avendo poi deliberato Sua Santità che si facesse di marmo la facciata di San Lorenzo, mentre che s'aspettava da Roma Raffaello da Urbino et il Buonarruoto, il Sansovino d'ordine del Papa fece un disegno di quella, il quale piacendo assai ne fu fatto fare da Baccio d'Agnolo un modello di legno bellissimo. Et intanto avendone fatto un altro il Buonarruoto, fu a lui et al Sansovino ordinato che andassero a Pietra Santa; dove avendo trovati molti marmi, ma difficili a condursi, persono tanto tempo, che tornati a Firenze trovarono il Papa partito per Roma. Per che andatigli amendue dietro con i loro modelli ciascuno da per sé, giunse a punto Iacopo quando il modello del Buonarruoto si mostrava a Sua Santità in Torre Borgia; ma non gli venne fatto quello che si pensava, perciò che, dove credeva di dovere almeno sotto Michelagnolo far parte di quelle statue, che andavano in detta opera, avendogliene fatto parole il Papa e datogliene intenzione Michelagnolo, s'avide giunto in Roma che esso Buonarruoto voleva essere solo.
Tuttavia, essendosi condotto a Roma, per non tornarsene a Firenze invano, si risolvé fermarsi in Roma e quivi attendere alla scultura et architettura. E così avendo tolta a fare per Giovanfrancesco Martelli fiorentino una Nostra Donna di marmo, maggiore del naturale, la condusse bellissima col putto in braccio, e fu posta sopra un altare dentro alla porta principale di Santo Agostino quando s'entra a man ritta. Il modello di terra della quale statua donò al priore di Roma de' Salviati, che lo pose in una cappella del suo palazzo, sul canto della piazza di San Piero al principio di Borgo Nuovo. Fece poi, non passò molto, per la cappella che aveva fatta fare il reverendissimo cardinale Albonrense nella chiesa delli Spagnuoli in Roma, sopra l'altare una statua di marmo di braccia quattro oltra modo lodatissima, d'un San Iacopo, il quale ha una movenzia molto graziosa et è condotto con perfezzione e giudizio, onde gli arecò grandissima fama, e mentre che faceva queste statue, fece la pianta e modello e poi cominciò a fare murare la chiesa di San Marcello de' frati de' Servi, opera certo bellissima. E seguitando d'essere adoperato nelle cose d'architettura, fece a Messer Marco Coscia una loggia bellissima sulla strada che va a Roma, a Ponte Molle nella via Appia; per la Compagnia del Crocifisso della chiesa di San Marcello un Crocifisso di legno da portare a processione molto grazioso, e per Antonio cardinale di Monte cominciò una gran fabbrica alla sua vigna fuor di Roma, in su l'Acqua vergine. E forse è di mano di Iacopo un molto bel ritratto di marmo di detto cardinal vecchio di Monte, che oggi è nel palazzo del signor Fabiano al Monte San Savino sopra la porta della camera principale di sala. Fece fare ancora la casa di Messer Luigi Leoni molto comoda, et in Banchi un palazzo, che è dalla casa de' Gaddi, il quale fu poi compero da Filippo Strozzi, che certo è comodo e bellissimo e con molti ornamenti.
Essendosi in questo tempo col favore di papa Leone levato sù la nazione fiorentina, a concorrenzia de' Tedeschi e delli Spagnuoli e de' Franzesi, i quali avevono chi finito e chi cominciato in Roma le chiese delle loro nazioni e quelle fatte adornare e cominciate a sfiziare solennemente, aveva chiesto di poter fare ancor essa una chiesa. Di che avendo dato ordine il Papa a Lodovico Capponi, allora consolo della nazione, fu deliberato che dietro Banchi al principio di strada Iulia in sulla riva del Tevere, si facesse una grandissima chiesa e si dedicasse a San Giovanni Batista, la quale per magnificenza, grandezza, spesa, ornamenti e disegno, quella di tutte l'altre nazioni avanzasse. Concorrendo dunque in fare disegni per quest'opera, Raffaello da Urbino, Antonio da San Gallo e Baldassarre da Siena et il Sansovino, veduto che il Papa ebbe i disegni di tutti, lodò come migliore quello del Sansovino, per avere egli oltre all'altre cose fatto su quattro canti di quella chiesa per ciascuno una tribuna e nel mezzo una maggiore tribuna, simile a quella pianta che Sebastiano Serlio pose nel suo secondo libro di architettura. Là onde, concorrendo col volere del Papa tutti i capi della nazione fiorentina con molto favore del Sansovino, si cominciò a fondare una parte di questa chiesa, lunga tutta ventidue canne; ma non vi essendo spazio e volendo pur fare la facciata di detta chiesa in sulla dirittura delle case di strada Iulia, erano necessitati entrare nel fiume del Tevere almeno quindici canne, il che piacendo a molti, per essere maggiore spesa e più superba il fare i fondamenti nel fiume, si mise mano a farli e vi spesero più di quarantamila scudi, che sarebbono bastanti a fare la metà della muraglia della chiesa. Intanto il Sansovino che era capo di questa fabbrica, mentre che di mano in mano si fondava, cascò, e fattosi male d'importanza, si fece dopo alcuni giorni portare a Fiorenza per curarsi, lasciando a quella cura, come s'è detto, per fondare il resto Antonio da San Gallo. Ma non andò molto, che avendo per la morte di Leone perduto la nazione uno apoggio sì grande et un principe tanto splendido, si abandonò la fabrica per quanto durò la vita di papa Adriano VI; poi creato Clemente, per seguitare il medesimo ordine e disegno fu ordinato che il Sansovino ritornasse e seguitasse quella fabrica nel medesimo modo che l'aveva ordinata prima, e così fu rimesso mano a lavorare. Et intanto egli prese a fare la sepoltura del cardinale d'Aragonia, e quella del cardinale Aginense, e fatto già cominciare a lavorare i marmi per gli ornamenti, e fatti molti modelli per le figure, aveva già Roma in poter suo e faceva molte cose per tutti quei signori importantissime, quando Dio per castigo di quella città e per abassare la superbia delli abitatori di Roma permise che venisse Borbone con l'esercito, a' sei giorni di maggio 1527, e che fusse messo a sacco e ferro e fuoco tutta quella città; nella quale rovina, oltre a molti altri belli ingegni che capitarono male, fu forzato il Sansovino a partirsi con suo gran danno di Roma et a fuggirsi in Vinezia, per indi passare in Francia a' servigi del Re, dove era già stato chiamato. Ma trattenendosi in quella città per provedersi molte cose, che di tutte era spogliato, e mettersi a ordine, fu detto al principe Andrea Griti, il quale era molto amico alle virtù, che quivi era Iacopo Sansovino; onde venuto in desiderio di parlargli, perché a punto in que' giorni Domenico cardinale Grimani gli aveva fatto intendere che 'l Sansovino sarebbe stato a proposito per le cupole di San Marco, lor chiesa principale, le quali, e dal fondamento debole, e dalla vecchiaia, e da essere male incatenate, erano tutte aperte e minacciavano rovina, lo fece chiamare, e dopo molte accoglienze e lunghi ragionamenti avuti, gli disse che voleva, e ne lo pregava, che riparasse alla rovina di queste tribune, il che promise il Sansovino di fare e rimediarvi; e così, preso a fare quest'opera, vi fece mettere mano; et accomodato tutte l'armadure di drento e fatto travate a guisa di stelle, puntellò nel cavo del legno di mezzo tutti i legni che tenevano il cielo della tribuna, e con cortine di legnami le ricinse di drento in guisa, che poi di fuora e con catene di ferro stringendole e rinfiancandole con altri muri, e di sotto facendo nuovi fondamenti a' pilastri che le reggevano, le fortificò et asicurò per sempre. Nel che fare fece stupire Vinezia e restare sodisfatto non pure il Gritti, e, che fu più, a quello serenissimo senato rendé tanta chiarezza della virtù sua, che essendo (finita l'opera) morto il protomaestro de' signori procuratori di San Marco, che è il primo luogo che danno quei signori agli ingegnieri et architetti loro, lo diedero a lui con la casa solita e con provisione assai conveniente. Là dove, accettatolo il Sansovino ben volentieri e fermato l'animo, divenne capo di tutte le fabbriche loro, con suo onore e commodo. Fece dunque primamente la fabbrica publica della Zecca, la quale egli disegnò e spartì dentro con tanto ordine e comodità per servizio e comodo di tanti manifattori, che non è in luogo nessuno un erario tanto bene ordinato, né con maggior fortezza di quello, il quale adornò tutto con ordine rustico molto bello, il quale modo, non si essendo usato prima in quella città, rese maraviglia assai agli uomini di quel luogo. Per lo che, conosciuto l'ingegno del Sansovino essere per servizio di quella città atto a ogni loro bisogno, lo feciono attendere molti anni alle fortificazioni dello stato loro. Né passò molto, che seguitò per ordine del Consiglio de' Dieci la bellissima e ricchissima fabrica della libreria di San Marco incontro al palazzo della Signoria, con tanto ordine d'intaglio, di cornici, di colonne, capitegli e mezze figure per tutta l'opera, che è una maraviglia. E tutto si è fatto senza risparmio niuno di spesa, onde costa infino a oggi centocinquantamila ducati et è tenuto molto in pregio in quella città per essere piena di ricchissimi pavimenti, di stucchi e di storie per le sale di quel luogo, e scale publiche adornate di varie pitture, come s'è ragionato nella vita di Batista Franco, oltre a molte altre belle comodità e ricchi ornamenti che ha nella entrata della porta principale, che rendono e maestà e grandezza, mostrando la virtù del Sansovino; il qual modo di fare fu cagione che in quella città, nella quale infino allora non era entrato mai modo se non di fare le case et i palazzi loro con un medesimo ordine, seguitando sempre ciascuno le medesime cose con la medesima misura et usanza vecchia, senza variare secondo il sito che si truovavano o secondo la comodità, fu cagione dico, che si cominciassero a fabricare con nuovi disegni e migliore ordine le cose publiche e le private. Et il primo palazzo che facesse fu quello di Messer Giorgio Cornaro, cosa bellissima e fatta con comodi et ornamenti condecenti, di spesa di scudi settantamila. Da che mosso un altro gentiluomo da Ca' Delfino, ne fece fare al Sansovino un altro minore con spesa di trentamila scudi, lodatissimo e bellissimo. E dopo fece quello del Moro con spesa di ventimila scudi, che fu similmente molto lodato, et appresso molti altri di minore spesa nella città e nel contado. In tanto che si può dire quella magnifica città oggi per quantità e qualità di sontuosi e bene intesi edifizii risplendere et essere in questa parte quello ch'ell'è per ingegno, industria e virtù di Iacopo Sansovino, che per ciò merita grandissima laude. Essendo con queste opere è stato cagione che i gentiluomini viniziani hanno condotta l'architettura moderna nella loro città, perciò che non solo vi si è fatto quello che è passato per le sue mani, ma molte, anzi infinite altre cose, che sono state condotte da altri maestri che là sono andati ad abitare et hannovi magnifiche cose operato.
Fece ancora Iacopo la fabrica della loggia della piazza di San Marco d'ordine corinto, che è a' piedi del campanile di detto San Marco, con ornamento ricchissimo di colonne e quattro nicchie, nelle quali sono quattro figure grandi quanto il naturale, di bronzo e di somma bellezza. E fa quest'opera quasi una bellissima basa al detto campanile, il quale è largo da piè una delle faccie piedi trentacinque, che tanto incirca è l'ornamento del Sansovino, et alto da terra fino alla cornice dove sono le finestre delle campane piedi centosessanta, dal piano di detta cornice fin all'altra di sopra dove è il corridore sono piedi venticinque, e l'altro dado di sopra è alto piedi ventotto e mezzo; e da questo piano dal corridore fino alla piramide, pigna, o punta che se la chiamino, sono piedi sessanta; in cima della quale punta il quadricello sopra il quale posa l'Angiolo è alto piedi sei; et il detto Angiolo che gira è alto dieci piedi, di maniera che tutta l'altezza viene ad essere piedi duecentonovantadue. Diede ancora il disegno e condusse per la scuola, o vero Fraternita e Compagnia della Misericordia, la fabrica di quel luogo grandissima e di spesa di centocinquantamila scudi. Rifece la chiesa di San Francesco della Vigna, dove stanno i frati de' Zoccoli, opera grandissima e d'importanza. Né per questo, mentre che ha atteso a tante fabriche, ha mai restato che per suo diletto non abbia fatto giornalmente opere grandissime e belle di scultura, di marmo e di bronzo. Sopra la pila dell'acqua santa ne' frati della Ca' Grande è di sua mano una statua fatta di marmo per un San Giovanni Batista, molto bella e lodatissima.
A Padova alla cappella del Santo è una storia grande di marmo, di mano del medesimo, di figure di mezzo rilievo bellissime d'un miracolo di Santo Antonio di Padova, la quale in quel luogo è stimata assai. All'entrare delle scale del palazzo di San Marco fa tuttavia di marmo in forma di due giganti bellissimi, di braccia sette l'uno, un Nettunno et un Marte, mostrando le forze che ha in terra et in mare quella serenissima republica. Fece una bellissima statua d'un Ercole al duca di Ferrara, e nella chiesa di S. Marco fece quattro storie di bronzo di mezzo rilievo, alte un braccio e lunghe uno e mezzo, per mettere a un pergamo, con istorie di quello Evangelista, tenute molto in pregio per la varietà loro. E sopra la porta del medesimo San Marco ha fatto una Nostra Donna di marmo grande quanto il naturale, tenuta cosa bellissima, et alla porta della sagrestia di detto loco è di sua mano la porta di bronzo, divisa in due parti bellissime e con istorie di Gesù Cristo, tutte di mezzo rilievo e lavorate eccellentissimamente; e sopra la porta dello arsenale ha fatto una bellissima Nostra Donna di marmo, che tiene il Figliolo in collo. Le quali tutte opere non solo hanno illustrato et adornato quella republica, ma hanno fatto conoscere giornalmente il Sansovino per eccellentissimo artefice et amare et onorare dalla magnificenza e liberalità di que' signori, e parimente dagl'altri artefici, referendosi a lui tutto quello di scultura et architettura che è stato in quella città al suo tempo operato. E nel vero ha meritato l'eccellenza di Iacopo di essere tenuta nel primo grado in quella città fra gl'artefici del disegno, e che la sua virtù sia stata amata et osservata universalmente dai nobili e dai plebei. Perciò che oltre all'altre cose egli ha, come s'è detto, fatto col suo sapere e giudizio che si è quasi del tutto rinovata quella città et imparato il vero e buon modo di fabricare.
Ma se ella ha ricevuto da lui bellezza et ornamento, egli all'incontro è da lei stato molto benificato. Conciò sia che oltre all'altre cose, egli è vivuto in essa da che prima vi andò insino all'età di settantotto anni sanissimo e gagliardo, e gli ha tanto conferito l'aria e quel cielo, che non ne mostra in un certo modo più che quaranta. E ha veduto e vede d'un suo virtuosissimo figliuolo, uomo di lettere, due nipoti, un maschio et una femmina, sanissimi e belli, con somma sua contentezza. E, che se è più, vive ancora felicissimamente e con tutti que' comodi et agi, che maggiori può avere un par suo. Ha sempre amato gl'artefici, et in particolare è stato amicissimo dell'eccellente e famoso Tiziano, come fu anco, mentre visse, di Messer Pietro Aretino, per le quali cose ho giudicato ben fatto, se bene vive, fare di lui questa onorata memoria, e massimamente che oggimai è per far poco nella scultura.
Ha avuto il Sansovino molti discepoli in Fiorenza: Niccolò detto il Tribolo, come s'è detto, il Solosmeo da Settignano, che finì dalle figure grandi in fuori tutta la sepoltura di marmo ch'è a Monte Casino, dove è il corpo di Piero de' Medici, che affogò nel fiume del Garigliano. Similmente è stato suo discepolo Girolamo da Ferrara detto il Lombardo, del quale s'è ragionato nella vita di Benvenuto Garofalo ferrarese, et il quale, e dal primo Sansovino, e da questo secondo ha imparato l'arte, di maniera che oltre alle cose di Loreto, delle quali si è favellato, e di marmo e di bronzo, ha in Vinezia molte opere lavorato. Costui se bene capitò sotto il Sansovino d'età di trenta anni e con poco disegno, ancora che avesse innanzi lavorato di scultura alcune cose, essendo più tosto uomo di lettere e di corte, che scultore, attese nondimeno di maniera, che in pochi anni fece quel profitto che si vede nelle sue opere di mezzo rilievo che sono nelle fabriche della libreria e loggia del campanile di San Marco, nelle quali opere si portò tanto bene, che poté poi fare da sé solo le statue di marmo et i Profeti che lavorò, come si disse, alla Madonna di Loreto.
Fu ancora discepolo del Sansovino Iacopo Colonna, che morì a Bologna già trenta anni sono lavorando un'opera d'importanza. Costui fece in Vinezia nella chiesa di San Salvadore un San Girolamo di marmo ignudo, che si vede ancora in una nicchia intorno all'organo, che fu bella figura e molto lodata; et a Santa Croce della Giudecca fece un Cristo, pure ignudo di marmo, che mostra le piaghe, con bello artifizio, e parimente a San Giovanni Nuovo tre figure: Santa Dorotea, Santa Lucia e Santa Caterina; et in Santa Marina si vede di sua mano un cavallo con un capitano armato sopra; le quali opere possono stare al pari con quante ne sono in Vinezia. In Padova nella chiesa di Santo Antonio fece di stucco detto Santo e San Bernardino vestiti. Della medesima materia fece a Messer Luigi Cornaro una Minerva, una Venere et una Diana, maggiori del naturale e tutte tonde; di marmo un Mercurio, e di terra cotta un Marzio ignudo e giovinetto, che si cava una spina d'un piè, anzi, mostrando averla cavata, tiene con una mano il piè, guardando la ferita, e con l'altra pare che si voglia nettare la ferita con un panno, la quale opera, perché è la migliore che mai facesse costui, disegna il detto Messer Luigi farla gettare di bronzo. Al medesimo fece un altro Mercurio di pietra, il quale fu poi donato al duca Federigo di Mantova.
Fu parimente discepolo del Sansovino Tiziano da Padova, scultore, il quale nella loggia del campanile di San Marco di Vinezia scolpì di marmo alcune figurette, e nella chiesa del medesimo San Marco si vede pur da lui scolpito e gettato di bronzo un bello e gran coperchio di pila di bronzo nella cappella di San Giovanni. Aveva costui fatto la statua d'un San Giovanni, nel quale sono i quattro Evangelisti e quattro storie di San Giovanni con bello artifizio, per gettarla di bronzo, ma morendosi d'anni trentacinque, rimase il mondo privo d'un eccellente e valoroso artefice. È di mano di costui la volta della cappella di Santo Antonino da Padova, con molto ricco partimento di stucco. Aveva cominciato per la medesima un serraglio di cinque archi di bronzo, che erano pieni di storie di quel Santo, con altre figure di mezzo e basso rilievo, ma rimase anco questo per la sua morte imperfetto, e per discordia di coloro che avevano cura di farla fare; e n'erano già stati gettati molti pezzi, che riuscivano bellissimi, e fatte le cere per molti altri, quando costui si morì e rimase per le dette cagioni ogni cosa adietro. Il medesimo Tiziano, quando il Vasari fece il già detto apparato per i signori della Compagnia della Calza in Canareio, fece in quello alcune statue di terra e molti termini, e fu molte volte adoperato in ornamenti di scene, teatri, archi et altre cose simili, con suo molto onore, avendo fatto cose tutte piene d'invenzioni, capricci e varietà, e sopra tutto con molta prestezza.
Pietro da Salò fu anch'egli discepolo del Sansovino, et avendo durato a intagliare fogliami infino alla sua età di trenta anni, finalmente aiutato dal Sansovino, che gli insegnò, si diede a fare figure di marmo. Nel che si compiacque e studiò di maniera, che in due anni faceva da sé, come ne fanno fede alcune opere assai buone, che di sua mano sono nella tribuna di San Marco; e la statua d'un Marte maggiore del naturale, che è nella facciata del palazzo publico, la quale statua è in compagnia di tre altre di mano di buoni artefici. Fece ancora nelle stanze del Consiglio de' Dieci due figure, una di maschio e l'altra di femina, in compagnia d'altre due fatte dal Danese Cataneo, scultore di somma lode, il quale, come si dirà, fu anch'egli discepolo del Sansovino, le quali figure sono per ornamento d'un camino. Fece oltre ciò Pietro tre figure che sono a Santo Antonio, maggiori del vivo e tutte tonde, e sono una Giustizia, una Fortezza e la statua d'un capitano generale dell'armata viniziana, condotte con buona pratica. Fece ancora la statua d'una Iustizia che ha bella attitudine e buon disegno, posta sopra una colonna nella piazza di Murano, et un'altra nella piazza del Rialto di Vinezia, per sostegno di quella pietra dove si fanno i bandi publici, che si chiama il Gobbo di Rialto, le quali opere hanno fatto costui conoscere per bonissimo scultore. In Padova nel Santo fece una Tetide molto bella et un Bacco che prieme un grappol d'uva in una tazza, e questa, la quale fu la più dificile figura che mai facesse e la migliore, morendo lassò a' suoi figliuoli, che l'hanno ancora in casa per venderla a chi meglio conoscerà e pagherà le fatiche, che in quella fece il loro padre.
Fu parimente discepolo di Iacopo, Alessandro Vittoria da Trento, scultore molto eccellente et amicissimo degli studii, il quale con bellissima maniera ha mostro in molte cose che ha fatto, così di stucco, come di marmo, vivezza d'ingegno e bella maniera, e che le sue opere sono da essere tenute in pregio. E di mano di costui sono in Vinezia alla porta principale della libreria di S. Marco due feminone di pietra alte palmi dieci l'una, che sono molto belle, graziose e da esser molto lodate. Ha fatto nel Santo di Padova alla sepoltura Conterina quattro figure: duoi schiavi o vero prigioni con una Fama et una Tetis tutte di pietra; et uno Angiolo piedi dieci alto, il quale è stato posto sopra il campanile del Duomo di Verona, che è molto bella statua; et in Dalmazia mandò pure di pietra quattro Apostoli nel Duomo di Treù, alti cinque piedi l'uno. Fece ancora alcune figure d'argento per la scuola di San Giovanni Evangelista di Vinezia, molto graziose, le quali erano tutte di tondo rilievo, et un San Teodoro d'argento di piedi due, tutto tondo; lavorò di marmo nella cappella Grimana a San Sebastiano due figure, alte tre piedi l'una, et appresso fece una Pietà con due figure di pietra tenute buone, che sono a San Salvadore in Vinezia. Fece un Mercurio al pergamo di palazzo di San Marco, che risponde sopra la piazza, tenuto buona figura. Et a San Francesco della Vigna fece tre figure grandi quanto il naturale, tutte di pietra, molto belle, graziose e ben condotte, Santo Antonio, San Sebastiano e Santo Rocco, e nella chiesa de' Crocicchieri fece di stucco due figure alte sei piedi l'una, poste all'altare maggiore, molto belle, e della medesima materia fece, come già s'è detto, tutti gli ornamenti che sono nelle volte delle scale nuove del palazzo di San Marco, con vari partimenti di stucchi, dove Batista Franco dipinse poi ne' vani dove sono le storie, le figure e le grottesche che vi sono. Parimente fece Alessandro quelle delle scale della libreria di San Marco, tutte opere di gran fattura, e ne' frati minori una cappella, e nella tavola di marmo, che è bellissima e grandissima, l'assunzione della Nostra Donna di mezzo rilievo con cinque figurone a basso, che hanno del grande e son fatte con bella maniera, grave e bello andare di panni e condotte con diligenzia. Le quali figure di marmo sono San Ieronimo, San Giovanbatista, San Pietro, Santo Andrea e San Lionardo, alte sei piedi l'una, e le migliori di quante opere ha fatto infin a ora. Nel finimento di questa cappella sul frontespizio sono due figure pure di marmo, molto graziose et alte otto piedi l'una. Il medesimo Vittoria ha fatto molti ritratti di marmo e bellissime teste e somigliano, cioè quella del signor Giovanbatista Feredo, posta nella chiesa di Santo Stefano, quella di Camillo Trevisano oratore, posta nella chiesa di San Giovanni e Polo, il clarissimo Marcantonio Grimani, anch'egli posto nella chiesa di San Sebastiano, et in San Gimignano il piovano di detta chiesa. Ha parimente ritratto Messer Andrea Loredano, Messer Priamo da Lagie, e dua fratelli da Ca' Pellegrini oratori, cioè Messer Vincenzio e Messer Giovanbatista. E perché il Vittoria è giovane e lavora volentieri, virtuoso, affabile, disideroso d'acquistare nome e fama et insomma gentilissimo, si può credere che vivendo si abbia a vedere di lui ogni giorno bellissime opere e degne del suo cognome Vettoria, e che vivendo abbia a essere eccellentissimo scultore e meritare sopra gl'altri di quel paese la palma.
Ecci ancora un Tommaso da Lugano scultore, che è stato anch'egli molti anni col Sansovino et ha fatto con lo scarpello molte figure nella libreria di San Marco in compagnia d'altri, come s'è detto, e molto belle. E poi, partito dal Sansovino, ha fatto da sé una Nostra Donna col Fanciullo in braccio et a' piedi San Giovannino, che sono figure tutte e tre di sì bella forma, attitudine e maniera, che possono stare fra tutte l'altre statue moderne belle che sono in Venezia, la quale opera è posta nella chiesa di San Bastiano. Et una testa di Carlo Quinto imperatore, la quale fece costui di marmo dal mezzo in su, è stata tenuta cosa maravigliosa e fu molto grata a sua maestà. Ma perché Tommaso si è dilettato più tosto di lavorare di stucco che di marmo o bronzo, sono di sua mano infinite bellissime figure et opere fatte da lui di cotal materia in casa diversi gentiluomini di Vinezia; e questo basti avere detto di lui.
Finalmente de' lombardi ci resta a far memoria di Iacopo bresciano giovane di ventiquattro anni che s'è partito non è molto dal Sansovino, et il quale ha dato saggio a Vinezia in molti anni che v'è stato di essere ingegnoso e di dovere riuscire eccellente, come poi è riuscito nell'opere che ha fatto in Brescia sua patria, e particolarmente nel palazzo publico: ma se studia e vive si vedranno anco di sua mano cose maggiori e migliori, essendo spiritoso e di bellissimo ingegno.
De' nostri toscani è stato discepolo del Sansovino Bartolomeo Amannati fiorentino, del quale in molti luoghi di quest'opera s'è già fatto memoria. Costui dico lavorò sotto il Sansovino in Vinezia e poi in Padova per Messer Marco da Mantova, eccellentissimo dottore di medicina, in casa del quale fece un grandissimo gigante nel suo cortile di un pezzo di pietra e la sua sepoltura con molte statue. Dopo venuto l'Amannato a Roma l'anno 1550, gli furono allogate da Giorgio Vasari quattro statue di braccia quattro l'una di marmo per la sepoltura del cardinale de' Monti vecchio, la quale papa Iulio Terzo aveva allogata a esso Giorgio nella chiesa di San Pietro a Montorio, come si dirà, le quali statue furono tenute molto belle, per che avendogli il Vasari posto amore, lo fece conoscere al detto Iulio Terzo, il quale avendo ordinato quello fusse da fare, lo fece mettere in opera, e così ambidue, cioè il Vasari e l'Amannato, per un pezzo lavorarono insieme alla vigna. Ma non molto dopo che il Vasari fu venuto a servire il duca Cosimo a Fiorenza, essendo morto il detto Papa, l'Amannato, che si trovava senza lavoro et in Roma da quel Pontefice essere male stato sodisfatto delle sue fatiche, scrisse al Vasari, pregandolo che come l'aveva aiutato in Roma, così volesse aiutarlo in Fiorenza appresso al Duca. Onde el Vasari adoperandosi in ciò caldamente, lo condusse al servizio di sua eccellenza per cui ha molte statue di marmo e di bronzo, che ancora non sono in opera, lavorate. Per lo giardino di Castello ha fatto due figure di bronzo maggiori del vivo, cioè Ercole che fa scoppiare Anteo, al quale Anteo, invece dello spirito, esce acqua in gran copia per bocca. Finalmente ha condotto l'Amannato il colosso di Nettunno di marmo che è in piazza, alto braccia dieci e mezzo. Ma perché l'opera della fonte a cui ha da stare in mezzo il detto Nettunno non è finita, non ne dirò altro. Il medesimo Amannato, come architetto, attende, con suo molto onore e lode, alla fabbrica de' Pitti, nella quale opera ha grande occasione di mostrare la virtù e grandezza dell'animo suo, e la magnificenza e grande animo del duca Cosimo. Direi molti particolari di questo scultore, ma perché mi è amico, et altri secondo che intendo scrive le cose sue, non dirò altro per non mettere mano a quello che da altri fie meglio, che io forse non saprei raccontarlo.
Restaci per ultimo de' discepoli del Sansovino a far menzione del Danese Cataneo scultore da Carrara, il quale essendo anco piccol fanciullo stette con esso lui a Vinezia, e partitosi d'anni diciannove dal detto suo maestro, fece da per sé in San Marco un fanciullo di marmo, et un San Lorenzo nella chiesa de' frati minori, a San Salvadore un altro fanciullo di marmo, et a San Giovanni e Polo la statua d'un Bacco ignudo, che preme un grappol d'uva d'una vite che s'aggira intorno a un tronco che ha dietro alle gambe, la quale statua è oggi in casa de' Mozzanighi da San Barnaba. Ha lavorato molte figure per la libreria di San Marco e per la loggia del campanile insieme con altri, de' quali si è di sopra favellato, et oltre le dette, quelle due che già si disse essere nelle stanze del Consiglio de' Dieci. Ritrasse di marmo il cardinale Bembo et il Contarino capitan generale dell'armata viniziana, i quali ambidue sono in Santo Antonio di Padova, con belli e ricchi ornamenti a torno. E nella medesima città di Padova in San Giovanni di Verdara è di mano del medesimo il ritratto di Messer Girolamo Gigante iureconsulto dottissimo. A Vinezia ha fatto in Santo Antonio della Giudecca il ritratto naturalissimo del Giustiniano, luogotenente del gran mastro di Malta, e quello del Tiepolo stato tre volte generale: ma queste non sono anco state messe ai luoghi loro. Ma la maggiore opera e più segnalata che abbia fatta il Danese è stato in Verona a Santa Anastasia una cappella di marmi ricca, e con figure grandi, al signor Ercole Fregoso in memoria del signor Iano, già signor di Genova e poi capitano generale de' viniziani, al servizio de' quali morì. Questa opera è d'ordine corinto in guisa d'arco trionfale, e divisata da quattro gran colonne tonde striate, con i capitegli a foglie di oliva, che posano sopra un basamento di conveniente altezza, facendo il vano del mezzo largo una volta più che uno di quelli dalle bande, con un arco fra le colonne, sopra il quale posa in su capitegli l'architrave e la cornice, e nel mezzo dentro all'arco uno ornamento molto bello di pilastri con cornice e frontespizio, col campo d'una tavola di paragone nero bellissimo, dove è la statua d'un Cristo ignudo maggior del vivo, tutta tonda e molto buona figura, la quale statua sta in atto di mostrare le sue piaghe, con un pezzo di panno rilegato nei fianchi fra le gambe e fino in terra. Sopra gl'angoli dell'arco sono segni della sua Passione, e tra le due colonne, che sono dal lato destro, sta sopra un basamento una statua tutta tonda, fatta per il signor Iano Fregoso tutta armata all'antica, salvo che mostra le braccia e le gambe nude, e tiene la man manca sopra il pomo della spada, che ha cinta, e con la destra il bastone [di] generale, avendo dietro per investitura, che va dreto alle colonne, una Minerva di mezzo rilievo, che stando in aria tiene con una mano una bacchetta ducale, come quella de' dogi di Vinezia, e con l'altra una bandiera, drentovi l'insegna di San Marco, e tra l'altre due colonne nell'altra investitura è la Virtù militare armata col cimiero in capo, con il semprevivo sopra e con l'impresa nella corazza d'uno ermellino che sta sopra uno scoglio circondato dal fango, con lettere che dicano: "Potius mori quam faedari", e con l'insegna Fregosa; e sopra è una Vittoria con una ghirlanda di lauro et una palma nelle mani. Sopra la colonna, architrave, fregio e cornice è un altro ordine di pilastri, sopra le cimase de' quali stanno due figure di marmo tonde e due trofei pur tondi e della grandezza delle altre figure.
Di queste due statue una è la Fama in atto di levarsi a volo, accennando con la man dritta al cielo e con una tromba che suona, e questa ha sottili e bellissimi panni attorno e tutto il resto ignuda, e l'altra è fatta per la Eternità, la quale è vestita con abito più grave e sta in maestà, tenendo nella man manca un cerchio dove ella guarda, e con la destra piglia un lembo di panno dentrovi palle, che denotano vari secoli, con la sfera celeste cinta dalla serpe, che con la bocca piglia la coda; nello spazio del mezzo sopra il cornicione che fa fare e mette in mezzo queste due parti, sono tre scaglioni dove seggano due putti grandi et ignudi, i quali tengono un grande scudo con l'elmo sopra, drentovi l'insegna Fregosa, e sotto i detti scalini è di paragone un epitaffio di lettere grandi dorate. La quale tutta opera è veramente degna d'essere lodata, avendola il Danese condotta con molta diligenza, e dato bella proporzione e grazia a quel componimento, e fatto con gran studio ciascuna figura. È il Danese non pure, come s'è detto, eccellente scultore, ma anco buono e molto lodato poeta, come l'opere sue ne dimostrano apertamente, onde ha sempre praticato et avuto stretta amicizia con i maggiori uomini e più virtuosi dell'età nostra. E di ciò anco sia argomento questa detta opera, da lui stata fatta molto poeticamente. È di mano del Danese nel cortile della Zecca di Vinezia, sopra l'ornamento del pozzo, la statua del Sole ignuda, in cambio della quale vi volevano que' signori una Iustizia, ma il Danese considerò che in quel luogo il Sole è più a proposito. Questa ha una verga d'oro nella mano manca et uno scetro nella destra, a sommo al quale fece un occhio, et i razzi solari attorno alla testa, e sopra la palla del mondo, circondata dalla serpe che si tiene in bocca la coda, con alcuni monticelli d'oro per detta palla generati da lui. Arebbevi voluto fare il Danese due altre statue, e quella della Luna per l'argento e quella del Sole per l'oro, et un'altra per lo rame, ma bastò a que' signori che vi fusse quella dell'oro, come del più perfetto di tutti gl'altri metalli.
Ha cominciato il medesimo Danese un'altra opera in memoria del principe Loredano, doge di Vinezia, nella quale si spera che di gran lunga abbia a passare d'invenzione e capriccio tutte l'altre sue cose. La quale opera deve essere posta nella chiesa di San Giovanni e Polo di Vinezia. Ma perché costui vive e va tuttavia lavorando a benefizio del mondo e dell'arte, non dirò altro di lui, né d'altri discepoli del Sansovino. Non lascerò già di dire brevemente d'alcuni altri eccellenti artefici scultori e pittori di quelle parti di Vinezia, con l'occasione dei sopra detti, per porre fine a ragionare di loro in questa vita del Sansovino.
Ha dunque avuto Vicenza in diversi tempi ancor ch'essa, scultori, pittori et architetti, d'una parte de' quali si fece memoria nella vita di Vittore Scarpaccia, e massimamente di quei che fiorirono al tempo del Mantegna e che da lui impararono a disegnare, come furono Bartolomeo Mantegna, Francesco Veruzio e Giovanni Speranza pittori. Di mano de' quali sono molte pitture sparse per Vicenza. Ora nella medesima città sono molte sculture di mano d'un Giovanni intagliatore et architetto, che sono ragionevoli ancor che la sua propria professione sia stata di fare ottimamente fogliami et animali, come ancora fa, se bene è vecchio. Parimente Girolamo Pironi vicentino ha fatto in molti luoghi della sua città opere lodevoli di scultura e pittura. Ma fra tutti i vicentini merita di essere sommamente lodato Andrea Palladio architetto, per essere uomo di singolare ingegno e giudizio, come ne dimostrano molte opere fatte nella sua patria et altrove, e particolarmente la fabrica del palazzo della Comunità, che è molto lodata, con due portici di componimento dorico fatti con bellissime colonne. Il medesimo ha fatto un palazzo molto bello e grandissimo oltre ogni credere al conte Ottavio de' Vieri, con infiniti ricchissimi ornamenti. Et un altro simile al conte Giuseppo di Porto, che non può essere né più magnifico, né più bello, né più degno d'ogni gran principe di quello che è. Et un altro se ne fa tuttavia con ordine del medesimo al conte Valerio Coricatto, molto simile per maestà e grandezza all'antiche fabriche tanto lodate. Similmente ai conti di Valmorana ha già quasi condotto a fine un altro superbissimo palazzo, che non cede a niuno dei sopra detti in parte veruna.
Nella medesima città, sopra la piazza detta volgarmente l'Isola, ha fatto un'altra molto magnifica fabbrica al signor Valerio Chireggiolo, et a Pugliano villa del Vicentino una bellissima casa al Signor Bonifazio Pugliana cavaliere, e nel medesimo contado di Vicenza, al Finale, ha fatto a Messer Biagio Saraceni un'altra fabbrica, et una a Bagnolo al signor Vittore Pisani con ricchissimo e gran cortile d'ordine dorico, con bellissime colonne. Presso a Vicenza nella villa di Lisiera ha fabricato al signor Giovanfrancesco Valmorana un altro molto ricco edifizio con quattro torri in sui canti, che fanno bellissimo vedere. A Meledo altresì ha principiato al conte Francesco Trissino e Lodovico suo fratello un magnifico palazzo, sopra un colle assai rilevato, con molti spartimenti di loggie, scale et altre comodità da villa. A Campiglia, pure sul Vicentino, fa al signor Mario Ropetta un'altra simile abitura, con tanti comodi, ricchi partimenti di stanze, loggie e cortili e camere dedicate a diverse Virtù, ch'ella sarà tosto condotta che fie al suo fine stanza più regia che signorile. A Lunede n'ha fatto un'altra da villa al signor Girolamo de' Godi, et a Ugurano un'altra al conte Iacopo Angarano che è veramente bellissima, come che paia piccola cosa al grande animo di quel signore. A Quinto, presso a Vicenza fabricò anco, non ha molto, un altro palagio al conte Marcantonio Triene, che ha del grande e del magnifico quanto più non saprei dire. Insomma ha tante grandissime e belle fabriche fatto il Palladio dentro e fuori di Vicenza, che quando non vi fussero altre, possono bastare a fare una città onoratissima et un bellissimo contado.
In Vinezia ha principiato il medesimo molte fabriche, ma una sopra tutte, che è maravigliosa e notabilissima, a imitazione delle case che solevano far gl'antichi, nel monasterio della Carità. L'atrio di questa è largo piedi quaranta e lungo 54, che tanto è a punto il diametro del quadrato, essendo le sue ali una delle tre parti e mezzo della lunghezza. Le colonne, che sono corinte, sono grosse piedi tre e mezzo et altre 35. Dall'atrio si va nel peristilio, cioè in un claustro (così chiamano i frati i loro cortili) il quale dalla parte di verso l'atrio è diviso in cinque parti e dai fianchi in sette, con tre ordini di colonne l'un sopra l'altro, che il dorico è di sotto, e sopra il ionico et il corinto. Dirimpetto all'atrio è il refettorio, lungo due quadri e alto insino al piano del peristilio, con le sue officine intorno commodissime. Le scale sono a lumaca et in forma ovale, e non hanno né muro, né colonna, né parte di mezzo che le regga, sono larghe piedi tredici, e gli scalini nel posare si reggono l'un l'altro per essere fitti nel muro. Questo edifizio è tutto fatto di pietre cotte, cioè mattoni, salvo le base delle colonne, i capitegli, l'imposte degl'archi, le scale, le superficie delle cornici e le finestre tutte e le porte.
Il medesimo Palladio ai monaci neri di San Benedetto, nel loro monasterio di San Giorgio Maggiore di Vinezia, ha fatto un grandissimo e bellissimo refettorio col suo ricetto innanzi, et ha cominciato a fondare una nuova chiesa, con sì bell'ordine, secondo che mostra il modello, che se fie condotto a fine riuscirà opera stupenda e bellissima. Ha oltre ciò cominciato la facciata della chiesa di S. Francesco della Vigna, la quale fa fare di pietra istriana il reverendissimo Grimani, patriarca d'Aquileia, con molto magnifica spesa. Sono le colonne larghe da piè palmi quattro et alte quaranta d'ordine corinto, e di già è murato da piè tutto l'imbasamento. Alle Gambaraie, luogo vicino a Vinezia sette miglia, in sul fiume della Brenta ha fatto l'istesso Palladio una molto comoda abitazione a Messer Niccolò e Messer Luigi Foscari, gentiluomini viniziani. Un'altra n'ha fatta a Marocco villa del Mestrino al cavalier Mozzenigo. A Piombino una a Messer Giorgio Cornaro, una alla Montagnama al magnifico Messer Francesco Pisani, et a Zigogiari in sul Padovano una al conte Adovardo da Tiene gentiluomo vicentino; in Udine del Friuli una al signor Floriano Antimini; alla Mota, castel pure del Friuli, una al magnifico Messer Marco Zeno, con bellissimo cortile e portici intorno intorno. Alla Fratta, castel del Polesine, una gran fabrica al signor Francesco Badoaro, con alcune logge bellissime e capricciose; similmente vicino ad Asolo, castello del Trevisano, ha condotto una molto comoda abitazione al reverendissimo signor Daniello Barbaro, eletto d'Aquileia, che ha scritto sopra Vitruvio, et al clarissimo Messer Marcantonio suo fratello, con tanto bell'ordine, che meglio e più non si può imaginare, e fra l'altre cose vi ha fatto una fontana molto simile a quella che fece fare papa Giulio in Roma alla sua vigna Giulia, con ornamenti per tutto di stucchi e pitture fatti da maestri eccellenti. In Genova ha fatto Messer Luca Giustiniano una fabrica con disegno del Palladio, che è tenuta bellissima, come sono anco tutte le sopra scritte, delle quali sarebbe stata lunghissima storia voler raccontare molti particolari di belle e strane invenzioni e capricci. E perché tosto verrà in luce un'opera del Palladio, dove saranno stampati due libri d'edifizii antichi et uno di quelli che ha fatto egli stesso edificare, non dirò altro di lui, perché questa basterà a farlo conoscere per quello eccellente architetto ch'egli è tenuto da chiunche vede l'opere sue bellissime, senzaché essendo anco giovane et attendendo continuamente agli studii dell'arte, si possono sperare ogni giorno di lui cose maggiori.
Non tacerò che a tanta virtù ha congiunta una sì affabile e gentil natura, che lo rende appresso d'ognuno amabilissimo. Onde ha meritato d'essere stato accettato nel numero degl'Accademici del disegno fiorentini, insieme col Danese, Giuseppo Salviati, il Tintoretto e Batista Farinato da Verona, come si dirà in altro luogo, parlando di detti Accademici.
Bonifazio pittore viniziano, del quale non ho prima avuto cognizione, è degno anch'esso di essere nel numero di tanti eccellenti artefici annoverato per essere molto pratico e valente coloritore. Costui oltre a molti quadri e ritratti, che sono per Vinezia, ha fatto nella chiesa de' Servi della medesima città, all'altare delle reliquie, una tavola dove è un Cristo con gl'Apostoli intorno, e Filippo che par che dica: "Domine ostende nobis patrem"; la quale è condotta con molto bella e buona maniera. E nella chiesa delle monache dello Spirito Santo, all'altare della Madonna, ha fatto un'altra bellissima tavola con una infinità d'uomini, donne e putti d'ogni età, che adorano insieme con la Vergine un Dio Padre che è in aria con molti Angeli attorno.
E anco pittore di assai buon nome in Vinezia Iacopo Fallaro, il quale ha nella chiesa degl'Ingesuati fatto ne' portegli dell'organo il beato Giovanni Colombini che riceve in Concistoro l'abito del Papa con buon numero di cardinali. Un altro Iacopo, detto Pisbolica, in Santa Maria Maggiore di Vinezia ha fatto una tavola nella quale è Cristo in aria con molti Angeli, et a basso la Nostra Donna con gl'Apostoli; et un Fabrizio viniziano nella chiesa di Santa Maria Sebenico ha dipinto nella facciata d'una cappella una benedizione della fonte del battesimo, con molti ritratti di naturale fatti con bella grazia e buona maniera.

IL FINE DELLA VITA DI IACOPO SANSOVINO SCULTORE FIORENTINO



VITA DI LIONE LIONI ARETINO E D'ALTRI SCULTORI ET ARCHITETTI

Perché quello che si è detto sparsamente di sopra del cavalier Lione scultore aretino si è detto incidentemente, non fia se non bene che qui si ragioni con ordine dell'opere sue, degne veramente di essere celebrate e di passare alla memoria degl'uomini. Costui dunque avendo a principio atteso all'orefice e fatto in sua giovanezza molte bell'opere, e particolarmente ritratti di naturale in conii d'acciaio per medaglie, divenne in pochi anni in modo eccellente, che venne in cognizione di molti prìncipi e grand'uomini, et in particolare di Carlo Quinto imperatore, dal quale fu messo, conosciuta la sua virtù, in opere di maggiore importanza che le medaglie non sono.
Conciò sia che fece, non molto dopo che venne in cognizione di Sua Maestà, la statua di esso Imperatore tutta tonda di bronzo maggiore del vivo, e quella poi con due gusci sottilissimi vestì d'una molto gentile armatura, che se gli lieva e veste facilmente e con tanta grazia, che chi la vede vestita non s'accorge e non può quasi credere ch'ella sia ignuda, e quando è nuda niuno crederebbe agevolmente ch'ella potesse così bene armarsi già mai. Questa statua posa la gamba sinistra e con la destra calca il Furore, il quale è una statua a giacere incatenata con la face e con arme sotto di varie sorti. Nella base di quest'opera, la quale è oggi in Madril, sono scritte queste parole: "Caesaris virtute Furor domitus".
Fece dopo queste statue Lione un conio grande per stampare medaglie di Sua Maestà con il rovescio de' giganti fulminati da Giove. Per le quali opere donò l'Imperatore a Lione un'entrata di centocinquanta ducati l'anno in sulla Zecca di Milano, una comodissima casa nella contrada de' Moroni, e lo fece cavaliere e di sua famiglia con dargli molti privilegii di nobiltà per i suoi descendenti. E mentre stette Lione con Sua Maestà in Bruselles ebbe le stanze nel proprio palazzo dell'Imperatore che talvolta per diporto l'andava a vedere lavorare. Fece non molto dopo di marmo un'altra statua pur dell'Imperatore, e quelle dell'Imperatrice, del re Filippo et un busto dell'istesso Imperatore da porsi in alto in mezzo a due quadri di bronzo. Fece similmente di bronzo la testa della reina Maria, quella di Ferdinando allora re de' romani, e di Massimiliano suo figliuolo, oggi Imperatore, quella della reina Leonora e molti altri, che furono poste nella galleria del palazzo di Bindisi da essa reina Maria, che le fé fare. Ma non vi stettono molto, perché Enrico re di Francia vi apiccò fuoco per vendetta, lasciandovi scritto queste parole: "Vela Fole Maria"; dico per vendetta, perciò che essa Reina pochi anni innanzi aveva fatto a lui il medesimo. Comunche fusse l'opera di detta galleria non andò innanzi, e le dette statue sono oggi parte in palazzo del Re catolico a Madril e parte in Alicante, porto di mare. Donde le voleva Sua Maestà far porre in Granata, dove sono le sepolture di tutti i re di Spagna. Nel tornare Lione di Spagna se ne portò duemila scudi contanti, oltre a molti altri doni e favori, che gli furono fatti in quella corte.
Ha fatto Lione al duca d'Alva la testa di lui, quella di Carlo Quinto e quella del re Filippo. Al reverendissimo d'Aras, oggi gran cardinale, detto Granvela, ha fatto alcuni pezzi di bronzo in forma ovale di braccia due l'uno, con ricchi partimenti e mezze statue dentrovi. In uno è Carlo Quinto, in un altro il re Filippo, e nel terzo esso Cardinale, ritratti di naturale, e tutte hanno imbasamenti di figurette graziosissime. Al signor Vespasiano Gonzaga ha fatto sopra un gran busto di bronzo il ritratto d'Alva, il quale ha posto nelle sue case a Sabbioneto. Al signor Cesare Gonzaga ha fatto pur di metallo una statua di quattro braccia, che ha sotto un'altra figura che è aviticchiata con un'Idra, per figurare don Ferrante suo padre, il quale con la sua virtù e valore superò il vizio e l'invidia, che avevano cercato porlo in disgrazia di Carlo, per le cose del governo di Milano. Questa statua, che è togata e parte armata all'antica e parte alla moderna, deve essere portata e posta a Guastalla per memoria di esso don Ferrante, capitano valorosissimo. Il medesimo ha fatto, come s'è detto in altro luogo, la sepoltura del signore Giovanni Iacopo Medici marchese di Marignano, fratello di papa Pio Quarto, che è posta nel Duomo di Milano, lunga ventotto palmi in circa et alta quaranta. Questa è tutta di marmo di Carrara et ornata di quattro colonne, due nere e bianche, che come cosa rara furono dal Papa mandate da Roma a Milano, e due altre maggiori, che sono di pietra macchiata, simile al diaspro. Le quali tutte e quatro sono concordate sotto una medesima cornice, con artifizio non più usato, come volle quel Pontefice, che fece fare il tutto con ordine di Michelagnolo, eccetto però le cinque figure di bronzo, che vi sono di mano di Lione. La prima delle quali, maggiore di tutte, è la statua di esso Marchese in piedi e maggiore del vivo, che ha nella destra il bastone del generalato, e l'altra sopra un elmo, che è in sur un tronco molto riccamente ornato; alla sinistra di questa è una statua minore, per la Pace et alla destra un'altra fatta per la Virtù militare: e queste sono a sedere et in aspetto tutte meste e dogliose; l'altre due, che sono in alto, una è la Providenza e l'altra la Fama, e nel mezzo al pari di queste è in bronzo una bellissima Natività di Cristo di basso rilievo. In fine di tutta l'opera sono due figure di marmo, che reggono un'arme di palle di quel signore. Questa opera fu pagata scudi 7800 secondo che furono d'accordo in Roma l'illustrissimo cardinal Morone et il signor Agabrio Serbelloni. Il medesimo ha fatto al signor Giovambatista Castaldo una statua pur di bronzo che dee esser posta in non so qual monasterio, con alcuni ornamenti.
Al detto Re catolico ha fatto un Cristo di marmo, alto più di tre braccia, con la croce e con altri misteri della Passione, che è molto lodata. E finalmente ha fra mano la statua del signor Alfonso Davalo, marchese famosissimo del Guasto, statagli allogata dal marchese di Pescara suo figliuolo, alta quattro braccia e da dover riuscire ottima figura di getto, per la diligenza che mette in farla, e buona fortuna che ha sempre avuto Lione ne' suoi getti. Il quale Lione per mostrare la grandezza del suo animo, il bello ingegno che ha avuto dalla natura et il favore della fortuna, ha con molta spesa condotto di bellissima architettura un casotto nella contrada de' Moroni, pieno in modo di capricciose invenzioni, che non n'è forse un altro simile in tutto Milano. Nel partimento della facciata sono sopra a' pilastri sei prigioni di braccia sei l'uno tutti di pietra viva, e fra essi in alcune nicchie, fatte a imitazione degl'antichi, con terminetti, finestre e cornici tutte varie da quel che s'usa e molto graziose, e tutte le parti di sotto corrispondono con bell'ordine a quelle di sopra, le fregiature sono tutte di varii stromenti dell'arti del disegno. Dalla porta principale, mediante un andito si entra in un cortile, dove nel mezzo, sopra quattro colonne, è il cavallo con la statua di Marco Aurelio formato di gesso da quel proprio che è in Campidoglio. Dalla quale statua ha voluto che quella sua casa sia dedicata a Marco Aurelio. E quanto ai prigioni, quel suo capriccio da diversi è diversamente interpretato. Oltre al qual cavallo, come in altro luogo s'è detto, ha in quella sua bella e comodissima abitazione formate di gesso quant'opere lodate di scultura o di getto ha potuto avere, o moderne, o antiche.
Un figliuolo di costui chiamato Pompeo, il quale è oggi al servizio del re Filippo di Spagna, non è punto inferiore al padre in lavorare conii di medaglie d'acciaio e far di getto figure maravigliose. Onde in quella corte è stato concorrente di Giovanpaulo Poggini fiorentino, il quale sta anch'egli a' servigi di quel Re et ha fatto medaglie bellissime. Ma Pompeo avendo molti anni servito quel Re, disegna tornarsene a Milano a godere la sua casa aureliana e l'altre fatiche del suo eccellente padre, amorevolissimo di tutti gl'uomini virtuosi.
E per dir ora alcuna cosa delle medaglie e de' conii d'acciaio con che si fanno, io credo che si possa con verità affermare i moderni ingegni avere operato quanto già facessero gl'antichi romani nella bontà delle figure, e che nelle lettere et altre parti gl'abbiano superato. Il che si può vedere chiaramente, oltre molti altri, in dodici rovesci che ha fatto ultimamente Pietro Paulo Galeotti nelle medaglie del duca Cosimo, e sono questi: Pisa quasi tornata nel suo primo essere, per opera del Duca, avendole egli asciutto il paese intorno e seccati i luoghi paludosi e fattole altri assai miglioramenti; l'acque condotte in Firenze da luoghi diversi; la fabrica de' magistrati ornata e magnifica per comodità publica; l'unione degli stati di Fiorenza e Siena; l'edificazione d'una città e dua fortezze nell'Elba; la colonna condotta da Roma e posta in Fiorenza in sulla piazza di Santa Trinita; la conservazione fine et augumentazione della libreria di San Lorenzo per utilità publica; la fondazione de' cavalieri di Santo Stefano; la rinunzia del governo al principe; le fortificazioni dello stato; la milizia o vero bande del suo stato; il palazzo de' Pitti con giardini, acque e fabrica, condotto sì magnifico e regio, de' quali rovesci non metto qui né le lettere che hanno a torno né la dichiarazion loro, avendo a trattarne in altro luogo. I quali tutti dodici rovesci sono belli affatto e condotti con molta grazia e diligenza, come è anco la testa del Duca, che è di tutta bellezza; parimente i lavori e medaglie di stucchi, come ho detto altra volta, si fanno oggi di tutta perfezzione.
Et ultimamente Mario Capocaccia anconetano ha fatti di stucchi di colore in scatolette ritratti e teste veramente bellissime, come sono un ritratto di papa Pio Quinto, ch'io vidi non ha molto, e quello del cardinale Alessandrino. Ho veduto anco di mano de' figliuoli di Pulidoro pittore perugino ritratti della medesima sorte bellissimi.
Ma per tornare a Milano, riveggendo io un anno fa le cose del Gobbo scultore, del quale altrove si è ragionato, non viddi cosa che fussi se non ordinaria, eccetto un Adamo et Eva, una Iudith et una Santa Elena di marmo che sono intorno al Duomo con altre statue di due morti, fatte per Lodovico detto il Moro e Beatrice sua moglie, le quali dovevano essere poste a un sepolcro di mano di Giovan Iacomo dalla Porta, scultore et architetto del Duomo di Milano, il quale lavorò nella sua giovanezza molte cose sotto il detto Gobbo. E le sopra dette, che dovevano andare al detto sepolcro, sono condotte con molta pulitezza. Il medesimo Giovan Iacomo ha fatto molte bell'opere alla Certosa di Pavia, e particolarmente nel sepolcro del conte di Virtù e nella facciata della chiesa. Da costui imparò l'arte un suo nipote, chiamato Guglielmo, il quale in Milano attese con molto studio a ritrarre le cose di Lionardo da Vinci, circa l'anno 1530, che gli fecero grandissimo giovamento; per che andato con Giovan Iacomo a Genova, quando l'anno 1531 fu chiamato là a fare la sepoltura di San Giovanni Batista, attese al disegno con gran studio sotto Perino del Vaga, e non lasciando perciò la scultura, fece uno dei sedici piedistalli che sono in detto sepolcro. Là onde, veduto che si portava benissimo, gli furono fatti fare tutti gl'altri. Dopo condusse due Angeli di marmo, che sono nella Compagnia di San Giovanni. Et al vescovo di Servega fece due ritratti di marmo et un Moisè maggiore del vivo, il quale fu posto nella chiesa di San Lorenzo. Et appresso, fatta che ebbe una Cerere di marmo, che fu posta sopra la porta della casa d'Ansaldo Grimaldi, fece sopra la porta della Cazzuola di quella città una statua di Santa Caterina grande quanto il naturale, e dopo le tre Grazie con quattro putti di marmo, che furono mandati in Fiandra al gran scudiero di Carlo Quinto imperatore insieme con un'altra Cerere grande quanto il vivo. Avendo Guglielmo in sei anni fatte quest'opere, l'anno 1537 si condusse a Roma, dove da Giovan Iacomo suo zio fu molto raccomandato a fra' Bastiano pittore viniziano suo amico, acciò esso il raccomandassi, come fece, a Michelagnolo Buonarruoti, il quale Michelagnolo veggendo Guglielmo fiero e molto assiduo alle fatiche, cominciò a porgli affezione, et innanzi a ogni altra cosa gli fece restaurare alcune cose antiche in casa Farnese, nelle quali si portò di maniera, che Michelagnolo lo mise al servigio del Papa, essendosi anco avuto prima saggio di lui in una sepoltura, che avea condotta dalle Botteghe Oscure per la più parte di metallo al vescovo Sulisse, con molte figure e storie di basso rilievo, cioè le Virtù cardinali et altre fatte con molta grazia, et oltre a quelle la figura di esso Vescovo, che poi andò a Salamanca in Ispagna.
Mentre dunque Guglielmo andava restaurando le statue, che sono oggi nel palazzo de' Farnesi nella loggia che è dinanzi alla sala di sopra, morì l'anno 1547 fra' Bastiano viniziano, che lavorava come s'è detto l'uffizio del Piombo, onde tanto operò Guglielmo col favore di Michelagnolo e d'altri col Papa, che ebbe il detto uffizio del Piombo, con carico di fare la sepoltura di esso papa Paulo Terzo, da porsi in San Piero. Dove con miglior disegno s'accomodò nel modello delle storie e figure delle Virtù teologiche e cardinali, che aveva fatto per lo detto vescovo Sulisse, mettendo in su' canti quattro putti in quattro tramezzi e quattro cartelle, e facendo oltre ciò di metallo la statua di detto Pontefice a sedere in atto di pace; la quale statua fu alta palmi diciassette. Ma dubitando per la grandezza del getto che il metallo non raffreddasse, onde ella non riuscisse, messe il metallo nel bagno da basso, per venire aberevando di sotto in sopra. E con questo modo inusitato venne quel getto benissimo e netto come era la cera, onde la stessa pelle, che venne dal fuoco, non ebbe punto bisogno d'essere rinetta, come in essa statua può vedersi, la quale è posta sotto i primi archi che reggono la tribuna del nuovo San Piero.
Avevano a essere messe a questa sepoltura, la quale secondo un suo disegno doveva essere isolata, quattro figure, che egli fece di marmo con belle invenzioni, secondo che gli fu ordinato da Messer Annibale Caro, che ebbe di ciò cura dal Papa e dal cardinal Farnese. Una fu la Giustizia, che è una figura nuda sopra un panno a giacere, con la cintura della spada attraverso al petto, e la spada ascosa; in una mano ha i fasci della Iustizia consolare e nell'altra una fiamma di fuoco, è giovane nel viso, ha i capegli avvolti, il naso aquilino e d'aspetto sensitivo. La seconda fu la Prudenza in forma di matrona, d'aspetto giovane, con uno specchio in mano, un libro chiuso, e parte ignuda e parte vestita. La terza fu l'Abbondanza, una donna giovane, coronata di spighe, con un corno di dovizia in mano e lo staio antico nell'altra, et in modo vestita, che mostra l'ignudo sotto i panni. L'ultima e quarta fu la Pace, la quale è una matrona con un putto, che ha cavato gl'occhi e col caduceo di Mercurio. Fecevi similmente una storia pur di metallo e con ordine del detto Caro, che aveva a essere messa in opera con due fiumi, l'uno fatto per un lago e l'altro per un fiume, che è nello stato de' Farnesi. Et oltre a tutte queste cose, vi andava un monte pieno di gigli con l'arco vergine. Ma tutto non fu poi messo in opera, per le cagioni che si sono dette nella vita di Michelagnolo. E si può credere che come queste parti in sé son belle e fatte con molto giudizio, così sarebbe riuscito il tutto insieme, tuttavia l'aria della piazza è quella che dà il vero lume e fa far retto giudizio dell'opere.
Il medesimo fra' Guglielmo ha condotto nello spazio di molti anni quattordici storie per farle di bronzo, della vita di Cristo, ciascuna delle quali è larga palmi quattro et alta sei, eccetto però una, che è palmi dodici alta e larga sei, dove è la Natività di Gesù Cristo con bellissime fantasie di figure; nell'altre tredici sono: l'andata di Maria con Cristo putto in Ierusalem in su l'asino, con due figure di gran rilievo e molte di mezzo e basso; la Cena con tredici figure ben composte et un casamento ricchissimo; il lavare i piedi ai discepoli; l'orare nell'orto con cinque figure et una turba da basso molto varia; quando è menato ad Anna, con sei figure grandi, e molte di basso et un lontano; lo essere battuto alla colonna; quando è coronato di spine; l'Ecce homo; Pilato che si lava le mani; Cristo che porta la croce, con quindici figure et altre lontane, che vanno al Monte Calvario; Cristo crucifisso, con diciotto figure, e quando è levato di croce. Le quali tutte istorie, se fussono gettate, sarebbono una rarissima opera, veggendosi che è fatta con molto studio e fatica. Aveva disegnato papa Pio Quarto farle condurre per una delle porte di San Piero, ma non ebbe tempo, sopravenuto dalla morte. Ultimamente ha condotto fra' Guglielmo modelli di cera per tre altari di San Piero, Cristo deposto di croce, il ricevere Pietro le chiavi della Chiesa e la venuta dello Spirito Santo, che tutte sarebbono belle storie.
Insomma ha costui avuto et ha occasione grandissima di affaticarsi e fare dell'opere, avenga che l'uffizio del Piombo è di tanto gran rendita, che si può studiare et affaticarsi per la gloria, il che non può fare chi non ha tante comodità. E nondimeno non ha condotto fra' Guglielmo opere finite dal 1547 infino a questo anno 1567, ma è proprietà di chi ha quell'uffizio impigrire e diventare infingardo. E che ciò sia vero, costui innanzi che fusse frate del Piombo condusse molte teste di marmo et altri lavori, oltre quelli che abbiàn detto. È ben vero che ha fatto quattro gran Profeti di stucco, che sono nelle nicchie fra i pilastri del primo arco grande di San Piero; si adoperò anco assai ne' carri della festa di Testaccio et altre mascherate, che già molti anni sono si fecero in Roma. È stato creato di costui un Guglielmo Tedesco, che fra l'altre opere ha fatto un molto bello e ricco ornamento di statue piccoline di bronzo, imitate dall'antiche migliori, a uno studio di legname (così gli chiamano), che il conte di Pitigliano donò al signor duca Cosimo; le quali figurette son queste: il cavallo di Campidoglio, quelli di Monte Cavallo, gl'Ercoli di Farnese, l'Antimo et Apollo di Belvedere, e le teste de' dodici imperatori con altre tutte ben fatte e simili altre proprie.
Ha aùto ancora Milano un altro scultore che è morto questo anno, chiamato Tommaso Porta, il quale ha lavorato di marmo eccellentemente, e particolarmente ha contrafatto teste antiche di marmo che sono state vendute per antiche, e le maschere l'ha fatte tanto bene, che nessuno l'ha paragonato, et io ne ho una di sua mano di marmo posta nel camino di casa mia d'Arezzo, che ogni uno la crede antica. Costui fece di marmo quanto in naturale le dodici teste degli imperatori che furono cosa rarissima, le quali papa Giulio Terzo le tolse e gli fece dono della segnatura d'uno uffizio di scudi cento l'anno, e tenne non so che mesi le teste in camera sua, come cosa rara. Le quali, per opera si crede di fra' Guglielmo su detto e d'altri che l'invidiavano, operorono contra di lui di maniera, che non riguardando alla degnità del dono fattogli da quel Pontefice gli furono rimandate a casa, dove poi con miglior condizione gli fur pagate da mercanti e mandate in Ispagna. Nessuno di questi imitatori delle cose antiche valse più di costui, del quale m'è parso degno che si faccia memoria di lui tanto più quanto egli è passato a miglior vita, lasciando fama e nome della virtù sua.
Ha similmente molte cose lavorato in Roma un Lionardo milanese, il quale ha ultimamente condotto due statue di marmo, San Piero e San Paulo, nella cappella del cardinale Giovanni Riccio da Monte Pulciano, che sono molto lodate e tenute belle e buone figure. Et Iacopo e Tommaso Casignuola scultori hanno fatto per la chiesa della Minerva alla cappella de' Caraffi la sepoltura di papa Paulo Quarto, con una statua di pezzi (oltre agl'altri ornamenti) che rappresenta quel Papa, col manto di mischio brocatello, et il fregio et altre cose di mischi di diversi colori, che la rendono maravigliosa. E così veggiamo questa giunta all'altre industrie degl'ingegni moderni, e che i scultori con i colori vanno nella scultura imitando la pittura. Il quale sepolcro ha fatto fare la santità e molta bontà e gratitudine di papa Pio Quinto, padre e pontefice veramente beatissimo, santissimo e di lunga vita degnissimo.
Nanni di Baccio Bigio scultore fiorentino, oltre quello che in altri luoghi s'è detto di lui, dico che nella sua giovanezza sotto Raffaello da Monte Lupo attese di maniera alla scultura, che diede in alcune cose piccole, che fece di marmo, gran speranza d'aver a essere valent'uomo. Et andato a Roma sotto Lorenzetto scultore, mentre attese, come il padre avea fatto, anco all'architettura, fece la statua di papa Clemente Settimo, che è nel coro della Minerva, et una Pietà di marmo, cavata da quella di Michelagnolo, la quale fu posta in Santa Maria de Anima, chiesa de' Tedeschi, come opera che è veramente bellissima. Un'altra simile, indi a non molto, ne fece a Luigi del Riccio, mercante fiorentino, che è oggi in Santo Spirito di Firenze a una cappella di detto Luigi, il quale è non meno lodato di questa Pietà verso la patria, che Nanni d'aver condotta la statua con molta diligenza et amore. Si diede poi Nanni sotto Antonio da San Gallo con più studio all'architettura, et attese, mentre Antonio visse, alla fabrica di San Piero, dove cascando da un ponte alto sessanta braccia e sfragellandosi, rimase vivo per miracolo. Ha Nanni condotto in Roma e fuori molti edifizii, e cercato di più e maggiori averne, come s'è detto nella vita di Michelagnolo. È sua opera il palazzo del cardinal Monte Pulciano in strada Iulia, et una porta del Monte San Savino fatta fare da Giulio Terzo, con un ricetto d'acqua non finito, una loggia et altre stanze del palazzo stato già fatto dal cardinal vecchio di Monte. È parimente opera di Nanni la casa de' Mattei et altre molte fabriche, che sono state fatte e si fanno in Roma tuttavia.
È anco oggi fra gl'altri famoso e molto celebre architettore Galeazzo Alessi perugino, il quale, servendo in sua giovanezza il cardinale di Rimini, del quale fu cameriero, fece fra le sue prime opere, come volle detto signore, la riedificazione delle stanze della fortezza di Perugia, con tante comodità e bellezza, che in luogo sì piccolo fu uno stupore, e pure sono state capaci già più volte del Papa, con tutta la corte. Appresso, per avere altre molte opere che fece al detto Cardinale, fu chiamato dai genovesi con suo molto onore a' servigii di quella republica, per la quale la prima opera che facesse si fu racconciare e fortificare il porto et il molo, anzi quasi farlo un altro da quello che era prima. Conciò sia che allargandosi in mare per buono spazio, fece fare un bellissimo portone, che giace in mezzo circolo, molto adorno di colonne rustiche e di nicchie a quelle intorno. All'estremità del qual circolo si congiungono due baluardotti, che difendono detto portone. In sulla piazza poi, sopra il molo, alle spalle di detto portone, verso la città fece un portico grandissimo, il quale riceve il corpo della guardia, d'ordine dorico, e sopra esso, quanto è lo spazio che egli tiene, et insieme i due baluardi e porta, resta una piazza spedita per comodo dell'artiglieria, la quale a guisa di cavaliere sta sopra il molo e difende il porto dentro e fuora. Et oltre questo che è fatto, si dà ordine per suo disegno, e già dalla Signoria è stato approvato il modello, all'accrescimento della città, con molta lode di Galeazzo, che in queste et altre opere ha mostrato di essere ingegnosissimo. Il medesimo ha fatto la strada nuova di Genova, con tanti palazzi fatti con suo disegno alla moderna, che molti affermano in niun'altra città d'Italia trovarsi una strada più di questa magnifica e grande, né più ripiena di ricchissimi palazzi, stati fatti da que' signori a persuasione e con ordine di Galeazzo, al quale confessano tutti avere obligo grandissimo, poiché è stato inventore et essecutore d'opere che, quanto agl'edifizii, rendono senza comparazione la loro città molto più magnifica e grande ch'ella non era.
Ha fatto il medesimo altre strade fuori di Genova, e tra l'altre quella che si parte da Ponte Decimo per andare in Lombardia. Ha restaurato le mura della città verso il mare e la fabrica del Duomo, facendogli la tribuna e la cupola. Ha fatto anco molte fabriche private, il palazzo in villa di Messer Luca Iustiniano, quello del signor Ottaviano Grimaldi, i palazzi di due dogi, uno al signor Batista Grimaldi et altri molti, de' quali non accade ragionare. Già non tacerò che ha fatto il lago et isola del signor Adamo Centurioni, copiosissimo d'acque e fontane, fatte in diversi modi belli e capricciosi. La fonte del capitan Larcaro, vicina alla città, che è cosa notabilissima. Ma sopra tutte le diverse maniere di fonti che ha fatte a molti, è bellissimo il bagno che ha fatto in casa del signor Giovan Batista Grimaldi in Bisagno. Questo, ch'è di forma tondo, ha nel mezzo un laghetto, nel quale si possono bagnare comodamente otto o dieci persone, il quale laghetto ha l'acqua calda da quattro teste di mostri marini, che pare che escano del lago, e la fredda da altre tante rane, che sono sopra le dette teste de' mostri; gira intorno al detto lago, a cui si scende per tre gradi in cerchio, uno spazio quanto a due persone può bastare a passeggiare commodamente, il muro di tutto il circuito è partito in otto spazii: in quattro sono quattro gran nicchie, ciascuna delle quali riceve un vaso tondo, che alzandosi poco da terra, mezzo entra nella nicchia e mezzo resta fuora, et in mezzo di ciascun d'essi può bagnarsi un uomo, venendo l'acqua fredda e calda da un mascherone, che la getta per le corna e la ripiglia quando bisogna per bocca. In una dell'altre quatro parti è la porta, e nell'altre tre sono finestre e luoghi da sedere, e tutte l'otto parti sono divise da termini che reggono la cornice, dove posa la volta ritonda di tutto il bagno. Di mezzo alla qual volta pende una gran palla di vetro cristallino, nella quale è dipinta la sfera del cielo, e dentro essa il globo della terra, e da questa in alcune parti, quando altri usa il bagno di notte, viene chiarissimo lume, che rende il luogo luminoso come fusse di mezzo giorno; lascio di dire il comodo dell'antibagno, lo spogliatoio, il bagnetto quali son pieni di istucchi, e le pitture ch'adornano il luogo, per non esser più lungo di quello che bisogni. Basta, che non son punto disformi a tant'opera. In Milano con ordine del medesimo Galeazzo s'è fatto il palazzo del signor Tommaso Marini duca di Terranuova, e per avventura la facciata della fabrica, che si fa ora di S. Celso, l'auditorio del Cambio in forma ritonda, la già cominciata chiesa di S. Vittore et altri molti edifizi. Ha mandato l'istesso dove non è potuto egli esser impersona, disegni per tutta Italia e fuori, di molti edifizii, palazzi e tempii de' quali non dirò altro: questo potendo bastare a farlo conoscere per virtuoso e molto eccellente architetto.
Non tacerò ancora, poiché è nostro italiano, se bene non so il particolare dell'opere sue, che in Francia, secondo che intendo, è molto eccellente architetto et in particolare nelle cose di fortificazioni, Rocco Guerrini da Marradi, il quale in queste ultime guerre di quel regno ha fatto con suo molto utile et onore molte opere ingegnose e laudabili.
E così ho in quest'ultimo, per non defraudare niuno del proprio merito della virtù, favellato d'alcuni scultori et architetti vivi, de' quali non ho prima avuto occasione di comodamente ragionare.

IL FINE DELLA VITA DI LIONE LIONI SCULTOR ARETINO



VITA DI DON GIULIO CLOVIO MINIATORE

Non è mai stato, né sarà per aventura in molti secoli, né il più raro, né il più eccellente miniatore, o vogliamo dire dipintore di cose piccole, di don Giulio Clovio, poiché ha di gran lunga superato quanti altri mai si sono in questa maniera di pitture esercitati.
Nacque costui nella provincia di Schiavonia, o vero Crovazia, in una villa detta Grisone, nella diocesi di Madrucci, ancor che i suoi maggiori, della famiglia de' Clovi, fussero venuti di Macedonia, et il nome suo al battesimo fu Giorgio Iulio. Attese da fanciullo alle lettere, e poi, per istinto naturale, al disegno. E pervenuto all'età di diciotto anni, disideroso d'acquistare, se ne venne in Italia e si mise a' servigii di Marino cardinal Grimani, appresso al quale attese lo spazio di tre anni a disegnare di maniera, che fece molto migliore riuscita che per aventura non era insino a quel tempo stata aspettata di lui, come si vide in alcuni disegni di medaglie e rovesci, che fece per quel signore, disegnati di penna minutissimamente e con estrema e quasi incredibile diligenza.
Onde veduto che più era aiutato dalla natura nelle piccole cose che nelle grandi, si risolvé, e saviamente, di volere attendere a miniare, poiché erano le sue opere di questa sorte graziosissime e belle a maraviglia, consigliato anco a ciò da molti amici, et in particolare da Giulio Romano, pittore di chiara fama, il quale fu quegli che primo d'ogni altro gl'insegnò il modo di adoperare le tinte et i colori a gomma et a tempera. E le prime cose che il Clovio colorisse, fu una Nostra Donna, la quale ritrasse come ingegnoso e di bello spirito dal libro della vita di essa Vergine, la quale opera fu intagliata in istampa di legno nelle prime carte d'Alberto Duro. Per che essendosi portato bene in questa prima opera, si condusse per mezzo del signor Alberto da Carpi, il quale allora serviva in Ungheria, al servizio del re Lodovico e della reina Maria, sorella di Carlo Quinto. Al quale Re condusse un giudizio di Paris di chiaro scuro che piacque molto, et alla Reina una Lucrezia romana che s'uccideva, con alcune altre cose, che furono tenute bellissime.
Seguendo poi la morte di quel Re e la rovina delle cose d'Ungheria, fu forzato Giorgio Iulio tornarsene in Italia. Dove non fu a pena arrivato che il cardinale Campeggio vecchio lo prese al suo servizio, onde, accomodatosi a modo suo, fece una Madonna di minio a quel signore et alcun'altre cosette, e si dispose voler attendere per ogni modo con maggiore studio alle cose dell'arte. E così si mise a disegnare et a cercare d'imitare con ogni sforzo l'opere di Michelagnolo. Ma fu interrotto quel suo buon proposito dall'infelice Sacco di Roma l'anno 1527, perché trovandosi il povero uomo prigione degli Spagnuoli e mal condotto, in tanta miseria ricorse all'aiuto divino, facendo voto, se usciva salvo di quella rovina miserabile e di mano a que' nuovi farisei, di subito farsi frate. Onde essendosi salvato per grazia di Dio, e condottosi a Mantova, si fece religioso nel monasterio di San Ruffino dell'Ordine de' canonici regolari Scopetini, essendogli stato promesso, oltre alla quiete e riposo della mente e tranquill'ozio di servire a Dio, che arebbe comodità di attendere alle volte quasi per passatempo a lavorare di minio. Preso dunque l'abito e chiamatosi don Giulio, fece in capo all'anno professione e poi per ispazio di tre anni si stette assai quietamente fra que' padri, mutandosi d'uno in altro monasterio, secondo che più a lui piaceva, come altrove s'è detto, e sempre alcuna cosa lavorando. Nel qual tempo condusse un libro grande da coro con minii sottili e bellissime fregiature, facendovi fra l'altre cose un Cristo che appare in forma d'ortolano a Madalena, che fu tenuto cosa singolare; per che cresciutogli l'animo fece, ma di figure molto maggiori, la storia dell'adultera accusata da' giudei a Cristo, con buon numero di figure. Il che tutto ritrasse da una pittura, la quale di que' giorni avea fatta Tiziano Vecello pittore eccellentissimo. Non molto dopo avvenne che tramutandosi don Giulio da un monasterio a un altro, come fanno i monaci o i frati, si ruppe sgraziatamente una gamba, per che condotto da que' padri, acciò meglio fusse curato, al monasterio di Candiana, vi dimorò senza guarire alcun tempo, essendo forse male stato trattato, come s'usa, non meno dai padri che da' medici. La qual cosa intendendo il cardinal Grimani, che molto l'amava, per la sua virtù ottenne dal Papa di poterlo tenere a' suoi servigii e farlo curare. Onde cavatosi don Giulio l'abito e guarito della gamba andò a Perugia col Cardinale, che là era Legato, e lavorando gli condusse di minio quest'opere: un uffizio di Nostra Donna con quattro bellissime storie, et in uno epistolario tre storie grandi di San Paulo apostolo, una delle quali indi a non molto fu mandata in Ispagna. Gli fece anco una bellissima Pietà et un Crucifisso, che dopo la morte del Grimani capitò alle mani di messer Giovanni Gaddi, cherico di camera. Le quali tutte opere fecero conoscere in Roma don Giulio per eccellente e furono cagione che Alessandro cardinal Farnese, il quale ha sempre aiutato, favorito e voluto appresso di sé uomini rari e virtuosi, inteso la fama di lui e vedute l'opere, lo prese al suo servizio, dove è poi stato sempre e sta ancora così vecchio. Al quale signore dico ha condotti infiniti minii rarissimi, d'una parte de' quali farò qui menzione, perché di tutti non è quasi possibile.
In un quadretto piccolo ha dipinta la Nostra Donna col Figliuolo in braccio, con molti Santi e figure attorno, e ginocchioni papa Paulo Terzo, ritratto di naturale tanto bene che par vivo nella piccolezza di quel minio. Et all'altre figure similmente non pare che manchi altro che lo spirito e la parola. Il quale quadrotto, come cosa che è veramente rarissima, fu mandato in Ispagna a Carlo Quinto imperatore, che ne restò stupefatto. Dopo quest'opera gli fece il cardinale mettere mano a far di minio le storie d'un uffizio della Madonna, scritto di lettera formata dal Monterchi, che in ciò è raro. Onde risolutosi don Giulio di voler che quest'opera fusse l'estremo di sua possa, vi si misse con tanto studio e diligenza, che niun'altra fu mai fatta con maggiore. Onde ha condotto col pennello cose tanto stupende, che non par possibile vi si possa con l'occhio né con la mano arrivare.
Ha spartito questa sua fatica don Giulio in ventisei storiette, dua carte a canto l'una all'altra, che è la figura et il figurato, e ciascuna storietta ha l'ornamento attorno vario dall'altra con figure e bizzarrie approposito della storia che egli tratta. Né vo' che mi paia fatica raccontarle brevemente, atteso che ogni uno nol può vedere. Nella prima faccia dove comincia il mattutino è l'Angelo che annunzia la Vergine Maria, con una fregiatura nell'ornamento piena di puttini che son miracolosi, e nell'altra storia Esaia, che parla col re Achaz. Nella seconda alle laude è la visitazione della Vergine a Elisabeta, che ha l'ornamento finto di metallo, nella storia dirimpetto è la Iustizia e la Pace che si abracciano. La prima è la Natività di Cristo e dirimpetto nel paradiso terrestre Adamo et Eva che mangiano il pomo, con ornamenti l'uno e l'altro pieno di ignudi et altre figure et animali ritratti di naturale. A terza vi ha fatto i pastori che l'Angelo appar loro e dirimpetto Triburtina Sibilla che mostra a Ottaviano imperatore la Vergine con Cristo nato in cielo, adorno l'uno e l'altro di fregiature e figure varie tutte colorite, e dentro il ritratto di Alessandro Magno et Alessandro cardinal Farnese. A sesta vi è la circuncisione di Cristo, dov'è ritratto per Simeone papa Paulo Terzo, e dentro alla storia il ritratto della Mancina e della Settimia gentil donne romane, che furono di somma bellezza, et un fregio bene ornato atorno quella, che fascia parimente col medesimo ordine l'altra storia, che gli è a canto, dov'è San Giovanni Batista che battezza Cristo, storia piena di ignudi. A nona vi ha fatto i Magi che adorano Cristo e dirimpetto Salamone adorato dalla regina Sabba, con fregiature all'una e l'altra ricche e varie, e dentro a questa da' piè, condotto di figure manco che formiche, tutta la festa di Testaccio, che è cosa stupenda a vedere, che sì minuta cosa si possa condur perfetta con una punta di pennello, che è delle gran cose che possa fare una mano e vedere un occhio mortale, nella quale sono tutte le livree che fece allora il cardinale Farnese. A vespro è la Nostra Donna che fugge con Cristo in Egitto e dirimpetto è la sommersione di Faraone nel Mar Rosso, con le sue fregiature varie da' lati. A compieta è l'incoronazione della Nostra Donna in cielo, con moltitudine d'Angeli, e dirimpetto nell'altra storia Assuero che incorona Ester con le sue fregiature a proposito; alla messa della Madonna, ha posto innanzi in una fregiatura finta di cameo che è Gabriello che annunzia il verbo alla Vergine, e le due storie sono la Nostra Donna con Gesù Cristo in collo, e nell'altra Dio Padre che crea il cielo e la terra. Dinanzi a' salmi penitenziali è la battaglia nella quale per comandamento di Davit re fu morto Uria Eteo, dove sono cavagli e gente ferita e morta ch'è miracolosa, e dirimpetto nell'altra storia Davit in penitenzia, con ornamenti et apresso grotteschine; ma chi vuol finire di stupire guardi nelle tanìe, dove minutamente ha fatto intrigaro con le lettere de' nomi de' Santi, dove di sopra nella margine è un cielo pieno di Angeli intorno alla Santissima Trinità, e di mano in mano gl'Apostoli e gl'altri Santi, e dall'altra banda séguita il cielo con la Nostra Donna e tutte le Sante vergini; nella margine di sotto, ha condotto poi di minutissime figure la processione che fa Roma per la solennità del corpo di Cristo piena di ofiziali con le torce, vescovi e cardinali, el Santissimo Sacramento portato dal papa, col il resto della corte e guardia de' lanzi, e finalmente Castello Sant'Agnolo che tira artiglierie: cosa tutta da fare stupire e maravigliare ogni acutissimo ingegno. Nel principio dello ofizio de' morti son dua storie: la Morte che trionfa sopra tutti e mortali potenti di stati e regni, come la bassa plebe, dirimpetto nell'altra storia è la resurrezione di Lazzaro, e dreto la Morte che combatte con alcuni a cavallo. Nello ofizio della Croce ha fatto Cristo crucifisso e dirimpetto Moisè con la pioggia delle serpe e lui che mette in alto quella di bronzo. A quello dello Spirito Santo è quando gli scende sopra gl'Apostoli, e dirimpetto il murar la torre di Babilonia da Nebrot. La quale opera fu condotta con tanto studio e fatica da don Giulio nello spazio di nove anni, che non si potrebbe, per modo di dire, pagare questa opera con alcun prezzo già mai. E non è possibile vedere per tutte le storie la più strana e bella varietà di bizzarri ornamenti, e diversi atti e positure d'ignudi, maschi e femine, studiati e ben ricerchi in tutte le parti, e poste con proposito attorno in detti fregi per arricchirne quell'opera. La quale diversità di cose spargono per tutta quell'opera tanta bellezza, che ella pare cosa divina e non umana, e massimamente avendo con i colori e con la maniera fatto sfuggire et allontanare le figure, i casamenti et i paesi, con tutte quelle parti che richiede la prospettiva e con la maggior perfezzione che si possa. Intanto che così da presso come lontano fanno restare ciascun maravigliato, per non dire nulla di mille varie sorti d'alberi tanto ben fatti, che paiono fatti in paradiso. Nelle storie et invenzioni si vede disegno, nel componimento ordine e varietà, e ricchezza negl'abiti, condotti con sì bella grazia e maniera, che par impossibile siano condotti per mano d'uomini, onde possiàn dire che don Giulio abbia, come si disse a principio, superato in questo gl'antichi e moderni, e che sia stato a' tempi nostri un piccolo e nuovo Michelagnolo.
Il medesimo fece già un quadrotto di figure piccole al Cardinale di Trento, sì vago e bello che quel signore ne fece dono all'imperatore Carlo Quinto; e dopo al medesimo ne fece un altro di Nostra Donna et insieme il ritratto del re Filippo, che furono bellissimi e per ciò donati al detto Re catolico. Al medesimo cardinal Farnese fece in un quadrotto la Nostra Donna col Figliuolo in braccio, Santa Lisabetta, San Giovannino et altre figure, che fu mandato in Ispagna a Rigomes. In un altro che oggi l'ha il detto Cardinale, fece San Giovanni Batista nel deserto con paesi et animali bellissimi, et un altro simile ne fece poi al medesimo, per mandare al re Filippo. Una Pietà, che fece con la Madonna et altre molte figure, fu dal detto Farnese donata a papa Paulo Quarto, che mentre visse la volle sempre appresso di sé. Una storia dove Davit taglia la testa a Golia gigante fu dal medesimo Cardinale donata a madama Margherita d'Austria, che la mandò al re Filippo suo fratello, insieme con un altro che per compagnia di quello gli fece fare quella illustrissima signora, dove Iudit tagliava il capo ad Oloferne.
Dimorò già molti anni sono don Giulio appresso al duca Cosimo molti mesi, et in detto tempo gli fece alcun'opere, parte delle quali furono mandate all'Imperatore et altri signori e parte ne rimasero appresso sua eccellenza illustrissima, che fra l'altre cose gli fece ritrarre una testa piccola d'un Cristo da una che n'ha egli stesso antichissima, la quale fu già di Gottifredi Buglioni re di Ierusalem, la quale dicono essere più simile alla vera effigie del Salvatore che alcun'altra che sia. Fece don Giulio al detto signor Duca un Crucifisso con la Madalena a' piedi, che è cosa maravigliosa, et un quadro piccolo d'una Pietà, del quale abbiamo il disegno nel nostro libro insieme con un altro, pure di mano di don Giulio, d'una Nostra Donna ritta col Figliuolo in collo, vestita all'ebrea, con un coro d'Angeli intorno e molte anime nude in atto di raccomandarsi.
Ma per tornare al signor Duca, egli ha sempre molto amato la virtù di don Giulio e cercato d'avere delle sue opere. E se non fusse stato il rispetto che ha avuto a Farnese, non l'arebbe lasciato da sé partire, quanto stette, come ho detto, alcuni mesi al suo servizio in Firenze. Ha dunque il Duca, oltre le cose dette, un quadretto di mano di don Giulio, dentro al quale è Ganimede portato in cielo da Giove converso in aquila. Il quale fu ritratto da quello che già disegnò Michelagnolo, il quale è oggi appresso Tomaso de' Cavalieri, come s'è detto altrove. Ha similmente il Duca nel suo scrittoio un San Giovanni Batista, che siede sopra un sasso, et alcuni ritratti di mano del medesimo che sono mirabili. Fece già don Giulio un quadro d'una Pietà, con le Marie et altre figure attorno, alla Marchesana di Pescara, et un altro simile in tutto al cardinale Farnese, che lo mandò all'Imperatrice, che è oggi moglie di Massimiliano e sorella del re Filippo. Et un altro quadretto di mano del medesimo mandò a sua maestà cesarea, dentro al quale è in un paesotto bellissimo San Giorgio che amazza il serpente, fatto con estrema diligenza; ma fu passato questo di bellezza e di disegno da un quadro maggiore, che don Giulio fece a un gentiluomo spagnuolo, nel quale è Traiano imperatore, secondo che si vede nelle medaglie, e col rovescio della provincia di Giudea. Il quale quadro fu mandato al sopra detto Massimiliano oggi imperatore.
Al detto cardinale Farnese ha fatto due altri quadretti, in uno è Gesù Cristo ignudo con la croce in mano, e nell'altro è il medesimo menato da' giudei et accompagnato da una infinità di popoli al Monte Calvario con la croce in ispalla, e dietro la Nostra Donna e l'altre Marie in atti graziosi e da muovere a pietà un cuor di sasso. Et in due carte grandi, per un messale, ha fatto allo stesso Cardinale Gesù Cristo che ammaestra nella dottrina del Santo Evangelio gl'Apostoli, e nell'altra il Giudizio Universale tanto bello, anzi ammirabile e stupendo, che io mi confondo a pensarlo, e tengo per fermo che non si possa, non dico fare, ma vedere, né imaginarsi per minio, cosa più bella. È gran cosa che in molte di queste opere, e massimamente nel detto ufficio della Madonna, abbia fatto don Giulio alcune figurine non più grandi che una ben piccola formica, con tutte le membra sì espresse e sì distinte, che più non si sarebbe potuto in figure grandi quanto il vivo; e che per tutto siano sparsi ritratti naturali d'uomini e donne, non meno simili al vero che se fussero da Tiziano o dal Bronzino stati fatti naturalissimi e grandi quanto il vivo; senzaché in alcune figure di fregi si veggiono alcune figurette nude et in altre maniere, fatte simili a camei, che per piccolissime che sieno sembrano in quel loro essere grandissimi giganti, cotanta è la virtù e strema diligenzia che in operando mette don Giulio.
Del quale ho voluto dare al mondo questa notizia acciò che sappiano alcuna cosa di lui quei che non possono, né potranno delle sue opere vedere, per essere quasi tutte in mano di grandissimi signori e personaggi. Dico quasi tutte, perché so alcuni privati avere in scatolette ritratti bellissimi di mano di costui, di signori, d'amici o di donne da loro amate. Ma comunche sia, basta che l'opere di sì fatti uomini non sono publiche, né in luogo da potere essere vedute da ognuno, come le pitture, sculture e fabriche degl'altri artefici di queste nostre arti. Ora ancor che don Giulio sia vecchio e non studi, né attenda ad altro che procacciarsi con opere sante e buone e con una vita tutta lontana dalle cose del mondo la salute dell'anima sua, e sia vecchio affatto, pur va lavorando continuamente alcuna cosa, là dove stassi in molta quiete e ben governato nel palazzo de' Farnesi, dove è cortesissimo in mostrando ben volentieri le cose sue a chiunche va a visitarlo e vederlo, come si fanno l'altre maraviglie di Roma.

IL FINE DELLA VITA DI DON GIULIO CLOVIO MINIATORE



DI DIVERSI ARTEFICI ITALIANI

Vive anco in Roma, e certo è molto eccellente nella sua professione, Girolamo Siciolante da Sermoneta, del quale se bene si è detto alcuna cosa nella vita di Perino del Vaga, di cui fu discepolo e l'aiutò nell'opere di Castel Sant'Agnolo e molte altre, non sia però se non bene dirne anco qui quanto la sua molta virtù merita veramente.
Fra le prime opere adunque che costui fece da sé fu una tavola alta dodici palmi, che egli fece a olio di venti anni, la quale è oggi nella badia di Santo Stefano, vicino alla terra di Sermoneta sua patria, nella quale sono quanto il vivo San Pietro, Santo Stefano e San Giovanni Batista, con certi putti. Dopo la quale tavola, che molto fu lodata, fece nella chiesa di Santo Apostolo di Roma, in una tavola a olio, Cristo morto, la Nostra Donna, San Giovanni e la Madalena con altre figure condotte con diligenza. Nella Pace condusse poi alla cappella di marmo, che fece fare il cardinale Cesis, tutta la volta lavorata di stucchi, in un partimento di quattro quadri, facendovi il Nascere di Gesù Cristo, l'adorazione de' Magi, il fuggire in Egitto e l'uccisione de' fanciulli innocenti, che tutto fu opera molto laudabile e fatta con invenzione, giudizio e diligenza. Nella medesima chiesa fece, non molto dopo, il medesimo Girolamo in una tavola alta quindici palmi, appresso all'altare maggiore, la Natività di Gesù Cristo, che fu bellissima. E dopo per la sagrestia della chiesa di Santo Spirito di Roma, in un'altra tavola a olio, la venuta dello Spirito Santo sopra gl'Apostoli, che è molto graziosa opera. Similmente nella chiesa Santa Maria de Anima, chiesa della nazione tedesca, dipinse a fresco tutta la cappella de' Fuccheri, dove Giulio Romano già fece la tavola con istorie grandi della vita di Nostra Donna. Et in San Iacopo degli Spagnuoli, all'altare maggiore, fece in una gran tavola un bellissimo Crucifisso, con alcuni Angeli attorno, la Nostra Donna, San Giovanni et oltre ciò due gran quadri, che la mettono in mezzo, con una figura per quadro alta nove palmi, cioè San Iacopo apostolo e Santo Alfonso vescovo, nei quali quadri si vede che mise molto studio e diligenza.
A piazza Giudea, nella chiesa di San Tommaso, ha dipinto tutta una cappella a fresco, che risponde nella corte di casa Cenci, facendovi la natività della Madonna, l'essere annunziata dall'Angelo et il partorire il Salvatore Gesù Cristo. Al cardinal Capodiferro ha dipinto nel suo palazzo un salotto molto bello de' fatti degl'antichi Romani. Et in Bologna fece già nella chiesa di San Martino la tavola dell'altare maggiore, che fu molto comendata. Al signor Pierluigi Farnese, duca di Parma e Piacenza, il quale servì alcun tempo, fece molte opere et in particolare un quadro, che è in Piacenza fatto per una cappella, dentro al quale è la Nostra Donna, San Giuseppo, San Michele, San Giovanni Batista et un Angelo di palmi otto.
Dopo il suo ritorno di Lombardia fece nella Minerva, cioè nell'andito della sagrestia, un Crucifisso, e nella chiesa un altro. E dopo fece a olio una Santa Caterina et una Santa Agata. Et in San Luigi fece una storia a fresco a concorrenza di Pellegrino Pellegrini bolognese, e di Iacopo del Conte fiorentino. In una tavola a olio, alta palmi sedici, fatta nella chiesa di Santo Alò, dirimpetto alla Misericordia, Compagnia de' Fiorentini, dipinse non ha molto la Nostra Donna, San Iacopo apostolo, Santo Alò e San Martino vescovi, et in San Lorenzo in Lucina, alla cappella della contessa di Carpi, fece a fresco un San Francesco che riceve le stimate. E nella sala de' re fece al tempo di papa Pio Quarto, come s'è detto, una storia a fresco sopra la porta della cappella di Sisto, nella quale storia, che fu molto lodata, Pipino re de' Franchi dona Ravenna alla Chiesa romana e mena prigione Astulfo re de' Longobardi, e di questa abbiamo il disegno di propria mano di Girolamo nel nostro libro, con molti altri del medesimo.
E finalmente ha oggi fra mano la cappella del cardinale Cesis in Santa Maria Maggiore, dove ha già fatto in una gran tavola il martirio di Santa Caterina fra le ruote, che è bellissima pittura, come sono l'altre che quivi et altrove va continuamente e con suo molto studio lavorando. Non farò menzione de' ritratti, quadri et altre opere piccole di Girolamo, perché oltre che sono infiniti, queste possono bastare a farlo conoscere per eccellente e valoroso pittore.
Avendo detto di sopra, nella vita di Perino del Vaga, che Marcello pittore mantovano operò molti anni sotto di lui cose che gli dierono gran nome, dico al presente, venendo più al particolare, che egli già dipinse nella chiesa di Santo Spirito la tavola e tutta la cappella di San Giovanni Evangelista col ritratto di un commendatore di detto Santo Spirito, che murò quella chiesa e fece la detta cappella. Il quale ritratto è molto simile e la tavola bellissima; onde, veduta la bella maniera di costui, un frate del Piombo gli fece dipignere a fresco nella Pace, sopra la porta che di chiesa entra in convento, un Gesù Cristo fanciullo, che nel tempio disputa con i dottori, che è opera bellissima. Ma perché si è dilettato sempre costui di fare ritratti e cose piccole, lasciando l'opere maggiori, n'ha fatto infiniti, onde se ne veggiono alcuni di papa Paulo Terzo belli e simili affatto. Similmente con disegni di Michelagnolo e di sue opere ha fatto una infinità di cose similmente piccole, e fra l'altre in una sua opera ha fatta tutta la facciata del Giudizio, che è cosa rara e condotta ottimamente, e nel vero, per cose piccole di pittura, non si può far meglio. Per lo che gli ha finalmente il gentilissimo Messer Tommaso de' Cavalieri, che sempre l'ha favorito, fatto dipignere con disegni di Michelagnolo una tavola per la chiesa di San Giovanni Laterano, d'una Vergine annunziata bellissima. Il quale disegno di man propria del Buonarruoto, da costui imitato, donò al signor duca Cosimo, Lionardo Buonarruoti, nipote di esso Michelagnolo, insieme con alcuni altri, di fortificazioni, d'architettura et altre cose rarissime. E questo basti di Marcello, che per ultimo attende a lavorare cose piccole, conducendole con veramente estrema et incredibile pacienza.
Di Iacopo del Conte fiorentino, il quale sì come i sopra detti abita in Roma, si sarà detto a bastanza fra in questo et in altri luoghi, se ancora se ne dirà alcun altro particolare. Costui dunque essendo stato in fin dalla sua giovanezza molto inclinato a ritrarre di naturale, ha voluto che questa sia stata sua principale professione, ancora che abbia secondo l'occasioni fatto tavole e lavori in fresco pure assai in Roma e fuori. Ma de' ritratti, per non dire di tutti, che sarebbe lunghissima storia, dirò solamente che egli ha ritratto da papa Paulo Terzo in qua tutti i pontefici che sono stati, e tutti i signori et ambasciatori d'importanza che sono stati a quella corte. E similmente capitani d'eserciti e grand'uomini di casa Colonna e degli Orsini, il signor Piero Strozzi et una infinità di vescovi, cardinali et altri gran prelati e signori, senza molti letterati et altri galantuomini, che gl'hanno fatto acquistare in Roma nome, onore et utile. Onde si sta in quella città con sua famiglia molto agiata et onoratamente. Costui da giovanetto disegnava tanto bene, che diede speranza, se avesse seguitato, di farsi eccellentissimo, e saria stato veramente, ma, come ho detto, si voltò a quello a che si sentiva da natura inclinato. Nondimeno non si possono le cose sue se non lodare. È di sua mano una sua tavola, che è nella chiesa del Popolo, un Cristo morto; et in un'altra, che ha fatta in San Luigi, alla cappella di San Dionigi, con storie, è quel Santo. Ma la più bell'opera che mai facesse si fu dua storie a fresco, che già fece, come s'è detto in altro luogo, nella Compagnia della Misericordia de' Fiorentini, con una tavola d'un Deposto di croce, con i ladroni confitti e lo svenimento di Nostra Donna, colorita a olio, molto belle e condotte con diligenzia e con suo molto onore. Ha fatto per Roma molti quadri e figure in varie maniere e fatto assai ritratti interi vestiti e nudi d'uomini e di donne, che sono stati bellissimi, però che così erano i naturali. Ha ritratto anco secondo l'occasioni molte teste di signore, gentildonne e principesse, che sono state a Roma. E fra l'altre so che già ritrasse la signora Livia Colonna, nobilissima donna, per chiarezza di sangue, virtù e bellezza incomparabile. E questo basti di Iacopo del Conte, il quale vive e va continuamente operando.
Arei potuto ancora di molti nostri toscani e d'altri luoghi d'Italia fare noto il nome e l'opere loro, che me la son passata di leggieri, perché molti hanno finito, per esser vecchi, di operare et altri, che son giovani che si vanno sperimentando, i quali faranno conoscersi più con le opere che con gli scritti. E perché ancor vive et opera Adoni Doni d'Ascesi, del quale se bene feci memoria di lui nella vita di Cristofano Gherardi, dirò alcune particolarità dell'opere sue, quali et in Perugia e per tutta l'Umbria, e particolarmente in Fuligno sono molte tavole, ma l'opere sue migliori sono in Ascesi a Santa Maria degl'Angeli nella cappelletta dove morì San Francesco, dove sono alcune storie de' fatti di quel Santo lavorate a olio nel muro, le quali son lodate assai, oltre che ha nella testa del refettorio di quel convento lavorato a fresco la Passione di Cristo, oltre a molte opere che gli han fatto onore; e lo fanno tenere e cortese e liberale la gentilezza e cortesia sua.
In Orvieto sono ancora di quella cura dua giovani, uno pittore chiamato Cesare del Nebbia e l'altro scultore..., ambidua per una gran via da far che la loro città che fino a oggi ha chiamato del continuo a ornarla maestri forestieri, che seguitando i princìpi che hanno presi, non aranno a cercar più d'altri maestri.
Lavora in Orvieto in Santa Maria, Duomo di quella città, Niccolò dalle Pomarancie, pittore giovane, il quale avendo condotto una tavola dove Cristo resuscita Lazzaro, ha mostro insieme con altre cose a fresco di racconciar nome apresso agli altri su detti. E perché de' nostri maestri italiani [le] vite siano alla fine, dirò solo che avendo sentito non minore un Lodovico scultore fiorentino, quale in Inghilterra et in Bari ha fatto, secondo che m'è detto, cose notabili, per non aver io trovato qua né parenti, né cognome, né visto l'opere sue, non posso come vorrei farne altra memoria che questa del nominarlo.



DI DIVERSI ARTEFICI FIAMMINGHI

Ora ancor che in molti luoghi, ma però confusamente si sia ragionato dell'opere d'alcuni eccellenti pittori fiamminghi e dei loro intagli, non tacerò i nomi d'alcun'altri, poiché non ho potuto avere intera notizia dell'opere, i quali sono stati in Italia, et io gl'ho conosciuti la maggior parte, per apprendere la maniera italiana, parendomi che così meriti la loro industria e fatica usata nelle nostre arti.
Lasciando adunque da parte Martino d'Olanda, Giovanni Eick da Bruggia et Uberto suo fratello, che nel 1410 mise in luce l'invenzione e modo di colorire a olio, come altrove s'è detto, e lasciò molte opere di sua mano in Guanto, in Ipri et in Bruggia, dove visse e morì onoratamente, dico che dopo costoro seguitò Ruggieri Vander Vueiden di Bruselles, il quale fece molte opere in più luoghi, ma principalmente nella sua patria e nel palazzo de' Signori quattro tavole a olio bellissime di cose pertinenti alla Iustizia.
Di costui fu discepolo Havesse, del quale abbiàn, come si disse, in Fiorenza in un quadretto piccolo che è in man del Duca, la Passione di Cristo. A costui successero Lodovico da Lovano, Luven fiammingo, Pietro Ghrista, Giusto da Guanto, Ugo d'Anversa et altri molti, i quali, perché mai non uscirono di loro paese, tennero sempre la maniera fiamminga. E se bene venne già in Italia Alberto Durero, del quale si è parlato lungamente, egli tenne nondimeno sempre la sua medesima maniera, se bene fu nelle teste massimamente pronto e vivace, come è notissimo a tutta Europa. Ma lasciando costoro et insieme con essi Luca d'Olanda et altri, conobbi nel 1532 in Roma un Michele Cockisien, il quale attese assai alla maniera italiana e condusse in quella città molte opere a fresco, e particolarmente in Santa Maria de Anima due cappelle. Tornato poi al paese e fattosi conoscere per valent'uomo, odo che fra l'altre opere ritrasse al re Filippo di Spagna una tavola da una di Giovanni Eick su detto, che è in Guanto. Nella quale ritratta che fu portata in Ispagna è il trionfo dell'Agnus Dei. Studiò poco dopo in Roma Martino Emskerck, buon maestro di figure e paesi, il quale ha fatto in Fiandra molte pitture e molti disegni di stampe di rame, che sono state, come s'è detto altrove, intagliate da Ieronomo Cocca, il quale conobbi in Roma mentre io serviva il cardinale Ipolito de' Medici. E questi tutti sono stati bellissimi inventori di storie e molto osservatori della maniera italiana. Conobbi ancora in Napoli, e fu mio amicissimo, l'anno 1545, Giovanni di Calker pittore fiammingo, molto raro e tanto pratico nella maniera d'Italia, che le sue opere non erano conosciute per mano di Fiammingo. Ma costui morì giovane in Napoli, mentre si sperava gran cose di lui, il quale disegnò la sua notomia al Vessalio.
Ma innanzi a questi fu molto in pregio Divik da Lovano, in quella maniera buon maestro, e Quintino della medesima terra, il quale nelle sue figure osservò sempre più che poté il naturale, come anche fece un suo figliuolo chiamato Giovanni. Similmente Gios di Cleves fu gran coloritore e raro in far ritratti di naturale, nel che servì assai il re Francesco di Francia, in far molti ritratti di diversi signori e dame.
Sono anco stati famosi pittori e parte sono, della medesima provincia, Giovanni d'Hemsen, Mattias Cook d'Anversa, Bernardo di Burselles, Giovanni Cornelis d'Amsterdam, Lamberto della medesima terra, Enrico da Binat, Giovachino di Patenier di Bovines e Giovanni Scorle canonico di Utrecht, il quale portò in Fiandra molti nuovi modi di pitture cavati d'Italia. Oltre questi, Giovanni Bella Gamba di Douai, Dirick d'Harlem della medesima, e Francesco Mostaret, che valse assai in fare paesi a olio, fantasticherie, bizzarrie, sogni et imaginazioni.
Girolamo Hertoglien Bos e Pietro Bruveghel di Breda furono imitatori di costui, e Lancilotto è stato eccellente in far fuochi, notti, splendori, diavoli e cose somiglianti. Piero Covek ha avuto molta invenzione nelle storie e fatto bellissimi cartoni per tapezzerie e panni d'arazzo, e buona maniera e pratica nelle cose d'architettura. Onde ha tradotto in lingua teutonica l'opere d'architettura di Sebastiano Serlio bolognese. E Giovanni di Malengt fu quasi il primo che portasse d'Italia in Fiandra il vero modo di fare storie piene di figure ignude e di poesie, e di sua mano in Silanda è una gran tribuna nella badia di Midelborgo. De' quali tutti si è avuto notizia da maestro Giovanni della Strada di Brucies, pittore, e da Giovanni Bologna de Douai, scultore, ambi fiaminghi et eccellenti come diremo nel trattato degl'Accademici.
Ora quanto a quelli della medesima provincia, che sono vivi et in pregio, il primo è fra loro, per opere di pittura e per molte carte intagliate in rame, Francesco Floris d'Anversa, discepolo del già detto Lamberto Lombardo. Costui dunque, il quale è tenuto eccellentissimo, ha operato di maniera in tutte le cose della sua professione, che niuno ha meglio (dicono essi) espressi gl'affetti dell'animo, il dolore, la letizia e l'altre passioni, con bellissime e bizzarre invenzioni di lui, intanto che lo chiamano, agguagliandolo all'Urbino, Raffaello fiammingo; vero è che ciò a noi non dimostrano interamente le carte stampate, perciò che chi intaglia, sia quanto vuole valent'uomo, non mai arriva a gran pezza all'opere et al disegno e maniera di chi ha disegnato. È stato condiscepolo di costui, e sotto la disciplina d'un medesimo maestro ha imparato, Guglielmo Cay di Breda pur d'Anversa, uomo moderato, grave, di giudizio, e molto imitatore del vivo e delle cose della natura, et oltre ciò assai accomodato inventore, e quegli che più d'ogni altro conduce le sue pitture sfumate e tutte piene di dolcezza e di grazia, e se bene non ha la fierezza e facilità e terribilità del suo condiscepolo Floro, ad ogni modo è tenuto eccellentissimo.
Michel Cockisien, del quale ho favellato di sopra e detto che portò in Fiandra la maniera italiana, è molto fra gl'artefici fiaminghi celebrato, per essere tutto grave e fare le sue figure che hanno del virile e del severo. Onde Messer Domenico Lampsonio fiamingo, del quale si parlerà a suo luogo, ragionando dei due sopra detti e di costui, gl'agguaglia a una bella musica di tre, nella quale faccia ciascun la sua parte con eccellenza.
Fra i medesimi è anco stimato assai Antonio Moro di Utrech in Olanda, pittore del Re catolico, i colori del quale nel ritrarre ciò che vuole di naturale, dicono contendere con la natura et ingannare gl'occhi benissimo. Scrivemi il detto Lampsonio, che il Moro, il quale è di gentilissimi costumi e molto amato, ha fatto una tavola bellisima d'un Cristo che risuscita con due Angeli e San Piero e San Paulo, che è cosa maravigliosa. Et anco è tenuto buono inventore e coloritore Martino di Vos, il quale ritrae ottimamente di naturale.
Ma quanto al fare bellissimi paesi, non ha pari Iacopo Gimer, Hanz Bolz et altri tutti d'Anversa e valent'uomini, de' quali non ho così potuto sapere ogni particolare. Pietro Arsen, detto Pietro Lungo, fece una tavola con le sue ale nella sua patria Asterdam, dentrovi la Nostra Donna et altri Santi, la quale tutta opera costò duemila scudi. Celebrano ancora per buon pittore Lamberto d'Asterdam, che abitò in Vinezia molti anni et aveva benissimo la maniera italiana (questo fu padre di Federigo, del quale per essere nostro accademico se ne farà memoria a suo luogo), e parimente Pietro Broghel d'Anversa, maestro eccellente, Lamberto Van Hort d'Amersfert d'Olanda; e per buono architetto Gilis Mostaret, fratello di Francesco su detto, e Pietro Pourbs giovinetto ha dato saggio di dover riuscire eccellente pittore.
Ora, acciò sappiamo alcuna cosa de' miniatori di que' paesi, dicono che questi vi sono stati eccellenti: Marino di Sireffa, Luca Hurenbout di Guanto, Simone Benich da Bruggia e Gherardo. E parimente alcune donne: Susanna sorella del detto Luca, che fu chiamata perciò ai servigii d'Enrico Ottavo re d'Inghilterra e vi stette onoratamente tutto il tempo di sua vita; Clara Skeysers di Guanto, che d'ottanta anni morì, come dicono, vergine; Anna figliuola di maestro Segher medico; Levina figlia di maestro Simone da Bruggia su detto, che dal detto Enrico d'Inghilterra fu maritata nobilmente, et avuta in pregio dalla reina Maria, sì come ancora è dalla reina Lisabetta. Similmente Caterina figliuola di maestro Giovanni da Hemsen, andò già in Ispagna al servigio della Reina d'Ungheria con buona provisione. Et insomma molt'altre sono state in quelle parti eccellenti miniatrici.
Nelle cose de' vetri e far finestre sono nella medesima provincia stati molti valent'uomini: Art Van Hort di Nimega, Borghese d'Anversa, Iacobs Felart, Divick Stas di Campen, Giovanni Ack d'Anversa, di mano del quale sono nella chiesa di Santa Gudula di Bruselles le finestre della cappella del Sacramento; e qua in Toscana hanno fatto al duca di Fiorenza molte finestre di vetri a fuoco bellissime Gualtieri e Giorgio fiaminghi e valent'uomini, con i disegni del Vasari. Nell'architettura e scultura i più celebrati fiaminghi sono Sebastiano d'Oia d'Utrech, il quale servì Carlo V in alcune fortificazioni e poi il re Filippo, Guglielmo d'Anversa, Guglielmo Cucur d'Olanda, buono architetto e scultore, Giovanni di Dale scultore, poeta et architetto, Iacobo Bruca scultore et architetto che fece molte opere alla Reina d'Ungheria reggente, et il quale fu maestro di Giovanni Bologna da Douai, nostro accademico, di cui poco appresso parleremo.
È anco tenuto buono architetto Giovanni di Minescheren da Guanto, et eccellente scultore Matteo Manemacken d'Anversa, il quale sta col Re de' Romani; e Cornelio Flores, fratello del sopra detto Francesco, è altresì scultore et architetto eccellente et è quelli che prima ha condotto in Fiandra il modo di fare le grottesche.
Attendono anco alla scultura con loro molto onore Guglielmo Palidamo, fratello d'Enrico predetto, scultore studiosissimo e diligente, Giovanni di Sart di Himegha, Simone di Delft e Gios Iason d'Amsterdam. E Lamberto Suave da Liege è bonissimo architetto et intagliatore di stampe col bulino, in che l'ha seguitato Giorgio Robin d'Ipri, Divick Volcaerts e Filippo Galle, amendue d'Arlem, e Luca Leidem con molti altri, che tutti sono stati in Italia a imparare e disegnare le cose antiche per tornarsene, sì come hanno fatto la più parte, a casa eccellenti. Ma di tutti i sopra detti è stato maggiore Lamberto Lombardo da Liege, gran letterato, giudizioso pittore et architetto eccellentissimo, maestro di Francesco Floris e di Guglielmo Cai, delle virtù del quale Lamberto e d'altri mi ha dato molta notizia per sue lettere Messer Domenico Lampsonio da Legie, uomo di bellissime lettere e molto giudizio in tutte le cose, il quale fu famigliare del cardinale Polo d'Inghilterra, mentre visse, et ora è segretario di monsignor vescovo e prencipe di Lege; costui, dico, mi mandò già scritta latinamente la vita di detto Lamberto, e più volte mi ha salutato a nome di molti de' nostri artefici di quella provincia. Et una lettera, che tengo di suo, data a dì trenta d'ottobre 1564, è di questo tenore:

Quattro anni sono ho avuto continuamente animo di ringraziare Vostra Signoria di due grandissimi benefizii, che ho ricevuto da lei (so che questo le parrà strano esordio d'uno che non l'abbia mai vista, né conosciuta; certo sarebbe strano se io non l'avessi conosciuta). Il che è stato in fin d'allora, che la mia buona ventura volse, anzi il Signor Dio, farmi grazia che mi venissero alle mani, non so in che modo, i vostri eccellentissimi scritti degl'architettori, pittori e scultori. Ma io allora non sapea pure una parola italiana, dove ora, con tutto che io non abbia mai veduto l'Italia, la Dio mercé, con leggere detti vostri scritti, n'ho imparato quel poco che mi ha fatto ardito a scrivervi questa. Et a questo desiderio d'imparare detta lingua mi hanno indotto essi vostri scritti, il che forse non averebbono mai fatto quei d'altro nessuno; tirandomi a volergli intendere uno incredibile e naturale amore, che fin da piccolo ho portato a queste tre bellissime arti, ma più alla piacevolissima ad ogni sesso, età e grado et a nessuno nociva arte vostra, la pittura. Della quale ancora era io allora del tutto ignorante e privo di giudizio, et ora, per il mezzo della spesso reiterata lettura de' vostri scritti, n'intendo tanto, che per poco che sia o quasi niente, è pur quanto basta a fare che io meno vita piacevole e lieta e lo stimo più che tutti gl'onori, agi e ricchezze di questo mondo. È questo poco, dico, tanto che io ritrarrei di colori a olio, come con qual si voglia disegnatoio, le cose naturali, e massimamente ignudi et abiti d'ogni sorte, non mi essendo bastato l'animo d'intromettermi più oltre, come dire a dipigner cose più incerte che ricercano la mano più esercitata e sicura, quali sono paesaggi, alberi, acque, nuvole, splendori, fuochi, etc.; nelle quali cose ancora, sì come anco nell'invenzioni fino a un certo che, forse e per un bisogno potrei mostrare d'aver fatto qualche poco d'avanzo per mezzo di detta lettura. Pur mi sono contento nel sopra detto termine di far solamente ritratti, e tanto maggiormente che le molte occupazioni, le quali l'uffizio mio porta necessariamente seco, non me lo permettono. E per mostrarmi grato e conoscente in alcun modo di questi benefizii d'avere, per vostro mezzo, apparato una bellissima lingua et a dipignere, vi arei mandato con questa un ritrattino del mio volto, che ho cavato dallo specchio, se io non avessi dubitato se questa mia vi troverà in Roma, o no, che forse potreste stare ora in Fiorenza, o vero in Arezzo vostra patria.

Questa lettera contiene, oltre ciò, molti altri particolari che non fanno a proposito. In altre poi mi ha pregato a nome di molti galant'uomini di que' paesi, i quali hanno inteso che queste vite si ristampano, che io ci faccia tre trattati della scultura, pittura et architettura, con disegni di figure, per dichiarare secondo l'occasioni et insegnare le cose dell'arti, come ha fatto Alberto Duro, il Serlio e Leonbatista Alberti, stato tradotto da Messer Cosimo Bartoli, gentiluomo et accademico fiorentino. La qual cosa arei fatto più che volentieri, ma la mia intenzione è stata di solamente voler scrivere le vite e l'opere degli artefici nostri e non d'insegnare l'arti, col modo di tirare le linee, della pittura, architettura e scultura, senza che essendomi l'opera cresciuta fra mano per molte cagioni, ella sarà per aventura, senza altri trattati, lunga da vantaggio. Ma io non poteva e non doveva fare altrimenti di quello che ho fatto, né defraudare niuno delle debite lodi et onori, né il mondo del piacere et utile, che spero abbia a trarre di queste fatiche.



DEGL'ACCADEMICI DEL DISEGNO PITTORI, SCULTORI ET ARCHITETTI E DELL'OPERE LORO E PRIMA DEL BRONZINO

Avendo io scritto in fin qui le vite et opere de' pittori, scultori et architetti più eccellenti che sono da Cimabue insino a oggi passati a miglior vita, e con l'occasioni che mi sono venute favellato di molti vivi, rimane ora che io dica alcune cose degl'artefici della nostra Accademia di Firenze, de' quali non mi è occorso in sin qui parlare a bastanza.
E cominciandomi dai principali e più vecchi, dirò prima d'Agnolo detto il Bronzino, pittore fiorentino veramente rarissimo e degno di tutte le lodi. Costui, essendo stato molti anni col Puntormo, come s'è detto, prese tanto quella maniera et in guisa immitò l'opere di colui, che elle sono state molte volte tolte l'une per l'altre, così furono per un pezzo somiglianti. E certo è maraviglia come il Bronzino così bene apprendesse la maniera del Puntormo, conciò sia che Iacopo fu eziandio co' suoi più cari discepoli anzi alquanto salvatico e strano che non, come quegli che a niuno lasciava mai vedere le sue opere, se non finite del tutto. Ma ciò nonostante fu tanta la pacienza et amorevolezza d'Agnolo verso il Puntormo, che colui fu forzato a sempre volergli bene et amarlo come figliuolo. Le prime opere di conto che facesse il Bronzino, essendo ancor giovane, furono alla Certosa di Firenze, sopra una porta che va dal chiostro grande in capitolo, in due archi, cioè l'uno di fuori e l'altro dentro: nel difuori è una Pietà con due Angeli a fresco, e di dentro un San Lorenzo ignudo sopra la grata, colorita a olio nel muro, le quali opere furono un gran saggio di quell'eccellenza che negl'anni maturi si è veduta poi nell'opere di questo pittore. Alla cappella di Lodovico Capponi in Santa Felicita di Firenze fece il Bronzino, come s'è detto in altro luogo, in due tondi a olio due Evangelisti, e nella volta colorì alcune figure. Nella Badia di Firenze de' monaci neri fece nel chiostro di sopra a fresco una storia della vita di San Benedetto, cioè quando si getta nudo sopra le spine, che è bonissima pittura. Nell'orto delle suore dette le Poverine dipinse a fresco un bellissimo tabernacolo, nel qual è Cristo che appare a Madalena in forma d'ortolano. In Santa Trinita pur di Firenze si vede di mano del medesimo in un quadro a olio, al primo pilastro a man ritta, un Cristo morto, la Nostra Donna, San Giovanni e Santa Maria Madalena, condotti con bella maniera e molta diligenzia. Nei quali detti tempi che fece queste opere, fece anco molti ritratti di diversi, e quadri che gli diedero gran nome. Passato poi l'assedio di Firenze e fatto l'accordo, andò come altrove s'è detto a Pesero, dove appresso Guidobaldo duca d'Urbino fece, oltre la detta cassa d'Arpicordo piena di figure, che fu cosa rara, il ritratto di quel signore e d'una figliuola di Matteo Sofferoni, che fu veramente bellissima e molto lodata pittura. Lavorò anche all'Imperiale, villa del detto Duca, alcune figure a olio ne' peducci d'una volta, e più n'averebbe fatto, se da Iacopo Puntormo suo maestro non fusse stato richiamato a Firenze perché gl'aiutasse a finire la sala del Poggio a Caiano. Et arrivato in Firenze, fece quasi per passatempo a Messer Giovanni de Statis, auditore del duca Alessandro, un quadretto di Nostra Donna, che fu opera lodatissima, e poco dopo a monsignor Giovio, amico suo, il ritratto d'Andrea Doria, et a Bartolomeo Bettini, per empiere alcune lunette d'una sua camera, il ritratto di Dante, Petrarca e Boccaccio, figure dal mezzo in su bellissime. I quali quadri finiti, ritrasse Bonacorso Pinadori, Ugolino Martelli, Messer Lorenzo Lenzi oggi vescovo di Fermo, e Pierantonio Bandini e la moglie con tanti altri, che lunga opera sarebbe voler di tutti fare menzione. Basta che tutti furono naturalissimi, fatti con incredibile diligenza e di maniera finiti, che più non si può disiderare.
A Bartolomeo Panciatichi fece due quadri grandi di Nostre Donne con altre figure, belli a maraviglia e condotti con infinita diligenza, et oltre ciò i ritratti di lui e della moglie, tanto naturali che paiono vivi veramente e che non manchi loro se non lo spirito. Al medesimo ha fatto in un quadro un Cristo crucifisso, che è condotto con molto studio e fatica, onde ben si conosce che lo ritrasse da un vero corpo morto confitto in croce, cotanto è in tutte le sue parti di somma perfezzione e bontà. Per Matteo Strozzi fece alla sua villa di San Casciano, in un tabernacolo a fresco, una Pietà con alcuni Angeli, che fu opera bellissima. A Filippo d'Averardo Salviati fece in un quadrotto una Natività di Cristo in figure piccole tanto bella, che non ha pari, come sa ognuno, essendo oggi la detta opera in stampa. Et a maestro Francesco Montevarchi, fisico eccellentissimo, fece un bellissimo quadro di Nostra Donna et alcuni altri quadretti piccoli molto graziosi. Al Puntormo suo maestro aiutò a fare, come si disse di sopra, l'opera di Careggi, dove condusse di sua mano ne' peducci delle volte cinque figure: la Fortuna, la Fama, la Pace, la Iustizia e la Prudenza, con alcuni putti fatti ottimamente.
Morto poi il duca Alessandro e creato Cosimo, aiutò Bronzino al medesimo Puntormo nell'opera della loggia di Castello. E nelle nozze dell'illustrissima donna Leonora di Tolledo, moglie già del duca Cosimo, fece due storie di chiaro scuro nel cortile di casa Medici, e nel basamento che reggeva il cavallo del Tribolo, come si disse, alcune storie finte di bronzo de' fatti del signor Giovanni de' Medici, che tutte furon le migliori pitture che fussero fatte in quell'apparato. Là dove il Duca, conosciuta la virtù di quest'uomo, gli fece metter mano a fare nel suo ducal palazzo una cappella non molto grande per la detta signora Duchessa, donna nel vero, fra quante furono mai, valorosa, e per infiniti meriti, degna d'eterna lode. Nella qual cappella fece il Bronzino nella volta un partimento, con putti bellissimi e quattro figure, ciascuna delle quali volta i piedi alle facce, San Francesco, San Ieronimo, San Michelagnolo e San Giovanni, condotte tutte con diligenzia et amore grandissimo. E nell'altre tre facce (due delle quali sono rotte dalla porta e dalla finestra) fece tre storie di Moisè, cioè una per faccia. Dove è la porta fece la storia delle bisce, o vero serpi, che piovono sopra il popolo, con molte belle considerazioni di figure morse, che parte muoiono, parte sono morte, et alcune guardando nel serpente di bronzo guariscono. Nell'altra, cioè nella faccia della finestra, è la pioggia della manna, e nell'altra faccia intera quando passa il Mare Rosso e la sommersione di Faraone, la quale storia è stata stampata in Anversa; et insomma questa opera, per cosa lavorata in fresco, non ha pari et è condotta con tutto quella diligenza e studio che si poté maggiore. Nella tavola di questa cappella, fatta a olio, che fu posta sopra l'altare, era Cristo deposto di croce in grembo alla madre; ma ne fu levata dal duca Cosimo per mandarla, come cosa rarissima, a donare a Gran Vela, maggiore uomo che già fusse appresso Carlo Quinto imperadore. In luogo della qual tavola ne ha fatto una simile il medesimo e postala sopra l'altare in mezzo a due quadri non manco belli che la tavola, dentro i quali sono l'angelo Gabriello e la Vergine da lui annunziata. Ma in cambio di questi, quando ne fu levata la prima tavola, erano un San Giovanni Batista et un San Cosimo, che furono messi in guardaroba quando la signora Duchessa, mutato pensiero, fece fare questi altri due. Il signor Duca, veduta in queste et altre opere l'eccellenza di questo pittore, e particolarmente che era suo proprio ritrarre dal naturale quanto con più diligenzia si può imaginare, fece ritrarre sé, che allora era giovane, armato tutto d'arme bianche e con una mano sopra l'elmo, in un altro quadro la signora Duchessa sua consorte, et in un altro quadro il signor don Francesco loro figliuolo e prencipe di Fiorenza. E non andò molto che ritrasse, sì come piacque a lei, un'altra volta la detta signora Duchessa, in vario modo dal primo, col signor don Giovanni suo figliuolo appresso. Ritrasse anche la Bia fanciulletta e figliuola naturale del Duca; e dopo, alcuni di nuovo et altri la seconda volta, tutti i figliuoli del Duca, la signora donna Maria, grandissima fanciulla, bellissima veramente, il prencipe don Francesco, il signor don Giovanni, don Garzia e don Arnaldo in più quadri, che tutti sono in guardaroba di sua eccellenzia insieme con ritratto di don Francesco di Tolledo, della signora Maria madre del Duca e d'Ercole Secondo duca di Ferrara con altri molti.
Fece anco in palazzo quasi ne' medesimi tempi, due anni alla fila per carnovale, due scene e prospettive per comedie, che furono tenute bellissime. Fece un quadro di singolare bellezza, che fu mandato in Francia al re Francesco, dentro al quale era una Venere ignuda con Cupido che la baciava, et il Piacere da un lato et il Giuoco con altri amori, e dall'altro la Fraude, la Gelosia et altre passioni d'amore.
Avendo fatto il signor Duca cominciare dal Puntormo i cartoni de' panni d'arazzo di seta e d'oro per la sala del Consiglio de' Dugento, e fattone fare due delle storie di Ioseffo ebreo dal detto et uno al Salviati, diede ordine che il Bronzino facessi il resto. Onde ne condusse quattordici pezzi di quella perfezzione e bontà che sa chiunque gli ha veduti. Ma perché questa era soverchia fatica al Bronzino, che vi perdeva troppo tempo, si servì nella maggior parte di questi cartoni, facendo esso i disegni, di Raffaello dal Colle, pittore dal Borgo a San Sepolcro, che si portò ottimamente.
Avendo poi fatto Giovanni Zanchini dirimpetto alla cappella de' Dini in Santa Croce di Firenze, cioè nella facciata dinanzi entrando in chiesa per la porta del mezzo a man manca, una cappella molto ricca di conci, con sue sepolture di marmo, allogò la tavola al Bronzino, acciò vi facesse dentro un Cristo disceso al Limbo per trarne i Santi Padri. Messovi dunque mano condusse Agnolo quell'opera con tutta quella possibile estrema diligenza che può mettere chi desidera acquistar gloria in simigliante fatica. Onde vi sono ignudi bellissimi, maschi, femine, putti, vecchi e giovani, con diverse fattezze et attitudini d'uomini che vi sono ritratti molto naturali, fra' quali è Iacopo Puntormo, Giovanbatista Gello, assai famoso accademico fiorentino, et il Bacchiacca dipintore, del quale si è favellato di sopra. E fra le donne vi ritrasse due nobili e veramente bellissime giovani fiorentine, degne per la incredibile bellezza et onestà loro d'eterna lode e di memoria: madonna Gostanza da Somaia, moglie di Giovanbatista Doni, che ancor vive, e madonna Camilla Tedaldi del Corno, oggi passata a miglior vita. Non molto dopo fece in un'altra tavola grande e bellissima la Ressurezzione di Gesù Cristo, che fu posta intorno al coro della chiesa de' Servi, cioè nella Nunziata, alla cappella di Iacopo e Filippo Guadagni. Et in questo medesimo tempo fece la tavola che in palazzo fu messa nella cappella, onde era stata levata quella che fu mandata a Gran Vela, che certo è pittura bellissima e degna di quel luogo. Fece poi Bronzino al signor Alamanno Salviati una Venere con un satiro appresso, tanto bella che par Venere veramente dea della bellezza.
Andato poi a Pisa, dove fu chiamato dal Duca, fece per sua eccellenzia alcuni ritratti, et a Luca Martini suo amicissimo, anzi non pure di lui solo, ma di tutti i virtuosi affezionatissimo veramente, un quadro di Nostra Donna molto bello, nel quale ritrasse detto Luca con una cesta di frutte, per essere stato colui ministro e proveditore per lo detto signor Duca nella diseccazione de' paduli et altre acque, che tenevano infermo il paese d'intorno a Pisa, e conseguentemente per averlo renduto fertile e copioso di frutti. E non partì di Pisa il Bronzino, che gli fu allogata per mezzo del Martini da Raffaello del Setaiuolo, Operaio del Duomo, la tavola d'una delle cappelle del detto Duomo; nella quale fece Cristo ignudo con la croce et intorno a lui molti Santi, fra i quali è un San Bartolomeo scorticato, che pare una vera notomia et un uomo scorticato da dovero, così è naturale et imitato da una notomia con diligenza; la quale tavola, che è bella in tutte le parti, fu posta da una capella, come ho detto, donde ne levarono un'altra di mano di Benedetto da Pescia, discepolo di Giulio Romano. Ritrasse poi Bronzino al duca Cosimo Morgante nano ignudo tutto intero, et in due modi, cioè da un lato del quadro il dinanzi e dall'altro il di dietro, con quella stravaganza di membra mostruose che ha quel nano, la qual pittura in quel genere è bella e maravigliosa. A ser Carlo Gherardi da Pistoia, che in fin da giovinetto fu amico del Bronzino, fece in più tempi, oltre al ritratto di esso ser Carlo, una bellissima Iudit, che mette la testa di Oloferne in una sporta; nel coperchio che chiude questo quadro a uso di spera, fece una Prudenza che si specchia. Al medesimo fece un quadro di Nostra Donna, che è delle belle cose che abbia mai fatto, perché ha disegno e rilievo straordinario. Il medesimo fece il ritratto del Duca, pervenuto che fu sua eccellenzia all'età di quaranta anni, e così la signora Duchessa, che l'uno e l'altro somigliano quanto è possibile. Avendo Giovambatista Cavalcanti fatto fare di bellissimi mischi, venuti d'oltra mare con grandissima spesa, una cappella in Santo Spirito di Firenze e quivi riposte l'ossa di Tommaso suo padre, fece fare la testa col busto di esso suo padre a fra' Giovan Agnolo Montorsoli, e la tavola dipinse Bronzino, facendovi Cristo che in forma d'ortolano appare a Maria Madalena e più lontane due altre Marie, tutte figure fatte con incredibile diligenza.
Avendo alla sua morte lasciata Iacopo Puntormo imperfetta la cappella di San Lorenzo, et avendo ordinato il signor Duca che Bronzino la finisse, egli vi finì dalla parte del Diluvio molti ignudi, che mancavano a basso, e diede perfezzione a quella parte e dall'altra, dove a' piè della Ressurrezione de' morti mancavano nello spazio d'un braccio incirca per altezza, nel largo di tutta la facciata, molte figure, le fece tutte bellissime e della maniera che si veggiono; et a basso fra le finestre in uno spazio che vi restava non dipinto, finì un San Lorenzo ignudo sopra una grata, con certi putti intorno. Nella quale tutt'opera fece conoscere che aveva con molto miglior giudizio condotte in quel luogo le cose sue, che non aveva fatto il Puntormo suo maestro le sue pitture di quell'opera. Il ritratto del qual Puntormo fece di sua mano il Bronzino in un canto della detta cappella a man ritta del San Lorenzo. Dopo diede ordine il Duca a Bronzino che facesse due tavole grandi, una per mandare a Porto Feraio nell'isola dell'Elba alla città di Cosmopoli, nel convento de' frati Zoccolanti, edificato da sua eccellenzia, dentrovi una Deposizione di Cristo di croce con buon numero di figure, et un'altra per la nuova chiesa de' Cavalieri di Santo Stefano, che poi si è edificata in Pisa insieme col palazzo e spedale loro con ordine e disegno di Giorgio Vasari, nella qual tavola dipinse Bronzino dentrovi la Natività di Nostro Signore Gesù Cristo. Le quali amendue tavole sono state finite con tanta arte, diligenzia, disegno, invenzione e somma vaghezza di colorito, che non si può far più. E certo non si doveva meno in una chiesa edificata da un tanto principe, che ha fondata e dotata la detta Religione de' Cavalieri.
In alcuni quadretti piccoli, fatti di piastra di stagno e tutti d'una grandezza medesima, ha dipinto il medesimo tutti gl'uomini grandi di casa Medici, cominciando da Giovanni di Bicci e Cosimo Vecchio insino alla Reina di Francia, per quella linea, e nell'altra da Lorenzo fratello di Cosimo Vecchio insino al duca Cosimo e suoi figliuoli, i quali tutti ritratti sono, per ordine, dietro la porta d'uno studiolo che il Vasari ha fatto fare nell'appartamento delle stanze nuove nel palazzo ducale, dove è gran numero di statue antiche di marmi e bronzi e moderne pitture piccole, minii rarissimi et una infinità di medaglie d'oro, d'argento e di bronzo, accomodate con bellissimo ordine. Questi ritratti dunque degl'uomini illustri di casa Medici sono tutti naturali, vivaci e somigliantissimi al vero, ma è gran cosa che dove sogliono molti negl'ultimi anni far manco bene che non hanno fatto per l'addietro, costui fa così bene e meglio ora, che quando era nel meglio della virilità, come ne dimostrano l'opere che fa giornalmente.
Fece anco non ha molto il Bronzino a don Silvano Razzi monaco di Camaldoli nel monasterio degl'Angeli di Firenze, che è molto suo amico, in un quadro alto quasi un braccio e mezzo una Santa Caterina tanto bella e ben fatta, ch'ella non è inferiore a niun'altra pittura di mano di questo nobile artefice. Intanto che non pare che le manchi se non lo spirito e quella voce che con[fuse] il tiranno e confessò Cristo suo sposo dilettissimo insino all'ultimo fiato. Onde niuna cosa ha quel padre, come gentile che è veramente, la quale egli più stimi et abbia in pregio, che quel quadro.
Fece Agnolo un ritratto di don Giovanni cardinale de' Medici, figliuolo del duca Cosimo, che fu mandato in corte dell'imperatore alla reina Giovanna; e dopo quello del signor don Francesco prencipe di Fiorenza, che fu pittura molto simile al vero e fatta con tanta diligenza, che par miniata.
Nelle nozze della reina Giovanna d'Austria, moglie del detto Principe, dipinse in tre tele grandi, che furono poste al ponte alla Carraia, come si dirà in fine, alcune storie delle nozze d'Imeneo, in modo belle che non parvero cose da feste, ma da essere poste in luogo onorato per sempre, così erano finite e condotte con diligenza. Et al detto signor Prencipe ha dipinto, sono pochi mesi, un quadretto di piccole figure, che non ha pari, e si può dire che sia di minio veramente. E perché in questa sua presente età d'anni sessantacinque non è meno inamorato delle cose dell'arte che fusse da giovane, ha tolto a fare finalmente, come ha voluto il Duca, nella chiesa di San Lorenzo, due storie a fresco nella facciata a canto all'organo, nelle quali non ha dubbio che riuscirà quell'eccellente Bronzino che è stato sempre.
Si è dilettato costui e dilettasi ancora assai della poesia, onde ha fatto molti capitoli e sonetti, una parte de' quali sono stampati. Ma sopra tutto (quanto alla poesia) è maraviglioso nello stile e capitoli bernieschi, intanto che non è oggi chi faccia in questo genere di versi meglio, né cose più bizarre e capricciose di lui, come un giorno si vedrà, se tutte le sue opere, come si crede e spera, si stamperanno.
È stato et è il Bronzino dolcissimo e molto cortese amico, di piacevole conversazione, et in tutti i suoi affari è molto onorato; è stato liberale et amorevole delle sue cose quanto più può essere un artefice e nobile come è egli. È stato di natura quieto e non ha mai fatto ingiuria a niuno, et ha sempre amato tutti i valent'uomini della sua professione, come sappiamo noi che abbiam tenuta insieme stretta amicizia anni quarantatré, cioè dal 1524 insino a questo anno, perciò che cominciai in detto tempo a conoscerlo et amarlo, allora che lavorava alla Certosa col Puntormo, l'opere del quale andava io giovinetto a disegnare in quel luogo.
Molti sono stati i creati e' discepoli del Bronzino. Ma il primo (per dire ora degl'accademici nostri) è Alessandro Allori, il quale è stato amato sempre dal suo maestro, non come discepolo, ma come proprio figliuolo, e sono vivuti e vivono insieme con quello stesso amore fra l'uno e l'altro che è fra buon padre e figliuolo. Ha mostrato Alessandro in molti quadri e ritratti, che ha fatto insino a questa sua età di trenta anni, esser degno discepolo di tanto maestro e che cerca con la diligenza e continuo studio di venire a quella più rara perfezzione, che dai begli et elevati ingegni si disidera.
Ha dipinta e condotta tutta di sua mano con molta diligenza la cappella de' Montaguti, nella chiesa della Nunziata, cioè la tavola a olio e le facce e la volta a fresco; nella tavola è Cristo in alto e la Madonna in atto di giudicare, con molte figure in diverse attitudini e ben fatte, ritratte dal Giudizio di Michelagnolo Buonarroti; d'intorno a detta tavola, due di sotto e due di sopra, sono nella medesima facciata quattro figure grandi in forma di Profeti o vero Evangelisti, e nella volta sono alcune Sibille e Profeti condotti con molta fatica e studio e diligenza, avendo cerco imitare negli ignudi Michelagnolo. Nella facciata che è a man manca guardando l'altare, è Cristo fanciullo che disputa nel tempio in mezzo a' Dottori. Il qual putto in buona attitudine mostra arguire a' quisiti loro; et i Dottori et altri, che stanno attentamente a udirlo, sono tutti variati di volti, d'attitudini e d'abiti, e fra essi sono ritratti di naturale molti degl'amici di esso Alessandro, che somigliano. Dirimpetto a questa, nell'altra faccia, è Cristo che caccia del tempio coloro che ne facevano, vendendo e comperando, un mercato et una piazza, con molte cose degne di considerazione e di lode. E sopra queste due sono alcune storie della Madonna, nella volta figure e non molto grandi, ma sì bene assai acconciamente graziose, con alcuni edifizii e paesi, che mostrano nel loro essere l'amore che porta all'arte e 'l cercare la perfezzione del disegno et invenzione. E dirimpetto alla tavola, su in alto, è una storia d'Ezechia quando vide una gran moltitudine d'ossa ripigliare la carne e rivestirsi le membra; nella quale ha mostro questo giovane quando egli desideri posseder la notomia del corpo umano, e d'averci atteso, e studiarla, e nel vero in questa prima opera d'importanza ha mostro, nelle nozze di sua altezza con figure di rilievo e storie dipinte, e dato gran saggio e speranza di sé e va continuando, d'avere a farsi eccellente pittore, avendo questa et alcune altre opere minori, come ultimamente in un quadretto pieno di figure piccole a uso di minio che ha fatto per don Francesco principe di Fiorenza, che è lodatissimo, et altri quadri e ritratti ha condotto con grande studio e diligenza per farsi pratico et acquistare gran maniera.
Ha anco mostro buona pratica e molta destrezza un altro giovane, pur creato del Bronzino nostro accademico, chiamato Giovanmaria Butteri, per quel che fece, oltre a molti quadri et altre opere minori, nell'essequie di Michelagnolo e nella venuta della detta serenissima reina Giovanna a Fiorenza.
È stato anco discepolo, prima del Puntormo e poi del Bronzino, Cristofano dell'Altissimo pittore, il quale, dopo aver fatto in sua giovanezza molti quadri a olio et alcuni ritratti, fu mandato dal signor duca Cosimo a Como a ritrarre dal museo di monsignor Giovio molti quadri di persone illustri fra una infinità che in quel luogo ne raccolse quell'uomo raro de' tempi nostri, oltre a molti che ha provisti di più, con la fatica di Giorgio Vasari, il duca Cosimo, che di tutti questi ritratti se ne farà uno indice nella tavola di questo libro per non occupare in questo ragionamento troppo luogo; nel che fare si adoperò Cristofano con molta diligenza e di maniera in questi ritratti, che quelli che ha ricavato insino a oggi, e che sono in tre fregiature d'una guardaroba di detto signor Duca, come si dirà altrove de' sua ornamenti, passano il numero di dugentoottanta, fra pontefici, imperatori, re et altri principi, capitani d'eserciti, uomini di lettere, et insomma per alcuna cagione illustri e famosi. E per vero dire abbiàn grande obligo a questa fatica e diligenza del Giovio e del Duca, perciò che non solamente le stanze de' principi, ma quelle di molti privati si vanno adornando de' ritratti o d'uno o d'altro di detti uomini illustri, secondo le patrie, famiglie et affezione di ciascuno. Cristofano adunque fermatosi in questa maniera di pitture, che è secondo il genio suo o vero inclinazione, ha fatto poco altro, come quegli che dee trarre di questa onore et utile a bastanza.
Sono ancora creati del Bronzino Stefano Pieri e Lorenzo dello Sciorina, che l'uno e l'altro hanno nelle esequie di Michelagnolo e nelle nozze di sua altezza adoperato sì, che sono stati conumerati fra i nostri accademici.
Della medesima scuola del Puntormo e Bronzino è anche uscito Batista Naldini, di cui si è in altro luogo favellato, il quale dopo la morte del Puntormo, essendo stato in Roma alcun tempo et atteso con molto studio all'arte, ha molto acquistato e si è fatto pratico e fiero dipintore, come molte cose ne mostrano che ha fatto al molto reverendo don Vincenzio Borghini, il quale se n'è molto servito et ha aiutatolo insieme con Francesco da Poppi, giovane di grande speranza e nostro accademico, che s'è portato bene nelle nozze di sua altezza, et altri suoi giovani, i quali don Vincenzio va continuamente esercitandogli et aiutandogli. Di Batista si è servito già più di due anni e serve ancora il Vasari nell'opere del palazzo ducale di Firenze, dove, per la concorrenza di molti altri che nel medesimo luogo lavoravano, ha molto acquistato, di maniera che oggi è pari a qual si voglia altro giovane della nostra Accademia. E quello che molto piace a chi di ciò ha giudizio, si è che egli è spedito e fa l'opere sue senza stento. Ha fatto Batista in una tavola a olio, che è in una cappella della Badia di Fiorenza de' monaci neri, un Cristo che porta la croce, nella quale opera sono molto buone figure, e tuttavia ha fra mano altre opere, che lo faranno conoscere per valent'uomo.
Ma non è a niuno de' sopra detti inferiore per ingegno, virtù e merito Maso Mazzuoli, detto Maso da San Friano, giovane di circa trenta o trentadue anni, il quale ebbe i suoi primi principii da Pierfrancesco di Iacopo di Sandro nostro accademico, di cui si è in altro luogo favellato. Costui, dico, oltre all'avere mostro quanto sa e quanto si può di lui sperare in molti quadri e pitture minori, l'ha finalmente mostrato in due tavole con molto suo onore e piena sodisfazione dell'universale, avendo in esse mostrato invenzione, disegno, maniera, grazia et unione nel colorito. Delle quali tavole in una, che è nella chiesa di Santo Apostolo di Firenze, è la Natività di Gesù Cristo. E nell'altra, posta nella chiesa di San Piero Maggiore, che è bella quanto più non l'arebbe potuta fare un ben pratico e vecchio maestro, è la Visitazione di Nostra Donna a Santa Lisabetta, fatta con molte belle considerazioni e giudizio; onde le teste, i panni, l'attitudini, i casamenti et ogni altra cosa è piena di vaghezza e di grazia. Costui nell'esequie del Buonarruoto, come accademico et amorevole, e poi nelle nozze della reina Giovanna in alcune storie si portò bene oltre modo.
Ora perché non solo nella vita di Ridolfo Ghirlandaio si è ragionato di Michele suo discepolo e di Carlo da Loro, ma anco in altri luoghi, qui non dirò altro di loro ancor che sieno de' nostri accademici, essendosene detto a bastanza.
Già non tacerò che sono similmente stati discepoli e creati del Ghirlandaio, Andrea del Minga, ancor esso de' nostri accademici, che ha fatto e fa molte opere, e Girolamo di Francesco crucifissaio, giovane di ventisei anni, e Mirabello di Salincorno pittori, i quali hanno fatto e fanno così fatte opere di pittura a olio, in fresco e ritratti che si può di loro sperare onoratissima riuscita. Questi due fecero insieme, già sono parecchi anni, alcune pitture a fresco nella chiesa de' Scapuccini fuor di Fiorenza, che sono ragionevoli. E nell'esequie di Michelagnolo e nozze sopra dette si fecero anch'essi molto onore. Ha Mirabello fatto molti ritratti e particolarmente quello dell'illustrissimo Prencipe più d'una volta, e molti altri che sono in mano di diversi gentiluomini fiorentini. Ha anco molto onorato la nostra Accademia e se stesso Federigo di Lamberto d'Asterdam fiammingo, genero del padoano Cartaro, nelle dette esequie e nell'apparato delle nozze del Prencipe; et oltre ciò ha mostro in molti quadri di pitture a olio grandi e piccoli et altre opere, che ha fatto buona maniera e buon disegno e giudizio. E se ha meritato lode in sin qui, più ne meriterà per l'avenire, adoperandosi egli con molto acquisto continuamente in Fiorenza, la quale par che si abbia eletta per patria, e dove è ai giovani di molto giovamento la concorrenza e l'emulazione.
Si è anco fatto conoscere di bello ingegno et universalmente copioso di buoni capricci Bernardo Timante Buonacorsi, il quale ebbe nella sua fanciullezza i primi principii della pittura dal Vasari, poi continuando ha tanto acquistato, che ha già servito molti anni e serve con molto favore l'illustrissimo signor don Francesco Medici principe di Firenze. Il quale l'ha fatto e fa continuamente lavorare, onde ha condotto per sua eccellenza molte opere miniate, secondo il modo di don Giulio Clovio, come sono molti ritratti e storie di figure piccole, condotte con molta diligenza.
Il medesimo ha fatto con bell'architettura ordinatagli dal detto Prencipe uno studiolo con partimenti d'ebano e colonne di elitropie e diaspri orientali e di lapislazzari, che hanno base e capitelli d'argento intagliati, et oltre ciò ha l'ordine di quel lavoro, per tutto ripieno di gioie e vaghissimi ornamenti d'argento, con belle figurette. Dentro ai quali ornamenti vanno miniature, e fra' termini accoppiati figure tonde d'argento e d'oro, tramezzate da altri partimenti di agate, diaspri, elitropie, sardoni, corniuole et altre pietre finissime, che il tutto qui raccontare sarebbe lunghissima storia. Basta che in questa opera, la quale è presso al fine, ha mostrato Bernardo bellissimo ingegno et atto a tutte le cose; servendosene quel signore a molte sue ingegnose fantasie di tirari per pesi d'argani e di linee, oltra che ha con facilità trovato il modo di fondere il cristallo di montagna e purificarlo e fattone istorie e vasi di più colori, che a tutto Bernardo s'intermette, come ancora si vedrà nel condurre in poco tempo vasi di porcellana, che hanno tutta la perfezzione che più antichi e perfetti; che di questo n'è oggi maestro eccellentissimo Giulio da Urbino, quale si trova appresso allo illustrissimo duca Alfonso Secondo di Ferrara, che fa cose stupende di vasi di terre di più sorte, et a quegli di porcellana dà garbi bellissimi, oltre al condurre della medesima terra duri e con pulimento straordinario quadrini et ottangoli e tondi per far pavimenti contrafatti che paiono pietre mischie, che di queste cose ha il modo il Principe nostro da farne.
Ha dato sua eccellenzia principio ancora a fare un tavolino di gioie con ricco ornamento per accompagnarne un altro del duca Cosimo suo padre, finito non è molto col disegno del Vasari, che è cosa rara, commesso tutto nello alabastro orientale e ne' pezzi grandi di diaspri e chiropie, corgnole, lapislazzari et agate con altre pietre e gioie di pregio che vagliono ventimila scudi; questo tavolino è stato condotto da Bernardino di Porfirio da Leccio, del contado di Fiorenza, il quale è eccellente in questo, che condusse a Messer Bindo Altoviti parimente di diaspri un ottangolo commessi nell'ebano et avorio col disegno del medesimo Vasari, il quale Bernardino è oggi al servigio di loro eccellenzie.
E per tornare a Bernardo dico che nella pittura il medesimo mostrò altresì, fuori dell'aspettazione di molti, che sa non meno fare le figure grandi che le piccole, quando fece quella gran tela, di cui si è ragionato, nell'essequie di Michelagnolo. Fu anco adoperato Bernardo con suo molto onore nelle nozze del suo e nostro Prencipe, in alcune mascherate, nel Trionfo de' Sogni, come si dirà, negl'intermedii della commedia, che fu recitata in palazzo, come da altri è stato raccontato distesamente. E se avesse costui quando era giovinetto (se bene non passa anco trenta anni) atteso agli studii dell'arte, sì come attese al modo di fortificare, in che spese assai tempo, egli sarebbe oggi per aventura a tal grado d'eccellenza che altri ne stupirebbe, tuttavia si crede abbia a conseguire per ogni modo il medesimo fine, se bene alquanto più tardi, perciò che è tutto ingegno e virtù. A che si aggiugne l'essere sempre esercitato et adoperato dal suo signore et in cose onoratissime.
È anco nostro accademico Giovanni della Strada fiammingo, il quale ha buon disegno, bonissimi capricci, molta invenzione e buon modo di colorire. Et avendo molto acquistato in dieci anni che ha lavorato in palazzo a tempera, a fresco et a olio, con ordine e disegni di Giorgio Vasari, può stare a paragone di quanti pittori ha al suo servizio il detto signor Duca. Ma oggi la principal cura di costui si è fare cartoni per diversi panni d'arazzo, che fa fare pur con l'ordine del Vasari il Duca et il Principe di diverse sorte, secondo le storie che hanno in alto di pittura le camere e stanze dipinte dal Vasari in palazzo, per ornamento delle quali si fanno, acciò corrisponda il parato da basso d'arazzi con le pitture di sopra. Per le stanze di Saturno, d'Opi, di Cerere, di Giove e d'Ercole ha fatto vaghissimi cartoni per circa trenta pezzi d'arazzi. E per le stanze di sopra, dove abita la Principessa, che sono quattro dedicate alla virtù delle donne, con istorie di Romane, Ebree, Greche e Toscane, cioè le Sabine, Ester, Penelope e Gualdrada, ha fatto similmente cartoni per panni bellissimi, e similmente per dieci panni d'un salotto, nei quali è la vita dell'uomo. Et il simile ha fatto per le cinque stanze di sotto, dove abita il Principe, dedicate a Davit, Salamone, Ciro et altri. E per venti stanze del palazzo del Poggio a Caiano, che se ne fanno i panni giornalmente, ha fatto con l'invenzione del Duca ne' cartoni le cacce che si fanno di tutti gl'animali et i modi d'uccellare e pescare, con le più strane e belle invenzioni del mondo. Nelle quali varietà d'animali, d'ucelli, di pesci, di paesi e di vestiri, con cacciatori a piedi et a cavallo, et uccellatori in diversi abiti e pescatori ignudi, ha mostrato e mostra di essere veramente valent'uomo e d'aver bene appreso la maniera italiana con pensiero di vivere e morire a Fiorenza in servigio de' suoi illustrissimi signori, in compagnia del Vasari e degl'altri accademici.
È nella medesima maniera creato del Vasari et accademico Iacopo di maestro Piero Zucca fiorentino, giovane di venticinque o ventisei anni, il quale, avendo aiutato al Vasari fare la maggior parte delle cose di palazzo et in particolare il palco della sala maggiore, ha tanto acquistato nel disegno e nella pratica de' colori, con molta sua fatica, studio et assiduità, che si può oggi annoverare fra i primi giovani pittori della nostra Accademia. E l'opere che ha fatto da sé solo nell'essequie di Michelagnolo, nelle nozze dell'illustrissimo signor Principe et altre a diversi amici suoi, nelle quali ha mostro intelligenza, fierezza, diligenza, grazia e buon giudizio, l'hanno fatto conoscere per giovane virtuoso e valente dipintore, ma più lo faranno quelle che da lui si possono sperare nell'avenire, con tanto onore della sua patria quanto gli abbia fatto in alcun tempo altro pittore.
Parimente fra gl'altri giovani pittori dell'Accademia si può dire ingegnoso e valente Santi Tidi, il quale, come in altri luoghi s'è detto, dopo essersi molti anni esercitato in Roma, è tornato finalmente a godersi Fiorenza, la quale ha per sua patria, se bene i suoi maggiori sono dal Borgo San Sepolcro et in quella città d'assai orrevole famiglia. Costui nell'essequie del Buonarruoto, e nelle dette nozze della serenissima Principessa, si portò certo nelle cose che dipinse bene affatto, ma maggiormente e con molta et incredibile fatica nelle storie che dipinse nel teatro, che fece per le medesime nozze all'illustrissimo signor Paol Giordano Orsino, duca di Bracciano, in sulla piazza di San Lorenzo, nel quale dipinse di chiaro scuro in più pezzi di tele grandissime istorie de' fatti d'i più uomini illustri di casa Orsina. Ma quello che vaglia si può meglio vedere in due tavole che sono fuori di sua mano, una delle quali è in Ogni Santi o vero San Salvadore di Firenze (che così è chiamato oggi) già chiesa de' padri Umiliati et oggi de' Zoccolanti, nella quale è la Madonna in alto et a basso San Giovanni, San Girolamo et altri Santi. E nell'altra, che è in San Giuseppo dietro a Santa Croce, alla cappella de' Guardi, è una Natività del Signore fatta con molta diligenzia e con molti ritratti di naturale, senza molti quadri di Madonne et altri ritratti, che ha fatto in Roma et in Fiorenza e pitture lavorate in Vaticano, come s'è detto di sopra. Sono anco della medesima Accademia alcun'altri giovani pittori, che si sono adoperati negl'apparati sopra detti, parte fiorentini e parte dello stato.
Alessandro del Barbiere fiorentino, giovane di venticinque anni, oltre a molte altre cose, dipinse in palazzo per le dette nozze, con disegni et ordine del Vasari, le tele delle facciate della sala grande, dove sono ritratte le piazze di tutte le città del dominio del signor Duca, nelle quali si portò certo molto bene e mostrossi giovane giudizioso e da sperare ogni riuscita.
Hanno similmente aiutato al Vasari in queste et altre opere molti altri suoi creati et amici: Domenico Benci, Alessandro Fortori d'Arezzo, Stefano Veltroni suo cugino et Orazio Porta, amendue dal Monte San Savino, Tomaso del Verrocchio.
Nella medesima Accademia sono anco molti eccellenti artefici forestieri de' quali si è parlato a lungo di sopra in più luoghi; e però basterà che qui si sappino i nomi, acciò siano fra gl'altri accademici in questa parte annoverati. Sono dunque Federigo Zucchero, Prospero Fontana e Lorenzo Sabatini bolognesi, Marco da Faenza, Tiziano Vecello, Paulo Veronese, Giuseppo Salviati, il Tintoretto, Alessandro Vittoria, il Danese scultori, Batista Farinato veronese pittore, et Andrea Palladio architetto.
Ora per dire similmente alcuna cosa degli scultori accademici e dell'opere loro, nelle quali non intendo molto volere allargarmi, per esser essi vivi e per lo più di chiarissima fama e nomea, dico che Benvenuto Cellini cittadino fiorentino (per cominciarmi dai più vecchi e più onorati), oggi scultore, quando attese all'orefice in sua giovanezza, non ebbe pari, né aveva forse in molti anni in quella professione et in fare bellissime figure di tondo e basso rilievo e tutte altre opere di quel mestiero: legò gioie et adornò di castoni maravigliosi, con figurine tanto ben fatte et alcuna volta tanto bizzarre e capricciose, che non si può, né più, né meglio imaginare. Le medaglie ancora, che in sua gioventù fece d'oro e d'argento, furono condotte con incredibile diligenza, né si possono tanto lodare che basti. Fece in Roma a papa Clemente Settimo un bottone da piviale bellissimo accomodandovi ottimamente una punta di diamante intornata da alcuni putti fatti di piastra d'oro et un Dio Padre mirabilmente lavorato, onde oltre al pagamento ebbe in dono da quel Papa l'ufizio d'una mazza.
Essendogli poi dal medesimo Pontefice dato a fare un calice d'oro, la coppa del quale dovea esser retta da figure rappresentanti le Virtù teologiche, lo condusse assai vicino al fine con artifizio maravigliosissimo. Ne' medesimi tempi non fu chi facesse meglio, fra molti che si provarono, le medaglie di quel Papa di lui, come ben sanno coloro che le videro e n'hanno. E perché ebbe per queste cagioni cura di fare i conii della Zecca di Roma, non sono mai state vedute più belle monete di quelle che allora furono stampate in Roma. E perciò dopo la morte di Clemente, tornato Benvenuto a Firenze, fece similmente i conii con la testa del duca Alessandro per le monete per la Zecca di Firenze, così belli e con tanta diligenza, che alcune di esse si serbano oggi come bellissime medaglie antiche e meritamente, perciò che in queste vinse se stesso. Datosi finalmente Benvenuto alla scultura et al fare di getto, fece in Francia molte cose di bronzo, d'argento e d'oro mentre stette al servizio del re Francesco in quel regno. Tornato poi alla patria e messosi al servizio del duca Cosimo, fu prima adoperato in alcune cose da orefice, et in ultimo datogli a fare alcune cose di scultura, onde condusse di metallo la statua del Perseo, che ha tagliata la testa a Medusa, la quale è in piazza del Duca vicina alla porta del palazzo del Duca, sopra una basa di marmo con alcune figure di bronzo bellissime alte circa un braccio et un terzo l'una, la quale tutta opera fu condotta veramente con quanto studio e diligenza si può maggiore a perfezzione e posta in detto luogo degnamente a paragone della Iudit di mano di Donato, così famoso e celebrato scultore. E certo fu maraviglia, che essendosi Benvenuto esercitato tanti anni in far figure piccole, ci condusse poi con tanta eccellenza una statua così grande.
Il medesimo ha fatto un Crucifisso di marmo tutto tondo e grande quanto il vivo, che per simile è la più rara e bella scultura che si possa vedere. Onde lo tiene il signor Duca, come cosa a sé carissima, nel palazzo de' Pitti, per collocarlo alla cappella o vero chiesetta che fa in detto luogo, la qual chiesetta non poteva a questi tempi avere altra cosa più di sé e di sì gran prencipe; et insomma non si può quest'opera tanto lodare, che basti.
Ora, se bene potrei molto più allargarmi nell'opere di Benvenuto, il quale è stato in tutte le sue cose animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo, e persona che ha saputo purtroppo dire il fatto suo con i prìncipi, non meno che le mani e l'ingegno adoperare nelle cose dell'arti, non ne dirò qui altro, atteso che egli stesso ha scritto la vita e l'opere sue, et un trattato dell'oreficeria e del fondere e gettar di metallo con altre cose attenenti a tali arti e della scultura con molto più eloquenza et ordine che io qui per aventura non saprei fare. E però quanto a lui, basti questo breve sommario delle sue più rare opere principali.
Francesco di Giuliano da San Gallo scultore, architetto et accademico, di età oggi di settanta anni, ha condotto, come si è detto nella vita di suo padre et altrove, molte opere di scultura: le tre figure di marmo alquanto maggior del vivo, che sono sopra l'altare della chiesa d'Or San Michele, Santa Anna, la Vergine e Cristo fanciullo, che sono molto lodate figure. Alcun'altre statue, pur di marmo, alla sepoltura di Piero de' Medici a Monte Casino; la sepoltura, che è nella Nunziata, del vescovo de' Marzi, e quella di monsignor Giovio, scrittore delle storie de' suoi tempi. Similmente d'architettura ha fatto il medesimo, et in Fiorenza et altrove, molte belle e buon'opere et ha meritato, per le sue buone qualità, di esser sempre stato come loro creatura favorito della casa de' Medici, per la servitù di Giuliano suo padre, onde il duca Cosimo, dopo la morte di Baccio d'Agnolo, gli diede il luogo che colui aveva d'architettore del duomo di Firenze.
Dell'Amannato, che è anch'egli fra i primi de' nostri accademici, essendosi detto a bastanza nella descrizione dell'opere di Iacopo Sansovino, non fa bisogno parlarne qui altrimenti.
Dirò bene che sono suoi creati et accademici Andrea Calamech da Carrara, scultore molto pratico, che ha sotto esso Amannato condotto molte figure et il quale dopo la morte di Martino sopra detto è stato chiamato a Messina nel luogo che là tenne già fra' Giovan Agnolo, nel qual luogo s'è morto. E Batista di Benedetto, giovane che ha dato saggio di dovere, come farà, riuscire eccellente, avendo già mostro in molte opere che non è meno del detto Andrea, né di qual si vogl'altro de' giovani scultori accademici, di bell'ingegno e giudizio.
Vincenzio de' Rossi da Fiesole scultore, anch'egli architetto et accademico fiorentino, è degno che in questo luogo si faccia di lui alcuna memoria, oltre quello che se n'è detto nella vita di Baccio Bandinelli, di cui fu discepolo. Poi dunque che si fu partito da lui, diede gran saggio di sé in Roma, ancor che fusse assai giovane, nella statua che fece nella Ritonda d'un S. Giuseppo con Cristo fanciullo di dieci anni, ambidue figure fatte con buona pratica e bella maniera. Fece poi nella chiesa di Santa Maria della Pace due sepolture, con i simulacri di coloro che vi son dentro sopra le casse e di fuori nella facciata alcuni Profeti di marmo di mezzo rilievo e grandi quanto il vivo, che gl'acquistarono nome di eccellente scultore, onde gli fu poi allogata dal popolo romano la statua che fece di papa Paulo Quarto, che fu posta in Campidoglio, la quale condusse ottimamente. Ma ebbe quell'opera poco vita, perciò che, morto quel Papa, fu rovinata e gettata per terra dalla plebaccia, che oggi quegli stessi perseguita fieramente che ieri aveva posti in cielo. Fece Vincenzio dopo la detta figura, in uno stesso marmo, due statue poco maggiori del vivo, cioè un Teseo re d'Atene, che ha rapito Elena e se la tiene in braccio in atto di conoscerla, con una troia sotto i piedi. Delle quali figure non è possibile farne altre con più diligenza, studio, fatica e grazia. Per che andando il duca Cosimo de' Medici a Roma, et andando a vedere non meno le cose moderne degne d'essere vedute, che l'antiche, vide, mostrandogliene Vincenzio, le dette statue, e le lodò sommamente, come meritavano; onde Vincenzio, che è gentile, le donò cortesemente, et insieme gl'offerse in quello potesse l'opera sua. Ma sua eccellenza avendole condotte indi a non molto a Firenze nel suo palazzo de' Pitti, gliel'ha pagate buon pregio. Et avendo seco menato esso Vincenzio, gli diede non molto dopo a fare di marmo, in figure maggiori del vivo e tutte tonde, le fatiche d'Ercole, nelle quali va spendendo il tempo, e già n'ha condotte a fine quando egli uccide Cacco e quando combatte con il Centauro. La quale tutta opera, come è di suggetto altissima e faticosa, così si spera debba essere per artificio et eccellente opera, essendo Vincenzio di bellissimo ingegno, di molto giudizio, et in tutte le sue cose d'importanza molto considerato.
Né tacerò che sotto la costui disciplina attende con sua molta lode alla scultura Illarione Ruspoli, giovane e cittadin fiorentino, il quale non meno degli altri suoi pari accademici ha mostro di sapere et avere disegno e buona pratica in fare statue, quando insieme con gl'altri n'ha avuto occasione nell'essequie di Michelagnolo e nell'apparato delle nozze sopra dette.
Francesco Camilliani, scultore fiorentino et accademico, il quale fu discepolo di Baccio Bandinelli, dopo aver dato in molte cose saggio di essere buono scultore, ha consumato quindici anni negl'ornamenti delle fonti, dove n'è una stupendissima, che ha fatto fare il signor don Luigi di Tolledo al suo giardino di Fiorenza. I quali ornamenti intorno a ciò sono diverse statue d'uomini e d'animali in diverse maniere, ma tutti ricchi e veramente reali e fatti senza risparmio di spesa. Ma in fra l'altre statue che ha fatto Francesco in quel luogo, due maggiori del vivo, che rappresentano Arno e Mugnone fiumi, sono di somma bellezza, e particolarmente il Mugnone, che può stare al paragone di qual si voglia statua di maestro eccellente. Insomma tutta l'architettura et ornamenti di quel giardino sono opera di Francesco il quale l'ha fatto per ricchezza di diverse varie fontane sì fatto, che non ha pari in Fiorenza, né forse in Italia. E la fonte principale, che si va tuttavia conducendo a fine, sarà la più ricca e sontuosa che si possa in alcun luogo vedere, per tutti quelli ornamenti che più ricchi e maggiori possono immaginarsi e per gran copia d'acque, che vi saranno abbondantissime d'ogni tempo.
È anco accademico, e molto in grazia de' nostri prìncipi per le sue virtù, Giovan Bologna da Douay, scultore fiamingo, giovane veramente rarissimo. Il quale ha condotto con bellissimi ornamenti di metallo la fonte che nuovamente si è fatta in sulla piazza di San Petronio di Bologna, dinanzi al palazzo de' Signori, nella quale sono, oltre gl'altri ornamenti, quattro Serene in su' canti bellissime, con varii putti attorno a maschere bizzarre e straordinarie; ma quello che più importa, ha condotto sopra e nel mezzo di detta fonte un Nettunno di braccia sei, che è un bellissimo getto, e figura studiata e condotta perfettamente.
Il medesimo, per non dire ora quante opere ha fatto di terra cruda e cotta, di cera e d'altre misture, ha fatto di marmo una bellissima Venere, e quasi condotto a fine al signor Prencipe un Sansone, grande quanto il vivo, il quale combatte a piedi con due Filistei, e di bronzo ha fatto la statua d'un Bacco maggior del vivo e tutta tonda, et un Mercurio in atto di volare, molto ingegnoso, reggendosi tutto sopra una gamba et in punta di piè, che è stata mandata all'imperatore Massimiliano come cosa che certo è rarissima. Ma se in fin qui ha fatto molte opere e belle, ne farà molto più per l'avenire e bellissime, avendolo ultimamente fatto il signor Prencipe accomodare di stanze in palazzo e datoli a fare una statua di braccia cinque d'una Vittoria con un prigione, che va nella sala grande dirimpetto a un'altra di mano di Michelagnolo. Farà per quel Principe opere grandi e d'importanza, nelle quali averà largo campo di mostrare la sua molta virtù. Hanno di mano di costui molte opere e bellissimi modelli di cose diverse Messer Bernardo Vecchietti gentiluomo fiorentino, e maestro Bernardo di monna Mattea muratore ducale, che ha condotto tutte le fabriche disegnate dal Vasari con gran eccellenza.
Ma non meno di costui i suoi amici e d'altri scultori accademici è giovane veramente raro e di bello ingegno Vincenzio Danti perugino, il quale si ha eletto, sotto la protezzione del duca Cosimo, Fiorenza per patria. Attese costui essendo giovinetto all'orefice, e fece in quella professione cose da non credere. E poi datosi a fare di getto, gli bastò l'animo, di venti anni, gettare di bronzo la statua di papa Giulio Terzo alta quattro braccia, che sedendo dà la benedizione, la quale statua, che è ragionevolissima, è oggi in sulla piazza di Perugia. Venuto poi a Fiorenza al servizio del signor duca Cosimo, fece un modello di cera bellissimo maggior del vivo d'un Ercole che fa scoppiare Anteo, per farne una figura di bronzo, da dovere essere posta sopra la fonte principale del giardino di Castello, villa del detto signor Duca; ma fatta la forma addosso al detto modello, nel volere gettarla di bronzo non venne fatta, ancora che due volte si rimetessi, o per mala fortuna, o perché il metallo fusse abruciato, o altra cagione.
Voltosi dunque, per non sottoporre le fatiche al volere della fortuna, a lavorare di marmo, condusse in poco tempo di un pezzo solo di marmo due figure, cioè l'Onore, che ha sotto l'Inganno, con tanta diligenza, che parve non avesse mai fatto altro che maneggiare i scarpelli et il mazzuolo. Onde alla testa di quell'Onore, che è bella, fece i capegli ricci tanto ben traforati, che paiono naturali e proprii mostrando, oltre ciò, di benissimo intendere gl'ignudi, la quale statua è oggi nel cortile della casa del signore Sforza Almieri, nella via de' Servi. A Fiesole, per lo medesimo signore Sforza, fece molti ornamenti in un suo giardino et intorno a certe fontane. Dopo condusse al signor Duca alcuni bassi rilievi di marmo e di bronzo, che furono tenuti bellissimi, per essere egli in questa maniera di sculture per aventura non inferiore a qualunche altro. Appresso gettò, pur di bronzo, la grata della nuova cappella fatta in palazzo nelle stanze nuove, dipinte da Giorgio Vasari, e con essa un quadro di molte figure di basso rilievo, che serra un armario dove stanno scritture d'importanza del Duca. Et un altro quadro alto un braccio e mezzo e largo due e mezzo, dentrovi Moisè che per guarire il popolo ebreo dal morso delle serpi, ne pone una sopra il legno. Le quali tutte cose sono appresso detto signore, di ordine del quale fece la porta della sagrestia della pieve di Prato, e sopra essa una cassa di marmo con una Nostra Donna alta tre braccia e mezzo, col Figliuolo ignudo appresso e due puttini, che mettono in mezzo la testa di basso rilievo di Messer Carlo de' Medici, figliuolo naturale di Cosimo Vecchio e già proposto di Prato, le cui ossa, dopo esser state lungo tempo in un deposito di mattoni, ha fatto porre il duca Cosimo in detta cassa et onoratolo di quel sepolcro. Ben è vero che la detta Madonna et il basso rilievo di detta testa, che è bellissima, avendo cattivo lume non mostrano a gran pezzo quel che sono.
Il medesimo Vincenzio ha poi fatto per ornarne la fabrica de' magistrati alla Zecca, nella testata sopra la loggia che è sul fiume d'Arno, un'arme del Duca messa in mezzo da due figure nude, maggiori del vivo, l'una fatta per l'Equità e l'altra per lo Rigore. E d'ora in ora aspetta il marmo per fare la statua di esso signore Duca, maggiore assai del vivo, di cui ha fatto un modello, la quale va posta a sedere sopra detta arme, per compimento di quell'opera, la quale si doverrà murare di corto insieme col resto della facciata, che tuttavia ordina il Vasari che è architetto di quella fabrica. Ha anco fra mano e condotta a bonissimo termine una Madonna di marmo maggiore del vivo, ritta e col figliuolo Gesù di tre mesi in braccio, che sarà cosa bellissima. Le quali opere lavora insieme con altre nel monasterio degl'Angeli di Firenze, dove si sta quietamente in compagnia di que' monaci suoi amicissimi, nelle stanze che già quivi tenne Messer Benedetto Varchi, di cui fa esso Vincenzio un ritratto di basso rilievo, che sarà bellissimo. Ha Vincenzio un suo fratello nell'Ordine de' frati Predicatori, chiamato frate Ignazio Danti quale nelle cose di cosmografia eccellentissimo e di raro ingegno e tanto che il duca Cosimo de' Medici gli fa condurre un'opera che di quella professione non è stato mai per tempo nessuno fatta, né la maggiore, né la più perfetta; e questo è che sua eccellenzia con l'ordine del Vasari, sul secondo piano delle stanze del suo palazzo ducale, ha di nuovo murato a posta et aggiunto alla guardaroba una sala assai grande, et intorno a quella ha accomodata di armari alti braccia sette con ricchi intagli di legnami di noce, per riporvi dentro le più importanti cose e di pregio e di bellezza che abbi sua eccellenzia; questi ha nelle porte di detti armari spartito dentro agl'ornamenti di quegli cinquantasette quadri d'altezza di braccia due incirca e larghi a proporzione, dentro a' quali sono con grandissima diligenzia fatte in sul legname a uso di minii dipinte a olio le tavole di Tolomeo misurate perfettamente tutte, e ricorrette secondo gli autori nuovi e con le carte giuste delle navigazioni, con somma diligenzia fatte le scale loro da misurare, et i gradi dove sono in quelle, e' nomi antichi e moderni. E la sua divisione di questi quadri sta in questo modo: all'entrata principale di detta sala sono negli sguanci e grossezza degli armarini, in quattro quadri, quattro mezze palle in prospettiva: nelle due da basso son l'universale della terra e nelle due di sopra l'universale del cielo, con le sue imagini e figure celesti; poi come s'entra dentro a man ritta è tutta l'Europa in 14 tavole e quadri, una dreto all'altra fino al mezzo della facciata che è a sommo dirimpetto alla porta principale, nel qual mezzo s'è posto l'oriolo con le ruote e con le spere de' pianeti che giornalmente fanno entrando i lor moti: quest'è quel tanto famoso e nominato oriolo fatto da Lorenzo della Volpaia fiorentino. Di sopra a queste tavole è l'Affrica in 11 tavole, fino a detto oriolo; séguita poi di là dal detto oriolo l'Asia nell'ordine da basso, e camina parimente in 14 tavole dell'Asia, in altre 14 tavole, seguitano le Indie Occidentali cominciando come le altre dall'oriolo e seguitando fino alla detta porta principale, in tutto tavole 57; è poi ordinato nel basamento da basso in altretanti quadri attorno a torno, che vi saranno a dirittura a piombo di dette tavole tutte l'erbe e tutti gli animali ritratti di naturale secondo la qualità che producano que' paesi. Sopra la cornice di detti armari, ch'è la fine, vi va sopra alcuni risalti che dividono detti quadri che vi si porranno alcune teste antiche di marmo di quegli imperatori e prìncipi che l'hanno possedute, che sono in essere, e nelle facce piane fino alla cornice del palco, quale tutto di legname intagliato, et in 12 gran quadri dipinto per ciascuno quattro immagini celesti, che farà 48, e grandi poco men del vivo con le loro stelle; sono sotto (come ho detto) in dette facce 300 ritratti naturali di persone segnalate da 500 anni in qua o più dipinte in quadri a olio (come se ne farà nota nella tavola de' ritratti, per non far ora sì lunga storia con i nomi loro) tutti d'una grandezza e con un medesimo ornamento intagliato di legno di noce, cosa rarissima. Nelli due quadri di mezzo del palco larghi braccia quattro l'uno, dove sono le immagini celesti, e' quali con facilità si aprono senza veder dove si nascondano, in un luogo a uso di cielo saranno riposte due gran palle alte ciascuna braccia tre e mezzo, nell'una delle quali anderà tutta la terra distintamente, e questa si calerà con un arganetto che non vedrà fino a basso e poserà in un piede bilicato che ferma si vedrà ribattere tutte le tavole che sono a torno ne' quadri degli armari et aranno un contrasegno nella palla da poterle ritrovar facilmente. Nell'altra palla saranno le 48 immagini celesti accomodate in modo che con essa saranno tutte le operazioni dello astrolabio perfettissimamente.
Questo capriccio et invenzione è nata dal duca Cosimo per mettere insieme una volta queste cose del cielo e della terra giustissime e senza errori e da poterle misurare e vedere, et a parte e tutte insieme come piacerà a chi si diletta e studia questa bellissima professione, del che m'è parso debito mio come cosa degna di esser nominata farne in questo luogo per la virtù di frate Ignazio memoria, e per la grandezza di questo Principe che ci fa degni di godere sì onorate fatiche e si sappia per tutto il mondo.
E tornando agl'uomini della nostra Accademia, dico, ancora che nella vita del Tribolo si sia parlato d'Antonio di Gino Lorenzi da Settignano scultore, dico qui con più ordine, come in suo luogo, che egli condusse sotto esso Tribolo suo maestro la detta statua d'Esculapio che è a Castello e quattro putti che sono nella fonte maggiore di detto luogo, e poi ha fatto alcune teste et ornamenti che sono d'intorno al nuovo vivaio di Castello, che è lassù alto in mezzo a diverse sorti d'arbori di perpetua verzura. Et ultimamente ha fatto, nel bellissimo giardino delle stalle vicino a San Marco, bellissimi ornamenti a una fontana isolata, con molti animali acquatici fatti di marmo e di mischi bellissimi. Et in Pisa condusse già con ordine del Tribolo sopra detto la sepoltura del Corte filosofo e medico eccellentissimo con la sua statua e due putti di marmo bellissimi. Et oltre a queste va tuttavia nuove opere facendo per il Duca di animali di mischi et uccelli per fonti, lavori dificilissimi, che lo fanno degnissimo di essere nel numero di questi altri accademici.
Parimente un fratello di costui, detto Stoldo di Gino Lorenzi, giovane di trenta anni, si è portato di maniera infino a ora in molte opere di sculture, che si può con verità oggi annoverare fra i primi giovani della sua professione e porre fra loro ne' luoghi più onorati. Ha fatto in Pisa di marmo una Madonna annunziata dall'Angelo, che l'ha fatto conoscere per giovane di bello ingegno e giudizio. Et un'altra bellissima statua gli fece fare Luca Martini in Pisa, che poi dalla signora duchessa Leonora fu donata al signor don Garzia di Tolledo suo fratello, che l'ha posta in Napoli al suo giardino di Chiaia. Ha fatto il medesimo con ordine di Giorgio Vasari, nel mezzo della facciata del palazzo de' Cavalieri di Santo Stefano in Pisa e sopra la porta principale, un'arme del signor Duca gran Mastro, di marmo, grandissima, messa in mezzo da due statue tutte tonde, la Religione e la Giustizia, che sono veramente bellissime e lodatissime da tutti coloro che se n'intendono. Gli ha poi fatto fare il medesimo signore, per lo suo giardino de' Pitti, una fontana simile al bellissimo trionfo di Nettunno, che si vide nella superbissima mascherata che fece sua eccellenza nelle dette nozze del signor Principe illustrissimo. E questo basti quanto a Stoldo Lorenzi, il quale è giovane e va continuamente lavorando et acquistandosi maggiormente, fra' suoi compagni accademici, fama et onore.
Della medesima famiglia de' Lorenzi da Settignano è Batista, detto del Cavaliere, per esser stato discepolo del cavaliere Baccio Bandinelli; il quale ha condotto di marmo tre statue grandi quanto il vivo, le quali gli ha fatto fare Bastiano del Pace cittadin fiorentino, per i Guadagni, che stanno in Francia, e' quali l'hanno poste in un loro giardino, e sono una Primavera ignuda, una State et un Verno, che deono essere accompagnate da un Autunno, le quali statue da molti che l'hanno vedute sono state tenute belle e ben fatte oltre modo. Onde ha meritato Batista di essere stato eletto dal signor Duca a fare la cassa con gl'ornamenti et una delle tre statue che vanno alla sepoltura di Michelagnolo Buonarruoti, le quali fanno con disegno di Giorgio Vasari sua eccellenza e Lionardo Buonarruoti; la quale opera si vede che Batista va conducendo ottimamente a fine con alcuni putti e la figura di esso Buonarruoto dal mezzo in su.
La seconda delle dette tre figure che vanno al detto sepolcro, che hanno a essere la Pittura, Scultura et Architettura, si è data a fare a Giovanni di Benedetto da Castello, discepolo di Baccio Bandinelli et accademico, il quale lavora per l'Opera di Santa Maria del Fiore l'opere di basso rilievo che vanno d'intorno al coro, che oggimai è vicino alla sua perfezzione, nelle quali va molto imitando il suo maestro e si porta in modo, che di lui spera ottima riuscita; né avverrà altrimenti, perciò che è molto assiduo a lavorare et agli studii della sua professione.
E la terza si è allogata a Valerio Cioli da Settignano, scultore et accademico, perciò che l'altre opere che ha fatto in sin qui sono state tali, che si pensa abbia a riuscire la detta figura sì fatta, che non fia se non degna di essere al sepolcro di tant'uomo collocata. Valerio, il quale è giovane di ventisei anni, ha in Roma al giardino del cardinale di Ferrara a Monte Cavallo restaurate molte antiche statue di marmo, rifacendo a chi braccia, a chi piedi, et ad altra altre parti, che mancavano. Et il simile ha fatto poi nel palazzo de' Pitti a molte statue, che v'ha condotto per ornamento d'una gran sala il Duca, il quale ha fatte fare al medesimo di marmo la statua di Morgante nano ignuda, la quale è tanto bella e così simile al vero riuscita, che forse non è mai stato veduto altro mostro così ben fatto, né condotto con tanta diligenza simile al naturale e proprio; e parimente gl'ha fatto condurre la statua di Pietro detto Barbino, nano ingegnoso, letterato e molto gentile, favorito dal Duca nostro. Per le quali dico tutte cagioni ha meritato Valerio che gli sia stata allogata da sua eccellenza la detta statua che va alla sepoltura del Buonarruoto, unico maestro di tutti questi accademici valent'uomini.
Quanto a Francesco Moschino scultore fiorentino, essendosi di lui in altro luogo favellato a bastanza, basta dir qui che anch'egli è accademico, e che sotto la protezzione del duca Cosimo va continuando di lavorare nel Duomo di Pisa e che nell'apparato delle nozze si portò ottimamente negl'ornamenti della porta principale del palazzo ducale.
Di Domenico Poggini similmente, essendosi detto di sopra che è scultore valent'uomo e che ha fatto una infinità di medaglie molto simili al vero et alcun'opere di marmo e di getto, non dirò qui altro di lui se non che meritamente è de' nostri accademici, che in dette nozze fece alcune statue molto belle, le quali furono poste sopra l'arco della Religione al canto alla Paglia, e che ultimamente ha fatto una nuova medaglia del Duca similissima al naturale e molto bella e continuamente va lavorando.
Giovanni Fancegli, o vero, come altri il chiamano, Giovanni da Stocco, accademico, ha fatto molte cose di marmo e di pietra, che sono riuscite buone sculture, e fra l'altre è molto lodata un'arme di palle con due putti et altri ornamenti, posta in alto sopra le due finestre inginocchiate della facciata di ser Giovanni Conti in Firenze.
Et il medesimo dico di Zanobi Lastricati il quale come buono e valente scultore ha condotto e tuttavia lavora molte opere di marmo e di getto, che l'hanno fatto dignissimo d'essere nell'Accademia in compagnia de' sopradetti. E fra l'altre sue cose è molto lodato un Mercurio di bronzo, che è nel cortile del palazzo di Messer Lorenzo Ridolfi, per esser figura stata condotta con tutte quell'avvertenze che si richieggiono.
Finalmente sono stati accettati nell'Accademia alcuni giovani scultori, che nell'apparato detto delle nozze di sua altezza hanno fatto opere onorate e lodevoli. E questi sono stati fra' Giovan Vincenzio de' Servi, discepolo di fra' Giovan Agnolo, Ottaviano del Collettaio, creato di Zanobi Lastricati, e Pompilio Lancia, figliuolo di Baldassarre da Urbino architetto e creato di Girolamo Genga. Il quale Pompilio nella mascherata detta della Geneologia degli dei, ordinata per lo più e quanto alle machine dal detto Baldassarre suo padre, si portò in alcune cose ottimamente.



DESCRIZIONE DELL'OPERE DI GIORGIO VASARI PITTORE ET ARCHITETTO ARETINO

Avendo io in fin qui ragionato dell'opere altrui, con quella maggior diligenza e sincerità che ha saputo e potuto l'ingegno mio, voglio anco nel fine di queste mie fatiche raccòrre insieme e far note al mondo l'opere che la divina bontà mi ha fatto grazia di condurre; perciò che, se bene elle non sono di quella perfezzione che io vorrei, si vedrà nondimeno da chi vorrà con sano occhio riguardarle, che elle sono state da me con istudio, diligenza et amorevole fatica lavorate, e perciò, se non degne di lode, almeno di scusa; sanzaché, essendo pur fuori e veggendosi, non le posso nascondere. E però che potrebbono, per aventura, essere scritte da qualcun altro, è pur meglio che io confessi il vero, et accusi da me stesso la mia imperfezzione, la quale conosco da vantaggio; sicuro di questo, che se, come ho detto, in loro non si vedrà eccellenza e perfezzione, vi si scorgerà per lo meno un ardente disiderio di bene operare, et una grande et indefessa fatica, e l'amore grandissimo che io porto alle nostre arti. Onde averrà secondo le leggi, confessando io apertamente il mio difetto, che me ne sarà una gran parte perdonato.
Per cominciarmi dunque dai miei principii, dico che avendo a bastanza favellato dell'origine della mia famiglia, della mia nascita e fanciullezza, e quanto io fussi da Antonio mio padre con ogni sorte d'amorevolezza incaminato nella via delle virtù, et in particolare del disegno, al quale mi vedeva molto inclinato, nella vita di Luca Signorelli da Cortona, mio parente, in quella di Francesco Salviati et in molti altri luoghi della presente opera, con buone occasioni non starò a replicar le medesime cose. Dirò bene, che dopo avere io ne' miei primi anni disegnato quante buone pitture sono per le chiese d'Arezzo, mi furono insegnati i primi principii, con qualche ordine, da Guglielmo da Marzilla franzese, di cui avemo di sopra raccontato l'opere e la vita. Condotto poi l'anno 1524 a Fiorenza da Silvio Passerini cardinale di Cortona, attesi qualche poco al disegno sotto Michelagnolo, Andrea del Sarto et altri. Ma essendo l'anno 1527 stati cacciati i Medici di Firenze, et in particolare Alessandro et Ippolito, coi quali aveva così fanciullo gran servitù per mezzo di detto Cardinale, mi fece tornare in Arezzo don Antonio mio zio paterno, essendo di poco avanti morto mio padre di peste; il quale don Antonio tenendomi lontano dalla città, perché io non appestassi, fu cagione, che per fuggire l'ozio, mi andai esercitando pel contado d'Arezzo, vicino ai nostri luoghi, in dipignere alcune cose a fresco ai contadini del paese, ancor che io non avessi quasi ancor mai tocco colori; nel che fare m'avvidi che il provarsi e fare da sé aiuta, insegna e fa che altri fa bonissima pratica. L'anno poi 1528, finita la peste, la prima opera che io feci fu una tavoletta nella chiesa di San Piero d'Arezzo de' frati de' Servi, nella quale, che è appoggiata a un pilastro, sono tre mezze figure: Sant'Agata, San Rocco e San Bastiano. La qual pittura, vedendola il Rosso, pittore famosissimo, che di que' giorni venne in Arezzo, fu cagione che conoscendovi qualche cosa di buono, cavata dal naturale, mi volle conoscere e che poi m'aiutò di disegni e di consiglio. Né passò molto che per suo mezzo mi diede Messer Lorenzo Gamurrini a fare una tavola, della quale mi fece il Rosso il disegno, et io poi la condussi con quanto più studio, fatica e diligenza mi fu possibile, per imparare et acquistarmi un poco di nome. E se il potere avesse agguagliato il volere sarei tosto divenuto pittore ragionevole, cotanto mi affaticava e studiava le cose dell'arte, ma io trovava le difficultà molto maggiori di quello che a principio aveva stimato.
Tuttavia, non perdendomi d'animo, tornai a Fiorenza, dove, veggendo non poter se non con lunghezza di tempo divenir tale che io aiutassi tre sorelle e due fratelli minori di me, statimi lasciati da mio padre, mi posi all'orefice; ma vi stetti poco, perciò che venuto il campo a Fiorenza l'anno 1529, me n'andai con Manno orefice e mio amicissimo a Pisa, dove, lasciato da parte l'esercizio dell'orefice, dipinsi a fresco l'arco che è sopra la porta della Compagnia vecchia de' Fiorentini, et alcuni quadri a olio, che mi furono fatti fare per mezzo di don Miniato Pitti, abbate allora d'Agnano fuor di Pisa, e di Luigi Guicciardini, che in quel tempo era in Pisa. Crescendo poi più ogni giorno la guerra, mi risolvei tornarmene in Arezzo, ma non potendo per la diritta via et ordinaria, mi condussi per le montagne di Modena a Bologna; dove, trovando che si facevano per la coronazione di Carlo Quinto alcuni archi trionfali di pittura, ebbi così giovinetto da lavorare con mio utile et onore. E perché io disegnava assai acconciamente, arei trovato da starvi e da lavorare, ma il disiderio che io aveva di riveder la mia famiglia e' parenti, fu cagione che, trovata buona compagnia, me ne tornai in Arezzo, dove, trovato in buono essere le cose mie, per la diligente custodia avutane dal detto don Antonio mio zio, quietai l'animo et attesi al disegno, facendo anco alcune cosette a olio di non molta importanza.
Intanto, essendo il detto don Miniato Pitti fatto non so se abbate o priore di Santa Anna, monasterio di Monte Oliveto in quel di Siena, mandò per me; e così feci a lui et all'Albenga loro generale alcuni quadri et altre pitture. Poi, essendo il medesimo fatto abbate di San Bernardo d'Arezzo, gli feci nel poggiuolo dell'organo, in due quadri a olio, Iobbe e Moisè. Per che, piaciuta a que' monaci l'opera, mi feciono fare innanzi alla porta principale della chiesa nella volta e facciate d'un portico alcune pitture a fresco, cioè i quattro Evangelisti con Dio Padre nella volta et alcun'altre figure grandi quanto il vivo, nelle quali se bene, come giovane poco sperto, non feci tutto che arebbe fatto un più pratico, feci nondimeno quello che io seppi e cosa che non dispiacque a que' padri, avuto rispetto alla mia poca età e sperienza.
Ma non sì tosto ebbi compiuta quell'opera, che, passando il cardinale Ipolito de' Medici per Arezzo in poste, mi condusse a Roma a' suoi servigii, come s'è detto nella vita del Salviati, là dove ebbi commodità, per cortesia di quel signore, di attendere molti mesi allo studio del disegno. E potrei dire con verità questa comodità e lo studio di questo tempo essere stato il mio vero e principal maestro in questa arte, se bene per innanzi mi aveano non poco giovato i sopra nominati, e non mi s'era mai partito del cuore un ardente desiderio d'imparare et uno indefesso studio di sempre disegnare giorno e notte. Mi furono anco di grande aiuto in que' tempi le concorrenze de' giovani miei eguali e compagni, che poi sono stati per lo più eccellentissimi nella nostra arte. Non mi fu anco se non assai pungente stimolo il disiderio della gloria et il vedere molti esser riusciti rarissimi e venuti a gradi et onori. Onde diceva fra me stesso alcuna volta: "Perché non è in mio potere con assidua fatica e studio procacciarmi delle grandezze e gradi che s'hanno acquistato tanti altri? Furono pure anch'essi di carne e d'ossa, come son io". Cacciato dunque da tanti e sì fieri stimoli e dal bisogno che io vedeva avere di me la mia famiglia, mi disposi a non volere perdonare a niuna fatica, disagio, vigilia e stento per conseguire questo fine. E così propostomi nell'animo, non rimase cosa notabile allora in Roma, né poi in Fiorenza et altri luoghi ove dimorai, la quale io in mia gioventù non disegnassi: e non solo di pitture, ma anche di sculture et architetture antiche e moderne, et oltre al frutto ch'io feci in disegnando la volta e cappella di Michelagnolo, non restò cosa di Raffaello, Pulidoro e Baldassarre da Siena, che similmente io non disegnassi in compagnia di Francesco Salviati, come già s'è detto nella sua vita. Et acciò che avesse ciascuno di noi i disegni d'ogni cosa, non disegnava il giorno l'uno quello che l'altro, ma cose diverse; di notte poi ritraevamo le carte l'uno dell'altro, per avanzar tempo e fare più studio, per non dir nulla che le più volte non mangiavamo la mattina se non così ritti, e poche cose. Dopo la quale incredibile fatica, la prima opera che m'uscisse di mano, come di mia propria fucina, fu un quadro grande di figure quanto il vivo d'una Venere con le Grazie, che la adornavano e facevan bella, la quale mi fece fare il cardinale de' Medici; del qual quadro non accade parlare, perché fu cosa da giovanetto, né io lo toccherei, se non che mi è grato ricordarmi ancor di que' primi principii e molti giovamenti nel principio dell'arti. Basta che quel signore et altri mi diedero a credere che fusse un non so che di buon principio e di vivace e pronta fierezza. E perché fra l'altre cose vi avea fatto per mio capriccio un satiro libidinoso, il quale, standosi nascosto fra certe frasche, si rallegrava e godeva in guardare le Grazie e Venere ignude, ciò piacque di maniera al cardinale, che, fattomi tutto di nuovo rivestire, diede ordine che facessi in un quadro maggiore pur a olio la battaglia de' satiri intorno a' fauni, silvani e putti, che quasi facessero una baccanalia; per che, messovi mano, feci il cartone e dopo abbozzai di colori la tela, che era lunga dieci braccia.
Avendo poi a partire il cardinale per la volta d'Ungheria, fattomi conoscere a papa Clemente, mi lasciò in protezione di Sua Santità che mi dette in custodia del signor Ieronimo Montaguto suo maestro di camera, con lettere che volendo io fuggire l'aria di Roma quella state, io fussi ricevuto a Fiorenza dal duca Alessandro, il che sarebbe stato bene che io avessi fatto; perciò che volendo io pure stare in Roma, fra i caldi, l'aria e la fatica, amalai di sorte, che per guarire fui forzato a farmi portare in ceste ad Arezzo. Pure, finalmente guarito intorno alli dieci del dicembre vegnente, venni a Fiorenza dove fui dal detto Duca ricevuto con buona cera, e poco appresso dato in custodia al magnifico Messer Ottaviano de' Medici, il quale mi prese di maniera in protezzione, che sempre, mentre visse, mi tenne in luogo di figliuolo; la buona memoria del quale io riverirò sempre e ricorderò come d'un mio amorevolissimo padre.
Tornato dunque ai miei soliti studii, ebbi comodo, per mezzo di detto signore, d'entrare a mia posta nella sagrestia nuova di San Lorenzo, dove sono l'opere di Michelagnolo, essendo egli di quei giorni andato a Roma, e così le studiai per alcun tempo con molta diligenza così come erano in terra. Poi, messomi a lavorare, feci in un quadro di tre braccia un Cristo morto, portato da Niccodemo, Gioseffo et altri alla sepoltura, e dietro le Marie piangendo. Il quale quadro, finito che fu, l'ebbe il duca Alessandro, con buono e felice principio de' miei lavori; perciò che non solo ne tenne egli conto mentre visse, ma è poi stato sempre in camera del duca Cosimo, et ora è in quella dell'illustrissimo Principe suo figliuolo, et ancora che alcuna volta io abbia voluto rimettervi mano per migliorarlo in qualche parte, non sono stato lasciato.
Veduta dunque questa mia prima opera, il duca Alessandro ordinò che io finissi la camera terrena del palazzo de' Medici, stata lasciata imperfetta, come s'è detto, da Giovanni da Udine. Onde io vi dipinsi quattro storie de' fatti di Cesare: quando, notando, ha in una mano i suoi comentarii et in bocca la spada; quando fra abruciare i scritti di Pompeo, per non vedere l'opere de' suoi nemici; quando, dalla fortuna in mare travagliato, si dà a conoscere a un nocchieri; e finalmente il suo trionfo, ma questo non fu finito del tutto. Nel qual tempo, ancor che io non avessi se non poco più di diciotto anni, mi dava il Duca sei scudi il mese di provisione, il piatto a me, et un servitore, e le stanze da abitare, con altre molte commodità. Et ancor che io conoscessi non meritar tanto a gran pezzo, io facea nondimeno tutto che sapeva con amore e con diligenza; né mi pareva fatica dimandare a' miei maggiori quello che io non sapeva, onde più volte fui d'opera e di consiglio aiutato dal Tribolo, dal Bandinello e da altri.
Feci adunque in un quadro alto tre braccia esso duca Alessandro, armato e ritratto di naturale, con nuova invenzione et un sedere fatto di prigioni legati insieme e con altre fantasie. E mi ricorda che oltre al ritratto, il quale somigliava, per far il brunito di quell'arme bianco, lucido e proprio, che io vi ebbi poco meno che a perdere il cervello, cotanto mi affaticai in ritrarre dal vero ogni minuzia. Ma disperato di potere in questa opera accostarmi al vero, menai Iacopo da Puntormo, il quale io per la sua molta virtù osservava, a vedere l'opera e consigliarmi; il quale, veduto il quadro e conosciuta la mia passione, mi disse amorevolmente: "Figliuol mio, insino a che queste arme vere e lustranti stanno a canto a questo quadro, le tue ti parranno sempre dipinte, perciò che se bene la biacca è il più fiero colore che adoperi l'arte, e nondimeno più fiero e lustrante è il ferro. Togli via le vere e vedrai poi che non sono le tue finte armi così cattiva cosa, come le tieni". Questo quadro, fornito che fu, diedi al Duca, et il Duca lo donò a Messer Ottaviano de' Medici, nelle cui case è stato insino a oggi, in compagnia del ritratto di Caterina allora giovane sorella del detto Duca e poi Reina di Francia, e di quello del magnifico Lorenzo Vecchio. Nelle medesime case sono tre quadri pur di mia mano e fatti nella mia giovanezza. In uno Abramo sacrifica Isac, nel secondo è Cristo nell'orto, e nell'altro la cena che fa con gl'Apostoli.
Intanto, essendo morto Ipolito cardinale, nel quale era la somma collocata di tutte le mie speranze, cominciai a conoscere quanto sono vane, le più volte, le speranze di questo mondo, e che bisogna in se stesso, e nell'essere da qualche cosa, principalmente confidarsi. Dopo quest'opere, veggendo io che il Duca era tutto dato alle fortificazioni et al fabricare, cominciai, per meglio poterlo servire, a dare opera alle cose d'architettura, e vi spesi molto tempo. Intanto, avendosi a far l'apparato per ricevere l'anno 1536 in Firenze l'imperatore Carlo Quinto, nel dare a ciò ordine il Duca comise ai deputati sopra quella onoranza, come s'è detto nella vita del Tribolo, che m'avessero seco a disegnare tutti gl'archi et altri ornamenti da farsi per quell'entrata. Il che fatto, mi fu anco, per beneficarmi, allogato, oltre le bandiere grandi del castello e fortezza, come si disse, la facciata a uso d'arco trionfale, che si fece a San Felice in piazza, alta braccia quaranta e larga venti; et appresso l'ornamento della porta a San Piero Gattolini, opere tutte grandi e sopra le forze mie. E, che fu peggio, avendomi questi favori tirato addosso mille invidie, circa venti uomini, che m'aiutavano far le bandiere e gl'altri lavori, mi piantarono in sul buono, a persuasione di questo e di quello, acciò io non potessi condurre tante opere e di tanta importanza. Ma io, che aveva preveduto la malignità di que' tali, ai quali avea sempre cercato di giovare, parte lavorando di mia mano giorno e notte, e parte aiutato da pittori avuti di fuora, che m'aiutavano di nascoso, attendeva al fatto mio et a cercare di superare cotali difficultà e malivoglienze con l'opere stesse.
Il qual mentre Bertoldo Corsini, allora generale proveditore per sua eccellenzia, aveva rapportato al Duca che io aveva preso a far tante cose, che non era mai possibile che io l'avessi condotte a tempo, e massimamente non avendo io uomini et essendo l'opere molto a dietro; per che, mandato il Duca per me e dettomi quello che avea inteso, gli risposi che le mie opere erano a buon termine, come poteva vedere sua eccellenzia a suo piacere, e che il fine loderebbe il tutto; e partitomi da lui, non passò molto che occultamente venne dove io lavorava, e vide il tutto, e conobbe in parte l'invidia e malignità di coloro che sanza averne cagione mi pontavano addosso. Venuto il tempo che doveva ogni cosa essere a ordine, ebbi finito di tutto punto e posti a' luoghi loro i miei lavori, con molta sodisfazione del Duca e dell'universale. Là dove quelli di alcuni che più avevano pensato a me, che a loro stessi, furono messi su imperfetti. Finita la festa, oltre a' quattrocento scudi che mi furono pagati per l'opere, me ne donò il Duca trecento, che si levarono a coloro che non avevano condotto a fine le loro opere al tempo determinato, secondo che si era convenuto d'accordo. Con i quali avanzi e donativo maritai una delle mie sorelle, e poco dopo ne feci un'altra monaca nelle Murate d'Arezzo, dando al monasterio oltre alla dote, o vero limosina, una tavola d'una Nunziata di mia mano, con un tabernacolo del Sacramento in essa tavola accomodato, la quale fu posta dentro nel loro coro, dove stanno a ufiziare.
Avendomi poi dato a fare la Compagnia del Corpus Domini d'Arezzo la tavola dell'altar maggiore di San Domenico, vi feci dentro un Cristo deposto di croce, e poco appresso per la Compagnia di San Rocco cominciai la tavola della loro chiesa in Firenze. Ora, mentre andava procacciandomi sotto la protezione del duca Alessandro onore, nome e facultà, fu il povero signore crudelmente ucciso, et a me levato ogni speranza di quello che io mi andava, mediante il suo favore, promettendo dalla fortuna. Per che mancati, in pochi anni, Clemente, Ipolito et Alessandro, mi risolvei, consigliato da Messer Ottaviano, a non volere più seguitare la fortuna delle corti, ma l'arte sola, se bene facile sarebbe stato accomodarmi col signor Cosimo de' Medici nuovo duca. E così tirando innanzi in Arezzo la detta tavola, e facciata di San Rocco con l'ornamento, mi andava mettendo a ordine per andare a Roma, quando per mezzo di Messer Giovanni Pollastra, come Dio volle (al quale sempre mi sono raccomandato e del quale riconosco et ho riconosciuto sempre ogni mio bene), fu' chiamato a Camaldoli, capo della congregazione camaldolense, dai padri di quell'eremo a vedere quello che disegnavano di voler fare nella loro chiesa. Dove giunto, mi piacque sommamente l'alpestre et eterna solitudine e quiete di quel luogo santo, e se bene mi accorsi di prima giunta che que' padri d'aspetto venerando, veggendomi così giovane, stavano sopra di loro, mi feci animo e parlai loro di maniera, che si risolverono a volere servirsi dell'opera mia nelle molte pitture che andavano nella loro chiesa di Camaldoli a olio et in fresco. Ma dove volevano che io innanzi a ogni altra cosa facessi la tavola dell'altar maggiore, mostrai loro con buone ragioni che era meglio far prima una delle minori, che andavano nel tramezzo, e che finita quella, se fusse loro piaciuta, arei potuto seguitare; oltre ciò non volli fare con essi alcun patto fermo di danari, ma dissi che dove piacesse loro, finita che fusse l'opera mia, me la pagassero a lor modo, e non piacendo me la rendessero, che la terrei per me ben volentieri. La qual condizione parendo loro troppo onesta et amorevole, furono contenti che io mettessi mano a lavorare.
Dicendomi essi adunque che vi volevano la Nostra Donna col Figlio in collo, San Giovanni Batista e San Ieronimo, i quali ambidue furono eremiti et abitarono i boschi e le selve, mi parti' dall'ermo e scorsi giù alla Badia loro di Camaldoli, dove fattone con prestezza un disegno, che piacque loro, cominciai la tavola, et in due mesi l'ebbi finita del tutto e messa al suo luogo, con molto piacere di que' padri (per quanto mostrarono) e mio; il quale in detto spazio di due mesi, provai quanto molto più giovi agli studii una dolce quiete et onesta solitudine, che i rumori delle piazze e delle corti, conobbi dico l'error mio, d'avere posto per l'addietro le speranze mie negl'uomini e nelle baie e girandole di questo mondo. Finita dunque la detta tavola, mi allogorono subitamente il resto del tramezzo della chiesa, cioè le storie et altro, che da basso et alto vi andavano di lavoro a fresco, perciò che le facessi la state vegnente, atteso che la vernata non sarebbe quasi possibile lavorare a fresco in quell'alpe e fra que' monti.
Per tanto, tornato in Arezzo fini' la tavola di San Rocco, facendovi la Nostra Donna, sei Santi et un Dio Padre, con certe saette in mano figurate per la peste. Le quali mentre egli è in atto di fulminare, è pregato da San Rocco et altri Santi per lo popolo. Nella facciata sono molte figure a fresco, le quali insieme con la tavola sono come sono. Mandandomi poi a chiamare in val di Caprese fra' Bartolomeo Graziani, frate di Sant'Agostino dal Monte San Savino, mi diede a fare una tavola grande a olio nella chiesa di Santo Agostino del monte detto, per l'altar maggiore. E così rimaso d'accordo, me ne venni a Firenze a vedere Messer Ottaviano, dove stando alcuni giorni, durai delle fatiche a far sì che non mi rimettesse al servizio delle corti, come aveva in animo; pure io vinsi la pugna con buone ragioni, e risolveimi d'andar per ogni modo, avanti che altro facessi, a Roma. Ma ciò non mi venne fatto se non poi che ebbi fatto al detto Messer Ottaviano una copia del quadro, nel quale ritrasse già Raffaello da Urbino papa Leone, Giulio cardinale de' Medici et il cardinale de' Rossi, perciò che il Duca rivoleva il proprio, che allora era in potere di esso Messer Ottaviano. La qual copia che io feci è oggi nelle case degl'eredi di quel signore, il quale nel partirmi per Roma mi fece una lettera di cambio di 500 scudi a Giovanbatista Puccini, che me gli pagasse ad ogni mia richiesta, dicendomi: "Serviti di questi per potere attendere a' tuoi studii; quando poi n'arai il commodo, potrai rendermegli o in opere, o in contanti a tuo piacimento".
Arrivato dunque in Roma di febraio l'anno 1538, vi stei tutto giugno, attendendo, in compagnia di Giovanbatista Cungi dal Borgo mio garzone, a disegnare tutto quello che mi era rimaso indietro l'altre volte che era stato in Roma, et in particolare ciò che era sotto terra nelle grotte. Né lasciai cosa alcuna d'architettura o scultura che io non disegnassi e non misurassi; in tanto che posso dire con verità che i disegni ch'io feci in quello spazio di tempo furono più di trecento. De' quali ebbi poi piacere et utile molti anni in rivedergli, e rinfrescare la memoria delle cose di Roma. Le quali fatiche e studio, quanto mi giovassero, si vide tornato che fui in Toscana nella tavola, che io feci al Monte San Savino, nella quale dipinsi con alquanto miglior maniera un'Assunzione di Nostra Donna, e da basso, oltre agl'Apostoli che sono intorno al sepolcro, Santo Agostino e San Romualdo.
Andato poi a Camaldoli, secondo che avea promesso a que' padri romiti, feci nell'altra tavola del tramezzo la Natività di Gesù Cristo, fingendo una notte alluminata dallo splendore di Cristo nato, circondato da alcuni pastori che l'adorano. Nel che fare andai imitando con i colori i raggi solari, e ritrassi le figure e tutte l'altre cose di quell'opera dal naturale e col lume, acciò fussero più che si potesse simili al vero. Poi, perché quel lume non potea passare sopra la capanna, da quivi in su et all'intorno, feci che suplisse un lume che viene dallo splendore degl'Angeli che in aria cantano Gloria in excelsis Deo, senzaché in certi luoghi fanno lume i pastori, che vanno attorno con covoni di paglia accesi, et in parte la luna, la stella e l'Angelo che apparisce a certi pastori. Quanto poi al casamento, feci alcune anticaglie a mio capriccio con statue rotte, et altre cose somiglianti. Et insomma condussi quell'opera con tutte le forze e saper mio, e se bene non arrivai con la mano e col pennello al gran disiderio e volontà di ottimamente operare, quella pittura nondimeno a molti è piaciuta. Onde Messer Fausto Sabeo, uomo letteratissimo et allora custode della libreria del Papa, fece, e dopo lui alcuni altri, molti versi latini in lode di quella pittura, mossi per aventura più da molta affezzione, che dall'eccellenza dell'opera; comunche sia, se cosa vi è di buono, fu dono di Dio.
Finita quella tavola, si risolverono i padroni che io facessi a fresco nella facciata le storie che vi andavano; onde feci sopra la porta il ritratto dell'eremo, da un lato San Romualdo con un doge di Vinezia, che fu sant'uomo, e dall'altro una visione, che ebbe il detto Santo là dove fece poi il suo eremo, con alcune fantasie, grottesche et altre cose che vi si veggiono. E ciò fatto, mi ordinarono che la state dell'anno a venire io tornassi a fare la tavola dell'altar grande. Intanto il già detto don Miniato Pitti, che allora era visitator della congregazione di Monte Uliveto, avendo veduta la tavola del Monte S. Savino e l'opere di Camaldoli, trovò in Bologna don Filippo Serragli fiorentino, abbate di S. Michele in Bosco, e gli disse che avendosi a dipignere il refettorio di quell'onorato monasterio, gli pareva che a me e non ad altri si dovesse quell'opera allogare; per che fattomi andare a Bologna, ancor che l'opera fusse grande e d'importanza, la tolsi a fare, ma prima volli vedere tutte le più famose opere di pittura che fussero in quella città, di bolognesi e d'altri. L'opera dunque della testata di quel refettorio fu divisa in tre quadri: in uno aveva ad essere quando Abramo nella valle Mambre apparecchiò da mangiare agl'Angeli; nel secondo Cristo che essendo in casa di Maria Madalena e Marta, parla con essa Marta, dicendogli che Maria ha eletto l'ottima parte; e nella terza aveva da essere dipinto S. Gregorio a mensa co' dodici poveri, fra i quali conobbe essere Cristo. Per tanto messo mano all'opera in quest'ultima finsi San Gregorio a tavola in un convento, e servito da monaci bianchi di quell'Ordine, per potervi accomodare que' padri, secondo che essi volevano. Feci, oltre ciò, nella figura di quel santo Pontefice l'effigie di papa Clemente VII, et intorno, fra molti signori, ambasciadori, principi et altri personaggi che lo stanno a vedere mangiare, ritrassi il duca Alessandro de' Medici per memoria de' beneficii e favori che io aveva da lui ricevuti, e per essere stato chi egli fu, e con esso molti amici miei; e fra coloro che servono a tavola, poveri, ritrassi alcuni frati miei domestici di quel convento, come di forestieri che mi servivano, dispensatore, canovaio, et altri così fatti, e così l'abate Serraglio, il generale don Cipriano da Verona et il Bentivoglio. Parimente ritrassi il naturale ne' vestimenti di quel Pontefice, contrafacendo velluti, damaschi et altri drappi d'oro e di seta d'ogni sorte. L'apparecchio poi, vasi, animali et altre cose feci fare a Cristofano dal Borgo, come si disse nella sua vita. Nella seconda storia cercai fare di maniera le teste, i panni et i casamenti, oltre all'essere diversi dai primi, che facessino più che si può apparire l'affetto di Cristo nell'instituire Madalena, e l'affezione e prontezza di Marta nell'ordinare il convito e dolersi d'essere lasciata sola dalla sorella in tante fatiche e ministerio; per non dir nulla dell'attenzione degl'Apostoli et altre molte cose da essere considerate in questa pittura. Quanto alla terza storia, dipinsi i tre Angeli (venendomi ciò fatto non so come) in una luce celeste, che mostra partirsi da loro, mentre i raggi d'un sole gli circonda in una nuvola. De' quali tre Angeli il vecchio Abramo adora uno, se bene sono tre quelli che vede, mentre Sarra si sta ridendo e pensando come possa essere quello che gl'è stato promesso, et Agar con Ismael in braccio si parte dall'ospizio. Fa anco la medesima luce chiarezza ai servi che apparecchiano, fra i quali alcuni, che non possono sofferire lo splendore, si mettono le mani sopra gl'occhi e cercano di coprirsi; la quale varietà di cose, perché l'ombre crude et i lumi chiari danno più forza alle pitture, fecero a questa aver più rilievo che l'altre due non hanno, e variando di colore, fecero effetto molto diverso. Ma così avess'io saputo mettere in opera il mio concetto, come sempre con nuove invenzioni e fantasie sono andato, allora e poi, cercando le fatiche et il difficile dell'arte!
Quest'opera dunque, comunche sia, fu da me condotta in otto mesi, insieme con un fregio a fresco et architettura, intagli, spalliere, tavole et altri ornamenti di tutta l'opera e di tutto quel refettorio; et il prezzo di tutto mi contentai che fusse dugento scudi, come quelli che più aspirava alla gloria che al guadagno. Onde Messer Andrea Alciati mio amicissimo, che allora leggeva in Bologna, vi fece far sotto queste parole: "Octonis mensibus opus ab Aretino Georgio pictum, non tam praecio, quam amicorum obsequio, et honoris voto anno 1539. Philippus Serralius pon. curavit".
Feci in questo medesimo tempo due tavolette d'un Cristo morto e d'una Ressurrezzione, le quali furono da don Miniato Pitti abate poste nella chiesa di Santa Maria di Barbiano fuor di San Gimignano di Valdelsa; le quali opere finite, tornai subito a Fiorenza, perciò che il Trevisi, maestro Biagio et altri pittori bolognesi, pensando che io mi volessi acasare in Bologna e torre loro di mano l'opere et i lavori, non cessavano d'inquietarmi, ma più noiavano loro stessi che me, il quale di certe lor passioni e modi mi rideva. In Firenze adunque copiai da un ritratto grande infino alle ginocchia un cardinale Ipolito a Messer Ottaviano, et altri quadri con i quali mi andai trattenendo in que' caldi insoportabili della state. I quali venuti, mi tornai alla quiete e fresco di Camaldoli, per fare la detta tavola dell'altar maggiore. Nella quale feci un Cristo che è deposto di croce, con tutto quello studio e fatica che maggiore mi fu possibile; e perché col fare e col tempo mi pareva pur migliorare qualche cosa, né mi sodisfacendo della prima bozza, gli ridetti di mestica e la rifeci quale la si vede di nuovo tutta. Et invitato dalla solitudine, feci in quel medesimo luogo dimorando un quadro al detto Messer Ottaviano, nel quale dipinsi un San Giovanni ignudo e giovinetto, fra certi scogli e massi e che io ritrassi dal naturale di que' monti.
Né a pena ebbi finite quest'opere, che capitò a Camaldoli Messer Bindo Altoviti, per fare dalla cella di Santo Alberigo, luogo di que' padri, una condotta a Roma per via del Tevere, di grossi abeti, per la fabrica di San Piero; il quale veggendo tutte l'opere da me state fatte in quel luogo, e per mia buona sorte piacendogli, prima che di lì partisse, si risolvé che io gli facessi per la sua chiesa di Santo Apostolo di Firenze una tavola. Per che finita quella di Camaldoli con la facciata della cappella in fresco, dove feci esperimento di unire il colorito a olio con quello, e riuscimmi assai acconciamente, me ne venni a Fiorenza e feci la detta tavola. E perché aveva a dare saggio di me a Fiorenza, non avendovi più fatto somigliante opera, aveva molti concorrenti e desiderio di acquistare nome, mi disposi a volere in quell'opera far il mio sforzo e mettervi quanta diligenza mi fusse mai possibile. E per potere ciò fare scarico di ogni molesto pensiero, prima maritai la mia terza sorella e comperai una casa principiata in Arezzo, con un sito da fare orti bellissimi nel borgo di San Vito, nella miglior aria di quella città. D'ottobre adunque l'anno 1540 cominciai la tavola di Messer Bindo, per farvi una storia che dimostrassi la Concezione di Nostra Donna, secondo che era il titolo della cappella. La qual cosa perché a me era assai malagevole, avutone Messer Bindo et io il parere di molti comuni amici, uomini litterati, la feci finalmente in questa maniera: figurato l'albero del peccato originale nel mezzo della tavola, alle radici di esso come primi trasgressori del comandamento di Dio feci ignudi Adamo et Eva, e dopo agl'altri rami feci legati di mano in mano Abram, Isac, Iacob, Moisè, Aron, Iosuè, Davit, e gl'altri Re successivamente secondo i tempi, tutti dico legati per ambedue le braccia, eccetto Samuel e S. Giovanni Batista i quali sono legati per un solo braccio, per essere stati santificati nel ventre. Al tronco dell'albero feci avvolto con la coda l'antico serpente, il quale, avendo dal mezzo in su forma umana, ha le mani legate di dietro; sopra il capo gli ha un piede, calcandogli le corna, la gloriosa Vergine, che l'altro tiene sopra una luna, essendo vestita di sole e coronata di dodici stelle. La qual Vergine, dico, è sostenuta in aria dentro a uno splendore da molti Angeletti nudi, illuminati dai raggi che vengono da lei, i quali raggi parimente, passando fra le foglie dell'albero, rendono lume ai legati e pare che vadano loro sciogliendo i legami con la virtù e grazia che hanno da colei donde procedono. In cielo poi, cioè nel più alto della tavola sono due putti che tengono in mano alcune carte, nelle quali sono scritte queste parole: "Quos Evae culpa damnavit, Mariae gratia solvit". Insomma io non avea fino allora fatto opera, per quello che mi ricorda, né con più studio, né con più amore e fatica di questa, ma tuttavia, se bene satisfeci a altri per aventura, non satisfeci già a me stesso, come che io sappia il tempo, lo studio e l'opera ch'io misi particolarmente negl'ignudi, nelle teste, e finalmente in ogni cosa. Mi diede Messer Bindo, per le fatiche di questa tavola, trecento scudi d'oro, et inoltre l'anno seguente mi fece tante cortesie et amorevolezze in casa sua in Roma, dove gli feci in un piccol quadro, quasi di minio, la pittura di detta tavola, che io sarò sempre alla sua memoria ubbligato.
Nel medesimo tempo ch'io feci questa tavola che fu posta, come ho detto, in S. Apostolo, feci a Messer Ottaviano de' Medici una Venere et una Leda con i cartoni di Michelagnolo, et in un gran quadro un San Girolamo, quanto il vivo, in penitenza, il quale contemplando la morte di Cristo, che ha dinanzi in sulla croce, si percuote il petto, per scacciare della mente le cose di Venere e le tentazioni della carne, che alcuna volta il molestavano, ancor che fusse nei boschi e luoghi solinghi e salvatichi, secondo che egli stesso di sé largamente racconta. Per lo che dimostrare, feci una Venere, che con Amore in braccio fugge da quella contemplazione, avendo per mano il Giuoco et essendogli cascate per terra le frecce et il turcasso; senzaché le saette da Cupido tirate verso quel Santo, tornano rotte verso di lui, et alcune, che cascano, gli sono riportate col becco dalle colombe di essa Venere. Le quali tutte pitture, ancora che forse allora mi piacessero e da me fussero fatte come seppi il meglio, non so quanto mi piacciano in questa età. Ma perché l'arte in sé è dificile, bisogna torre da chi fa quel che può. Dirò ben questo, però che lo posso dire con verità, d'avere sempre fatto le mie pitture, invenzioni e disegni comunche sieno, non dico con grandissima prestezza, ma sì bene con incredibile facilità e senza stento: di che mi sia testimonio, come ho detto in altro luogo, la grandissima tela ch'io dipinsi in San Giovanni di Firenze in sei giorni soli l'anno 1542, per lo battesimo del signor don Francesco Medici, oggi principe di Firenze e di Siena.
Ora se bene io voleva, dopo quest'opere, andare a Roma per satisfare a Messer Bindo Altoviti, non mi venne fatto; perciò che chiamato a Vinezia da Messer Pietro Aretino, poeta allora di chiarissimo nome e mio amicissimo, fui forzato, perché molto disiderava vedermi, andar là; il che feci anco volentieri per vedere l'opere di Tiziano e d'altri pittori in quel viaggio. La qual cosa mi venne fatta, però che in pochi giorni vidi in Modena et in Parma l'opere del Coreggio, quelle di Giulio Romano in Mantoa, e l'antichità di Verona finalmente. Giunto in Vinezia con due quadri dipinti di mia mano con i cartoni di Michelagnolo, gli donai a don Diego di Mendozza, che mi mandò dugento scudi d'oro. Né molto dimorai a Vinezia, che pregato dall'Aretino feci ai signori della Calza l'apparato d'una loro festa, dove ebbi in mia compagnia Batista Cungi, e Cristofano Gherardi dal Borgo S. Sepolcro, e Bastiano Flori aretino molto valenti e pratichi, di che si è in altro luogo ragionato a bastanza, e gli nove quadri di pittura nel palazzo di Messer Giovanni Cornaro, cioè nel soffittato d'una camera del suo palazzo, che è da San Benedetto.
Dopo queste et altre opere di non piccola importanza che feci allora in Vinezia, me ne partii, ancor che io fussi soprafatto dai lavori che mi venivano per le mani, alli sedici d'agosto l'anno 1542, e tornaimene in Toscana dove, avanti che ad altro volessi por mano, dipinsi nella volta d'una camera, che di mio ordine era stata murata nella già detta mia casa, tutte l'arti che sono sotto il disegno o che da lui dependono; nel mezzo è una Fama, che siede sopra la palla del mondo e suona una tromba d'oro, gettandone via una di fuoco finta per la Maledicenza, et intorno a lei sono con ordine tutte le dette arti con i loro strumenti in mano. E perché non ebbi tempo a far il tutto, lasciai otto ovati per fare in essi otto ritratti di naturale de' primi delle nostre arti.
Ne' medesimi giorni feci alle monache di Santa Margherita di quella città, in una cappella del loro orto, a fresco una Natività di Cristo di figure grandi quanto il vivo. E così consumata che ebbi nella patria il resto di quella state e parte dell'autunno, andai a Roma. Dove essendo dal detto Messer Bindo ricevuto e molto carezzato, gli feci in un quadro a olio un Cristo quanto il vivo levato di croce e posto in terra a' piedi della madre, e nell'aria Febo che oscura la faccia del sole e Diana quella della luna. Nel paese poi, oscurato da queste tenebre, si veggiono spezzarsi alcuni monti di pietra, mossi dal terremoto che fu nel patir del Salvatore; e certi morti corpi di Santi si veggiono, risorgendo, uscire de' sepolcri in varii modi. Il quale quadro finito che fu, per sua grazia non dispiacque al maggior pittore, scultore et architetto che sia stato a' tempi nostri e forse de' nostri passati; per mezzo anco di questo quadro, fui, mostrandogliele il Giovio e Messer Bindo, conosciuto dall'illustrissimo cardinale Farnese, al quale feci sì come volle, in una tavola alta otto braccia e larga quattro, una Iustizia che abbraccia uno struzzo, carico delle dodici tavole, e con lo scettro che ha la cicogna in cima; et armata il capo d'una celata di ferro e d'oro, con tre penne, impresa del giusto giudice, di tre variati colori, era nuda tutta dal mezzo in su; alla cintura ha costei legati, come prigioni, con catene d'oro i sette Vizii che a lei sono contrarii: la Corruzione, l'Ignoranza, la Crudeltà, il Timore, il Tradimento, la Bugia e la Maledicenza; sopra le quali è posta in sulle spalle la Verità tutta nuda, offerta dal Tempo alla Iustizia, con un presente di due colombe fatte per l'Innocenza; alla quale Verità mette in capo essa Iustizia una corona di quercia per la Fortezza dell'animo. La quale tutta opera condussi con ogni accurata diligenza, come seppi il meglio.
Nel medesimo tempo, facendo io gran servitù a Michelagnolo Buonarruoti e pigliando da lui parere in tutte le cose mie, egli mi pose per sua bontà molta più affezione, e fu cagione il suo consigliarmi a ciò, per avere veduto alcuni disegni miei, che io mi diedi di nuovo e con miglior modo allo studio delle cose d'architettura; il che per aventura non arei fatto già mai, se quell'uomo eccellentissimo non mi avesse detto quel che mi disse, che per modestia lo taccio.
Il San Pietro seguente, essendo grandissimi caldi in Roma, et avendo lì consumata tutta quella vernata del 1543, me ne tornai a Fiorenza, dove in casa Messer Ottaviano de' Medici, la quale io poteva dir casa mia, feci a Messer Biagio Mei lucchese suo compare in una tavola il medesimo concetto di quella di Messer Bindo in Santo Apostolo, ma variai dalla invenzione in fuore ogni cosa, e quella finita si mise in Lucca in San Piero Cigoli alla sua cappella. Feci in un'altra della medesima grandezza, cioè alta sette braccia e larga quattro, la Nostra Donna, San Ieronimo, San Luca, Santa Cecilia, Santa Marta, Santo Agostino e San Guido romito, la quale tavola fu messa nel Duomo di Pisa, dove n'erano molte altre di mano d'uomini eccellenti. Ma non ebbi sì tosto condotto questa al suo fine, che l'Operaio di detto Duomo mi diede a fare un'altra. Nella quale perché aveva andare similmente la Nostra Donna, per variare dall'altra, feci essa Madonna con Cristo morto a' piè della croce posato in grembo a lei, i ladroni in alto sopra le croci, e con le Marie e Niccodemo che sono intorno, accomodati i Santi titolari di quelle cappelle che tutti fanno componimento e vaga la storia di quella tavola.
Di nuovo tornato a Roma l'anno 1544, oltre a molti quadri che feci a diversi amici, de' quali non accade far memoria, feci un quadro d'una Venere col disegno di Michelagnolo a Messer Bindo Altoviti che mi tornavo seco in casa, e dipinsi per Galeotto da Girone mercante fiorentino in una tavola a olio Cristo deposto di croce, la quale fu posta nella chiesa di Santo Agostino di Roma alla sua cappella. Per la quale tavola poter fare con mio commodo, insieme alcun'opere che mi aveva allogato Tiberio Crispo castellano di Castel Sant'Agnolo, mi era ritirato da me in Trastevere, nel palazzo, che già murò il vescovo Adimari, sotto Santo Onofrio, che poi è stato fornito da Salviati il secondo. Ma sentendomi indisposto e stracco da infinite fatiche, fui forzato tornarmene a Fiorenza, dove feci alcuni quadri, e fra gl'altri uno in cui era Dante, Petrarca, Guido Cavalcanti, il Boccaccio, Cino da Pistoia e Guittone d'Arezzo, il quale fu poi di Luca Martini, cavato dalle teste antiche loro accuratamente, del quale ne sono state fatte poi molte copie.
Il medesimo anno 1544 condotto a Napoli da don Giammateo d'Anversa generale de' monaci di Monte Oliveto, perch'io dipignessi il refettorio d'un loro monasterio fabricato dal re Alfonso Primo, quando giunsi fui per non accettare l'opera, essendo quel refettorio e quel monastero fatto d'architettura antica e con le volte a quarti acuti, e basse, e cieche di lumi, dubitando di non avere ad acquistarvi poco onore. Pure astretto da don Miniato Pitti e da don Ipolito da Milano miei amicissimi et allora visitatori di quell'Ordine, accettai finalmente l'impresa. Là dove, conoscendo di non poter fare cosa buona, se non con gran copia d'ornamenti, gl'occhi abagliando di chi avea a vedere quell'opera, con la varietà di molte figure, mi risolvei a fare tutte le volte di esso refettorio lavorate di stucchi per levar via con ricchi partimenti di maniera moderna tutta quella vecchiaia e goffezza di sesti. Nel che mi furon di grande aiuto le volte e mura, fatte, come si usa in quella città, di pietre di tufo, che si tagliono come fa il legname, o meglio cioè come i mattoni non cotti interamente. Perciò che io vi ebbi commodità, tagliando, di fare sfondati di quadri, ovali et ottangoli ringrossando con chiodi e rimettendo de' medesimi tufi. Ridotte adunque quelle volte a buona proporzione con quei stucchi, i quali furono i primi che a Napoli fussero lavorati modernamente, e particolarmente le facciate e teste di quel refettorio, vi feci sei tavole a olio, alte sette braccia, cioè tre per testata. In tre che sono sopra l'entrata del refettorio è il piovere della manna al popolo ebreo, presenti Moisè et Aron che la ricogliono, nel che mi sforzai di mostrare nelle donne, negl'uomini e ne' putti diversità d'attitudini e vestiti, e l'affetto con che ricogliono e ripongono la manna ringraziandone Dio. Nella testata che è a sommo è Cristo che desina in casa di Simone, e Maria Madalena, che con le lacrime gli bagna i piedi e gl'asciuga con i capelli, tutta mostrandosi pentita de' suoi peccati. La quale storia è partita in tre quadri: nel mezzo è la cena, a man ritta una bottiglieria con una credenza piena di vasi in varie forme e stravaganti, et a man sinistra uno scalco che conduce le vivande. Le volte furono compartite in tre parti: in una si tratta della Fede, nella seconda della Religione e nella terza dell'Eternità. Ciascuna delle quali, perché erano in mezzo, ha otto Virtù intorno, dimostranti ai monaci che in quel refettorio mangiano quello che alla loro vita e perfezzione è richiesto. E per arricchire i vani delle volte, gli feci pieni di grottesche, le quali in quarantotto vani fanno ornamento alle quarantotto immagini celesti; et in sei facce per lo lungo di quel refettorio sotto le finestre fatte maggiori e con ricco ornamento, dipinsi sei delle parabole di Gesù Cristo, le quali fanno a proposito di quel luogo. Alle quali tutte pitture et ornamenti corrisponde l'intaglio delle spalliere fatte riccamente. Dopo, feci all'altar maggiore di quella chiesa una tavola alta otto braccia dentrovi la Nostra Donna che presenta a Simeone nel tempio Gesù Cristo piccolino, con nova invenzione. Ma è gran cosa, che dopo Giotto, non era stato insino allora in sì nobile e gran città maestri che in pittura avessino fatto alcuna cosa d'importanza, se ben vi era stato condotto alcuna cosa di fuori di mano del Perugino e di Raffaello, per lo che m'ingegnai fare di maniera, per quanto si estendeva il mio poco sapere, che si avessero a svegliare gl'ingegni di quel paese a cose grandi et onorevoli operare. E questo o altro che ne sia stato cagione, da quel tempo in qua vi sono state fatte di stucchi e pitture molte bellissime opere.
Oltre alle pitture sopradette, nella volta della foresteria del medesimo monasterio condussi a fresco, di figure grandi quanto il vivo, Gesù Cristo che ha la croce in ispalla, et a imitazione di lui molti de' suoi Santi che l'hanno similmente addosso, per dimostrare che a chi vuole veramente seguitar lui, bisogna portare e con buona pacienza l'avversità che dà il mondo. Al generale di detto Ordine condussi in un gran quadro Cristo, che aparendo agl'Apostoli travagliati in mare dalla fortuna, prende per un braccio S. Piero, che a lui era corso per l'acqua, dubitando non affogare. Et in un altro quadro per l'abate Capeccio feci la Ressurezione; e queste cose condotte a fine, al signor don Pietro di Tolledo viceré di Napoli dipinsi a fresco nel suo giardino di Pozzuolo una cappella et alcuni ornamenti di stucchi sottilissimi. Per lo medesimo si era dato ordine di far due gran logge, ma la cosa non ebbe effetto per questa cagione. Essendo stata alcuna differenza fra il viceré e detti monaci, venne il bargello con sua famiglia al monasterio per pigliar l'abate et alcuni monaci, che in processione avevano avuto parole, per conto di precedenza, con i monaci neri. Ma i monaci facendo difesa, aiutati da circa quindici giovani che meco di stucchi e pitture lavoravano, ferirono alcuni birri, per lo che bisognando di notte cansargli, s'andarono chi qua e là, e così io rimaso quasi solo, non solo non potei fare le logge di Pozzuolo, ma né anco fare ventiquattro quadri di storie del Testamento Vecchio e della vita di S. Giovanni Batista; i quali, non mi sadisfacendo di restare in Napoli più, portai a fornire a Roma, donde gli mandai, e furono messi intorno alle spalliere e sopra gl'armarii di noce fatti con mia disegni et architettura, nella sagrestia di San Giovanni Carbonaro, convento de' frati eremitani osservanti di Santo Agostino, ai quali poco innanzi avea dipinto in una cappella fuor della chiesa in tavola un Cristo crucifisso, con ricco e vario ornamento di stucco, a richiesta del Seripando lor generale, che fu poi cardinale. Parimente a mezzo le scale di detto convento feci a fresco San Giovanni Evangelista, che sta mirando la Nostra Donna vestita di sole, con i piedi sopra la luna e coronata di dodici stelle. Nella medesima città dipinsi a Messer Tommaso Cambi, mercante fiorentino e mio amicissimo, nella sala d'una sua casa, in quattro facciate i tempi e le stagioni dell'anno: il Sogno, il Sonno sopra un terrazzo, dove fece una fontana.
Al duca di Gravina dipinsi in una tavola, che egli condusse al suo Stato, i Magi che adorano Cristo, et ad Orsanca segretario del viceré feci un'altra tavola, con cinque figure intorno a un Crucifisso, e molti quadri. Ma con tutto ch'io fussi assai ben visto da que' signori, guadagnassi assai e l'opere ogni giorno moltiplicassero, giudicai, poi che i miei uomini s'erano partiti, che fusse ben fatto, avendo in un anno lavorato in quella città opere a bastanza, ch'io me ne tornassi a Roma. E così fatto, la prima opera che io facessi fu al signor Ranuccio Farnese, allora arcivescovo di Napoli, in tela quattro portegli grandissimi a olio per l'organo del piscopio di Napoli, dentrovi dalla parte dinanzi cinque Santi patroni di quella città, e dentro la Natività di Gesù Cristo, con i pastori, e Davit re, che canta in sul suo salterio: "Dominus dixit ad me", etc. E così i sopra detti ventiquattro quadri et alcuni di Messer Tommaso Cambi, che tutti furono mandati a Napoli. E ciò fatto, dipinsi cinque quadri a Raffaello Acciaiuoli che gli portò in Ispagna, della Passione di Cristo. L'anno medesimo, avendo animo il cardinale Farnese di far dipignere la sala della Cancelleria nel palazzo di San Giorgio, monsignor Giovio, disiderando che ciò si facesse per le mie mani, mi fece fare molti disegni di varie invenzioni, che poi non furono messi in opera. Nondimeno si risolvé finalmente il cardinale ch'ella si facesse in fresco, e con maggior prestezza che fusse possibile, per servirsene a certo suo tempo determinato. È la detta sala lunga poco più di palmi cento, larga cinquanta et alta altretanto. In ciascuna testa adunque larga palmi cinquanta, si fece una storia grande, et in una delle facciate lunghe due, nell'altra per essere impedita dalle finestre, non si poté far istorie, e però vi si fece un ribattimento, simile alla facciata in testa, che è dirimpetto; e per non far basamento, come insino a quel tempo s'era usato dagl'artefici in tutte le storie, alto da terra nove palmi almeno, feci, per variare e far cosa nuova, nascere scale da terra, fatte in varii modi et a ciascuna storia la sua. E sopra quelle feci poi cominciare a salire le figure a proposito di quel suggetto, a poco a poco, tanto che trovano il piano, dove comincia la storia. Lunga e forse noiosa cosa sarebbe dire tutti i particolari e le minuzie di queste storie, però toccherò solo e brevemente le cose principali. Adunque, in tutte sono storie de' fatti di papa Paulo Terzo, et in ciascuna è il suo ritratto di naturale. Nella prima, dove sono, per dirle così, le spedizioni della corte di Roma, si veggiono sopra il Tevere diverse nazioni e diverse ambascerie, con molti ritratti di naturale, che vengono a chieder grazie et ad offerire diversi tributi al Papa. Et oltre ciò, in certe nicchione, due figure grandi, poste sopra le porte, che mettono in mezzo la storia, delle quali una è fatta per l'Eloquenza, che ha sopra due Vittorie che tengono la testa di Giulio Cesare, e l'altra per la Iustizia, con due altre Vittorie che tengono la testa di Alessandro Magno, e nell'alto del mezzo è l'arme di detto Papa sostenuta dalla Liberalità e dalla Rimunerazione. Nella facciata maggiore è il medesimo Papa che rimunera la virtù donando porzioni, cavalierati, benefizii, pensioni, vescovadi e cappelli di cardinali, e fra quei che ricevono sono il Sadoleto, Polo, il Bembo, il Contarino, il Giovio, il Buonarruoto et altri virtuosi tutti ritratti di naturale, et in questa è dentro a un gran nicchione una Grazia con un corno di dovizia pieno di dignità, il quale ella riversa in terra. E le Vittorie, che ha sopra a somiglianza dell'altre, tengono la testa di Traiano imperatore. Èvvi anco l'Invidia, che mangia vipere e pare che crepi di veleno. E di sopra nel fine della storia è l'arme del cardinal Farnese, tenuta dalla Fama e dalla Virtù. Nell'altra storia, il medesimo papa Paulo si vede tutto intento alle fabriche, e particolarmente a quella di S. Piero sopra il Vaticano. E però sono innanzi al Papa ginocchioni la Pittura, la Scultura e l'Architettura, le quali, avendo spiegato un disegno della pianta di esso San Piero, pigliano ordine di essequire e condurre al suo fine quell'opera. Èvvi, oltre le dette figure, l'Animo, che aprendosi il petto mostra il cuore, la Sollecitudine appresso e la Ricchezza. E nella nicchia, la Copia con due Vittorie, che tengono l'effigie di Vespasiano. E nel mezzo è la Religione cristiana in un'altra nicchia che divide l'una storia dall'altra, e sopra le sono due Vittorie, che tengono la testa di Numa Pompilio. E l'arme che è sopra questa istoria è del cardinal San Giorgio, che già fabricò quel palazzo. Nell'altra storia, che è dirimpetto alle spedizioni della corte, è la pace universale fatta fra i cristiani per mezzo di esso papa Paulo Terzo, e massimamente fra Carlo Quinto imperatore e Francesco re di Francia che vi son ritratti. E però vi si vede la Pace abruciar l'arme, chiudersi il tempio di Iano, et il Furor incatenato. Delle due nicchie grandi, che mettono in mezzo la storia, in una è la Concordia, con due Vittorie sopra, che tengono la testa di Tito imperadore e nell'altra è la Carità con molti putti. Sopra la nicchia tengono due Vittorie la testa d'Augusto, e nel fine è l'arme di Carlo Quinto tenuta dalla Vittoria e dalla Ilarità, e tutta quest'opera è piena d'inscrizioni e motti bellissimi fatti dal Giovio; et in particolare ve n'ha uno che dice quelle pitture essere state tutte condotte in cento giorni.
Il che io come giovane feci, come quegli che non pensai se non a servire quel signore, che come ho detto desiderava averla finita per un suo servizio, in quel tempo. E nel vero, se bene io m'affaticai grandemente in far cartoni e studiare quell'opera, io confesso aver fatto errore in metterla poi in mano di garzoni per condurla più presto come mi bisognò fare, perché meglio sarebbe stato aver penato cento mesi et averla fatta di mia mano. Perciò che se bene io non l'avessi fatta in quel modo che arei voluto per servizio del cardinale et onor mio, arei pure avuto quella satisfazione d'averla condotta di mia mano. Ma questo errore fu cagione che io mi risolvei a non far più opere, che non fussero da me stesso del tutto finite sopra la bozza di mano degl'aiuti, fatta con i disegni di mia mano. Si fecero assai pratichi in quest'opera Bizzera e Roviale spagnuoli, che assai vi lavorarono con esso meco, e Batista Bagnacavallo bolognese, Bastian Flori aretino, Giovanpaolo dal Borgo e fra' Salvadore Foschi d'Arezzo, e molti altri miei giovani.
In questo tempo andando io spesso la sera, finita la giornata, a veder cenare il detto illustrissimo cardinal Farnese, dove erano sempre a trattenerlo, con bellissimi et onorati ragionamenti, il Molza, Anibal Caro, Messer Gandolfo, Messer Claudio Tolomei, Messer Romolo Amasseo, monsignor Giovio, et altri molti letterati e galantuomini, de' quali è sempre piena la corte di quel signore, si venne a ragionare una sera fra l'altre del museo del Giovio, e de' ritratti degl'uomini illustri che in quello ha posti con ordine et inscrizioni bellissime. E passando d'una cosa in altra, come si fa ragionando, disse monsignor Giovio avere avuto sempre gran voglia, et averla ancora, d'aggiugnere al museo et al suo libro degli Elogi un trattato nel quale si ragionasse degl'uomini illustri nell'arte del disegno, stati da Cimabue insino a' tempi nostri. Dintorno a che allargandosi, mostrò certo aver gran cognizione e giudizio nelle cose delle nostre arti, ma è ben vero che bastandogli fare gran fascio, non la guardava così in sottile e spesso, favellando di detti artefici, o scambiava i nomi, i cognomi, le patrie, l'opere, e non dicea le cose come stavano a punto, ma così alla grossa. Finito che ebbe il Giovio quel suo discorso, voltatosi a me disse il cardinale: "Che ne dite voi Giorgio, non sarà questa una bell'opera e fatica?". "Bella", rispos'io "monsignor illustrissimo, se il Giovio sarà aiutato da chichesia dell'arte a mettere le cose a' luoghi loro, et a dirle come stanno veramente. Parlo così, perciò che, se bene è stato questo suo discorso maraviglioso, ha scambiato e detto molte cose una per un'altra." "Potrete dunque", soggiunse il cardinale pregato dal Giovio, dal Caro, dal Tolomei e dagl'altri "dargli un sunto voi, et una ordinata notizia di tutti i detti artefici, dell'opere loro secondo l'ordine de' tempi. E così aranno anco da voi questo benefizio le vostre arti." La qual cosa ancor che io conoscessi essere sopra le mie forze, promisi secondo il poter mio di far ben volentieri; e così messomi giù a ricercare miei ricordi, e scritti fatti intorno a ciò, infin da giovanetto, per un certo mio passatempo e per una affezione che io aveva a la memoria de' nostri artefici, ogni notizia de' quali mi era carissima, misi insieme tutto che intorno a ciò mi parve a proposito. E lo portai al Giovio, il quale, poi che molto ebbe lodata quella fatica, mi disse: "Giorgio mio, voglio che prendiate voi questa fatica di distendere il tutto in quel modo che ottimamente veggio saprete fare, perciò che a me non dà il cuore, non conoscendo le maniere, né sapendo molti particolari che potrete sapere voi, sanza che quando pure io facessi, farei il più più un trattatetto simile a quello di Plinio; fate quel ch'io vi dico, Vasari, perché veggio che è per riuscirvi bellissimo, ché saggio dato me ne avete in questa narrazione". Ma parendogli che io a ciò fare non fussi molto risoluto me lo fé dire al Caro, al Molza, al Tolomei et altri miei amicissimi; per che risolutomi finalmente, vi misi mano con intenzione, finita che fusse, di darla a uno di loro, che rivedutola et acconcia, la mandasse fuori sotto altro nome che il mio.
Intanto partito di Roma l'anno 1546 del mese d'ottobre, e venuto a Fiorenza, feci alle monache del famoso monasterio delle Murate, in tavola a olio, un Cenacolo per lo loro refettorio, la quale opera mi fu fatta fare e pagata da papa Paulo Terzo, che aveva monaca in detto monasterio una sua cognata, stata contessa di Pitigliano. E dopo feci in un'altra tavola la Nostra Donna che ha Cristo fanciullo in collo, il quale sposa Santa Caterina vergine e martire, e due altri Santi; la qual tavola mi fece fare Messer Tomaso Cambi per una sua sorella allora badessa nel monasterio del Bigallo fuor di Fiorenza. E quella finita feci a monsignor de' Rossi de' conti di San Secondo e vescovo di Pavia due quadri grandi a olio: in uno è San Ieronimo e nell'altro una Pietà, i quali amendue furono mandati in Francia. L'anno poi 1547, fini' del tutto per lo Duomo di Pisa, ad instanza di Messer Bastiano della Seta Operaio, un'altra tavola che aveva cominciata; e dopo a Simon Corsi mio amicissimo un quadro grande a olio d'una Madonna.
Ora, mentre che io faceva quest'opere, avendo condotto a buon termine il libro delle vite degl'artefici del disegno, non mi restava quasi altro a fare che farlo trascrivere in buona forma, quando a tempo mi venne alle mani don Gian Matteo Faetani da Rimini, monaco di Monte Oliveto, persona di lettere e d'ingegno, perché io gli facessi alcun'opere nella chiesa e monasterio di Santa Maria di Scolca d'Arimini, là dove egli era abate. Costui dunque, avendomi promesso di farlami trascrivere a un suo monaco eccellente scrittore e di correggerla egli stesso, mi tirò ad Arimini a fare, per questa comodità, la tavola et altar maggiore di detta chiesa, che è lontana dalla città circa tre miglia. Nella qual tavola feci i Magi che adorano Cristo, con una infinità di figure da me condotte in quel luogo soletario con molto studio, imitando quanto io potei gl'uomini delle corti di tre re, mescolati insieme, ma in modo però che si conosce all'arie de' volti di che regione e soggetto a qual re sia ciascuno. Conciò sia, che alcuni hanno le carnagioni bianche, i secondi bigie, et altri nere, oltre che la diversità delli abiti e varie portature fa vaghezza e distinzione. È messa la detta tavola in mezzo da due gran quadri, nei quali è il resto della corte, cavalli, liofanti e giraffe, e per la cappella in varii luoghi sparsi Profeti, Sibille, Evangelisti in atto di scrivere. Nella cupola o vero tribuna feci quattro gran figure, che trattano delle lodi di Cristo, e della sua stirpe, e della Vergine, e questi sono Orfeo et Omero con alcuni motti greci, Vergilio col motto: "Iam redit et Virgo", etc. e Dante con questi versi:

Tu sei colei che l'umana natura
nobilitasti sì, che il suo fattore
non si sdegnò di farsi tua fattura.

Con molte altre figure et invenzioni delle quali non accade altro dire. Dopo, seguitandosi intanto di scrivere il detto libro e ridurlo a buon termine, feci in S. Francesco d'Arimini all'altar maggiore una tavola grande a olio, con un S. Francesco che riceve da Cristo le stimate nel monte della Vernia, ritratto dal vivo; ma perché quel monte è tutto di massi e pietre bigie, e similmente S. Francesco et il suo compagno si fanno bigi, finsi un sole, dentro al quale è Cristo con buon numero di Serafini, e così fa l'opera variata, et il Santo con altre figure tutto lumeggiato dallo splendore di quel sole, et il paese aombrato dalla varietà d'alcuni colori cangianti, che a molti non dispiacciono, et allora furono molto lodati dal cardinale Capodiferro, legato della Romagna. Condotto poi da Rimini a Ravenna, feci come in altro luogo s'è detto una tavola nella nuova chiesa della Badia di Classi dell'Ordine di Camaldoli, dipignendovi un Cristo deposto di croce in grembo alla Nostra Donna; e nel medesimo tempo feci per diversi amici molti disegni, quadri, et altre opere minori che sono tante e sì diverse, che a me sarebbe difficile il ricordarmi pur di qualche parte, et a' lettori forse non grato udir tante minuzie.
Intanto essendosi fornita di murare la mia casa d'Arezzo, et io tornatomi a casa, feci i disegni per dipignere la sala, tre camere e la facciata, quasi per mio spasso di quella state. Nei quali disegni feci fra l'altre cose tutte le provincie e luoghi dove io aveva lavorato, quasi come portassino tributi, per i guadagni che avea fatto con esso loro, a detta mia casa; ma nondimeno per allora non feci altro che il palco della sala, il quale è assai ricco di legnami, con tredici quadri grandi, dove sono gli dei celesti, et in quattro angoli i quattro tempi dell'anno ignudi, i quali stanno a vedere un gran quadro, che è in mezzo, dentro al quale sono in figure grandi quanto il vivo la Virtù, che ha sotto i piedi l'Invidia e, presa la Fortuna per i capegli, bastona l'una e l'altra; e quello che molto allora piacque si fu che in girando la sala attorno, et essendo in mezzo la Fortuna, viene talvolta l'Invidia a esser sopra essa Fortuna e Virtù, e d'altra parte la Virtù sopra l'Invidia e Fortuna, sì come si vede che aviene spesse volte veramente. Dintorno nelle facciate sono la Copia, la Liberalità, la Sapienza, la Prudenza, la Fatica, l'Onore et altre cose simili, e sotto attorno girano storie di pittori antichi, di Apelle, di Zeusi, Parrasio, Protogene et altri con varii partimenti e minuzie, che lascio per brevità. Feci ancora nel palco d'una camera di legname intagliato, Abram in un gran tondo, di cui Dio benedice il seme e promette multiplicherà in infinito, et in quattro quadri, che a questo tondo sono intorno, feci la Pace, la Concordia, la Virtù e la Modestia, e perché adorava sempre la memoria e le opere degli antichi, vedendo tralasciare il modo di colorire a tempera, mi venne voglia di risuscitare questo modo di dipignere, e la feci tutta a tempera; il qual modo per certo non merita d'esser affatto dispregiato o tralasciato; et all'entrar della camera feci, quasi burlando, una sposa, che ha in una mano un rastrello, col quale mostra avere rastrellato e portato seco quanto ha mai potuto dalla casa del padre, e nella mano che va innanzi, entrando in casa il marito ha un torchio acceso, mostrando di portare dove va il fuoco, che consuma e distrugge ogni cosa.
Mentre che io mi stava così passando tempo, venuto l'anno 1548, don Giovan Benedetto da Mantoa, abate di Santa Fiore e Lucilla monasterio de' monaci neri cassinensi, dilettandosi infinitamente delle cose di pittura et essendo molto mio amico, mi pregò che io volessi fargli nella testa di uno loro refettorio un Cenacolo, o altra cosa simile. Onde risolutomi a compiacerli, andai pensando di farvi alcuna cosa fuor dell'uso comune, e così mi risolvei insieme con quel buon padre a farvi le nozze della reina Ester con il re Assuero, et il tutto in una tavola a olio, lunga quindici braccia, ma prima metterla in sul luogo, e quivi poi lavorarla; il qual modo (e lo posso io affermare, che l'ho provato) è quello che si vorrebbe veramente tenere a volere che avessono le pitture i suoi proprii e veri lumi, perciò che infatti il lavorare a basso, o in altro luogo che in sul proprio dove hanno da stare, fa mutare alle pitture i lumi, l'ombre e molte altre proprietà. In quest'opera adunque mi sforzai di mostrare maestà e grandezza, comeché io non possa far giudizio se mi venne fatto o no; so bene che il tutto disposi in modo, che con assai bell'ordine si conoscono tutte le maniere de' serventi, paggi, scudieri, soldati della guardia, bottiglieria, credenza, musici, et un nano, et ogni altra cosa che a reale e magnifico convito è richiesta. Vi si vede fra gl'altri lo scalco condurre le vivande in tavola, accompagnato da buon numero di paggi vestiti a livrea, et altri scudieri e serventi. Nelle teste della tavola, che è aovata, sono signori et altri gran personaggi e cortigiani che in piedi stanno, come s'usa, a vedere il convito. Il re Assuero stando a mensa come re altero et innamorato sta tutto appoggiato sopra il braccio sinistro, che porge una tazza di vino alla reina, et in atto veramente regio et onorato. Insomma se io avessi a credere quello che allora sentii dirne al popolo, e sento ancora da chiunche vede quest'opera, potrei credere d'aver fatto qualcosa, ma io so da vantaggio come sta la bisogna, e quello che arei fatto se la mano avesse ubidito a quello che io m'era concetto nell'idea. Tuttavia vi misi (questo posso confessare liberamente) studio e diligenza. Sopra l'opera viene nel peduccio d'una volta un Cristo che porge a quella regina una corona di fiori, e questo è fatto in fresco, e vi fu posto per accennare il concetto spirituale della istoria, per la quale si denotava che repudiata l'antica sinagoga Cristo sposava la nuova chiesa de' suoi fedeli cristiani.
Feci in questo medesimo tempo il ritratto di Luigi Guicciardini, fratello di Messer Francesco che scrisse la Storia, per essermi detto Messer Luigi amicissimo et avermi fatto quell'anno, come mio amorevole compare, essendo commensario d'Arezzo, una grandissima tenuta di terre, dette Frassineto in Valdichiana; il che è stata la salute et il maggior bene di casa mia, e sarà de' miei successori, sì come spero, se non mancheranno a loro stessi. Il quale ritratto, che è appresso gl'eredi di detto Messer Luigi, si dice essere il migliore e più somigliante, d'infiniti che n'ho fatti. Né de' ritratti fatti da me che pur sono assai farò menzione alcuna, che sarebbe cosa tediosa; e per dire il vero, me ne sono difeso quanto ho potuto di farne. Questo finito, dipinsi a fra' Mariotto da Castiglioni aretino, per la chiesa di San Francesco di detta terra, in una tavola la Nostra Donna, Santa Anna, San Francesco e San Salvestro. E nel medesimo tempo disegnai al cardinal di Monte, che poi fu papa Giulio Terzo, molto mio patrone, il quale era allora legato di Bologna, l'ordine e pianta d'una gran coltivazione, che poi fu messa in opera a' piè del Monte San Savino, sua patria, dove fui più volte d'ordine di quel signore, che molto si dilettava di fabricare. Andato poi, finite che ebbi quest'opere, a Fiorenza, feci quella state, in un segno da portare a processione della Compagnia di San Giovanni de' Peducci d'Arezzo, esso Santo che predica alle turbe da una banda, e dall'altra il medesimo che battezza Cristo, la qual pittura avendo sùbito che fu finita mandata nelle mie case d'Arezzo, perché fusse consegnata agl'uomini di detta Compagnia, avvenne che passando per Arezzo monsignor Giorgio cardinale d'Armignach franzese, vide, nell'andare per altro a vedere la mia casa, il detto segno, o vero stendardo; per che, piacciutogli, fece ogni opera d'averlo, offerendo gran prezzo, per mandarlo al re di Francia, ma io non volli mancar di fede a chi me l'aveva fatto fare, perciò che se bene molti dicevano che n'arei potuto fare un altro, non so se mi fusse venuto fatto così bene e con pari diligenza.
E non molto dopo feci per Messer Anibale Caro, secondo che mi aveva richiesto molto innanzi per una sua lettera che è stampata, in un quadro Adone che muore in grembo a Venere, secondo l'invenzione di Teocrito, la quale opera fu poi, e quasi contra mia voglia, condotta in Francia e data a Messer Albizo del Bene, insieme con una Psiche che sta mirando con una lucerna Amore che dorme, e si sveglia avendolo cotto una favilla di essa lucerna. Le quali tutte figure ignude e grandi quanto il vivo furono cagione che Alfonso di Tommaso Cambi giovanetto allora bellissimo, letterato, virtuoso e molto cortese e gentile, si fece ritrarre ignudo, e tutto intero, in persona d'uno Endimione cacciatore amato dalla Luna, la cui candidezza, et un paese all'intorno capriccioso, hanno il lume dalla chiarezza della luna, che fa nell'oscuro della notte una veduta assai propria e naturale, perciò che io m'ingegnai con ogni diligenza di contrafare i colori proprii che suol dare il lume di quella bianca giallezza della luna alle cose che percuote.
Dopo questo, dipinsi due quadri per mandare a Raugia: in uno la Nostra Donna e nell'altro una Pietà; et appresso a Francesco Botti in un gran quadro la Nostra Donna col Figliuolo in braccio e Giuseppo, il quale quadro, che io certo feci con quella diligenza che seppi maggiore, si portò seco in Ispagna. Forniti questi lavori andai l'anno medesimo a vedere il cardinale de' Monti a Bologna, dove era legato, e con esso dimorando alcuni giorni, oltre a molti altri ragionamenti, seppe così ben dire, e ciò con tante buone ragioni persuadermi, che io mi risolvei, stretto da lui, a far quello che insino allora non avea voluto fare, cioè a pigliare moglie, e così tolsi, come egli volle, una figliuola di Francesco Bacci nobile cittadino aretino. Tornato a Fiorenza feci un gran quadro di Nostra Donna, secondo un mio nuovo capriccio e con più figure, il quale ebbe Messer Bindo Altoviti, che perciò mi donò cento scudi d'oro, e lo condusse a Roma, dove è oggi nelle sue case. Feci oltre ciò nel medesimo tempo molti altri quadri, come a Messer Bernardetto de' Medici, a Messer Bartolomeo Strada fisico eccellente, et a altri miei amici, che non accade ragionarne.
Di que' giorni, essendo morto Gismondo Martelli in Fiorenza, et avendo lasciato per testamento che in S. Lorenzo alla cappella di quella nobile famiglia si facesse una tavola con la Nostra Donna et alcuni Santi, Luigi e Pandolfo Martelli, insieme con Messer Cosimo Bartoli, miei amicissimi, mi ricercarono che io facessi la detta tavola. Et avutone licenza dal signor duca Cosimo patrone e primo Operaio di quella chiesa, fui contento di farla, ma con facultà di potervi fare a mio capriccio alcuna cosa di S. Gismondo, alludendo al nome di detto testatore. La quale convenzione fatta, mi ricordai avere inteso che Filippo di ser Brunellesco architetto di quella chiesa avea data quella forma a tutte le cappelle, acciò in ciascuna fusse fatta, non una piccola tavola, ma alcuna storia o pittura grande, che empiesse tutto quel vano. Per che, disposto a volere in questa parte seguire la volontà et ordine del Brunellesco, più guardando all'onore che al picciol guadagno che di quell'opera destinata a far una tavola piccola e con poche figure potea trarre, feci in una tavola larga braccia dieci et alta tredici la storia, o vero martirio di San Gismondo re, cioè quando egli, la moglie e due figliuoli furono gettati in un pozzo da un altro re, o vero tiranno, e feci che l'ornamento di quella cappella, il quale è mezzo tondo, mi servisse per vano della porta d'un gran palazzo, rustica, per la quale si avesse la veduta del cortile quadro, sostenuto da pilastri e colonne doriche, e finsi che per lo straforo di quella si vedesse nel mezzo un pozzo a otto facce, con salita intorno di gradi, per i quali salendo i ministri, portassono a gettare detti due figliuoli nudi nel pozzo; et intorno nelle logge dipinsi popoli che stanno da una parte a vedere quell'orrendo spettacolo, e nell'altra, che è la sinistra, feci alcuni masnadieri, i quali avendo presa con fierezza la moglie del re, la portano verso il pozzo per farla morire. Et in sulla porta principale feci un gruppo di soldati che legano San Gismondo, il quale con attitudine relassata e paziente mostra patir ben volentieri quella morte e martirio, e sta mirando in aria quattro Angeli che gli mostrano le palme e corone del martirio, sue, della moglie e de' figliuoli, la qual cosa pare che tutto il riconforti e consoli. Mi sforzai similmente di mostrare la crudeltà e fierezza dell'empio tiranno, che sta in sul pian del cortile di sopra a vedere quella sua vendetta e la morte di San Gismondo. Insomma, quanto in me fu, feci ogni opera che in tutte le figure fussero più che si può i proprii affetti e convenienti attitudini e fierezze, e tutto quello si richiedeva; il che quanto mi riuscisse, lascerò ad altri farne giudizio. Dirò bene che io vi misi quanto potei e seppi di studio, fatica e diligenza. Intanto disiderando il signor duca Cosimo che il libro delle vite, già condotto quasi al fine, con quella maggior diligenza che a me era stato possibile e con l'aiuto d'alcuni miei amici, si desse fuori et alle stampe, lo diedi a Lorenzo Torrentino impressor ducale, e così fu cominciato a stamparsi. Ma non erano anche finite le teoriche, quando, essendo morto papa Paulo Terzo, cominciai a dubitare d'avermi a partire di Fiorenza, prima che detto libro fusse finito di stampare. Perciò che andando io fuor di Fiorenza ad incontrare il cardinal di Monte, che passava per andare al Conclavi, non gli ebbi sì tosto fatto riverenza et alquanto ragionato, che mi disse: "Io vo a Roma, et al sicuro sarò papa. Spedisciti, se hai che fare, e subito, avuto la nuova, vientene a Roma sanza aspettare altri avvisi o d'essere chiamato". Né fu vano cotal pronostico, però che essendo quel carnovale in Arezzo, e dandosi ordine a certe feste e mascherate, venne nuova che il detto cardinale era diventato Giulio Terzo, per che montato subito a cavallo venni a Fiorenza, donde, sollecitato dal Duca, andai a Roma per esservi alla coronazione di detto nuovo Pontefice et al fare dell'apparato.
E così giunto in Roma e scavalcato a casa Messer Bindo, andai a far reverenza e baciare il piè a Sua Santità il che fatto, le prime parole che mi disse furono il ricordarmi che quello che mi aveva di sé pronosticato non era stato vano. Poi dunque che fu coronato e quietato alquanto, la prima cosa che volle si facesse si fu sodisfare a un obligo, che aveva alla memoria di Messer Antonio vecchio e primo cardinal di Monte, d'una sepoltura da farsi a S. Piero a Montorio. Della quale fatti i modelli e disegni, fu condotta di marmo, come in altro luogo s'è detto pienamente, et in tanto io feci la tavola di quella cappella, dove dipinsi la conversione di S. Paulo: ma per variare da quello che avea fatto il Buonarruoto nella Paulina, feci S. Paulo, come egli scrive, giovane che già cascato da cavallo è condotto dai soldati ad Anania cieco, dal quale per imposizione delle mani riceve il lume degl'occhi perduto et è battezzato. Nella quale opera, o per la strettezza del luogo, o altro che ne fusse cagione, non sodisfeci interamente a me stesso, se bene forse ad altri non dispiacque, et in particolare a Michelagnolo.
Feci similmente a quel Pontefice un'altra tavola per una cappella del palazzo, ma questa, per le cagioni dette altra volta, fu poi da me condotta in Arezzo e posta in Pieve all'altar maggiore. Ma quando né in questa, né in quella già detta di S. Piero a Montorio, io non avessi pienamente sodisfatto né a me, né ad altri, non sarebbe gran fatto, imperò che, bisognandomi essere continuamente alla voglia di quel Pontefice, era sempre in moto, o vero occupato in far disegni d'architettura, e massimamente essendo io stato il primo che disegnasse e facesse tutta l'invenzione della vigna Iulia, che egli fece fare con spesa incredibile, la quale se bene fu poi da altri essequita, io fui nondimeno quegli che misi sempre in disegno i capricci del Papa, che poi si diedero a rivedere e correggere a Michelagnolo; et Iacopo Barozzi da Vignuola finì con molti suoi disegni le stanze, sale et altri molti ornamenti di quel luogo. Ma la fonte bassa fu d'ordine mio e dell'Amannato, che poi vi restò e fece la loggia che è sopra la fonte. Ma in quell'opera non si poteva mostrare quello che altri sapesse, né far alcuna cosa pel verso, perciò che venivano di mano in mano a quel Papa nuovi capricci, i quali bisognava metter in essecuzione, secondo che ordinava giornalmente Messer Piergiovanni Aliotti, vescovo di Forlì.
In quel mentre, bisognandomi l'anno 1550 venire per altro a Fiorenza ben due volte, la prima finii la tavola di San Gismondo, la quale venne il Duca a vedere in casa Messer Ottaviano de' Medici dove la lavorai, e gli piacque di sorte, che mi disse, finite le cose di Roma, me ne venissi a Fiorenza al suo servizio, dove mi sarebbe ordinato quello avessi da fare. Tornato dunque a Roma e dato fine alle dette opere cominciate, e fatta una tavola all'altar maggiore della Compagnia della Misericordia di un San Giovanni decollato, assai diverso dagl'altri che si fanno comunemente, la quale posi su l'anno 1553, me ne volea tornare, ma fui forzato, non potendogli mancare, a fare a Messer Bindo Altoviti due logge grandissime di stucchi et a fresco. Una delle quali dipinsi alla sua vigna con nuova architettura, perché essendo la loggia tanto grande che non si poteva senza pericolo girarvi le volte, le feci fare con armadure di legname, di stuoie, di canne, sopra le quali si lavorò di stucco, e dipinse a fresco come se fussero di muraglia, e per tale appariscono e son credute da chiunque le vede, e son rette da molti ornamenti di colonne di mischio, antiche e rare; e l'altra nel terreno della sua casa in ponte, piena di storie a fresco. E dopo per lo palco d'una anticamera quattro quadri grandi a olio delle quattro stagioni dell'anno, e questi finiti fui forzato ritrarre per Andrea della Fonte mio amicissimo una sua donna di naturale, e con esso gli diedi un quadro grande d'un Cristo che porta la croce, con figure naturali, il quale aveva fatto per un parente del Papa, al quale non mi tornò poi bene di donarlo. Al vescovo di Vasona feci un Cristo morto tenuto da Niccodemo e da due Angeli, et a Pierantonio Bandini una Natività di Cristo col lume della notte e con varia invenzione.
Mentre io faceva quest'opere e stava pure a vedere quello che il Papa disegnasse di fare, vidi finalmente che poco si poteva da lui sperare, e che in vano si faticava in servirlo. Per che, non ostante che io avessi già fatto i cartoni per dipignere a fresco la loggia che è sopra la fonte di detta vigna, mi risolvei a volere per ogni modo venire a servire il duca di Fiorenza; massimamente, essendo a ciò fare sollecitato da Messer Averardo Serristori e dal vescovo de' Ricasoli, ambasciatori in Roma di sua eccellenza, e con lettere da Messer Sforza Almeni suo coppiere e primo cameriere.
Essendo dunque trasferitomi in Arezzo, per di lì venirmene a Fiorenza, fui forzato fare a monsignor Minerbetti vescovo di quella città, come a mio signore et amicissimo, in un quadro, grande quanto il vivo, la Pacienza, in quel modo che poi se n'è servito per impresa e riverso della sua medaglia il signor Ercole duca di Ferrara. La quale opera finita, venni a baciar la mano al signor duca Cosimo, dal quale fui per sua benignità veduto ben volentieri; et in tanto che s'andò pensando a che primamente io dovessi por mano, feci fare a Cristofano Gherardi dal Borgo con miei disegni la facciata di Messer Sforza Almeni di chiaro scuro, in quel modo e con quelle invenzioni che si son dette in altro luogo distesamente. E perché in quel tempo mi trovavo essere de' signori priori della città di Arezzo, ofizio che governa la città, fui con lettere del signor Duca chiamato al suo servizio et assoluto da quello obligo; e venuto a Fiorenza trovai che sua eccellenza aveva cominciato quell'anno a murare quell'appartamento del suo palazzo che è verso la piazza del Grano con ordine del Tasso intagliatore et allora architetto del palazzo; ma era stato posto il tetto tanto basso, che tutte quelle stanze avevano poco sfogo et erano nane affatto, ma perché l'alzare i cavagli et il tetto era cosa lunga, consigliai che si facesse uno spartimento e ricinto di travi con sfondati grandi di braccia due e mezzo fra i cavagli del tetto, e con ordine di mensole per lo ritto che facessono fregiatura circa a due braccia sopra le travi; la qual cosa piacendo molto a sua eccellenza, diede ordine subito che così si facesse, e che il Tasso lavorasse i legnami et i quadri, dentro ai quali si aveva a dipignere la geneologia degli dei, per poi seguitare l'altre stanze.
Mentre dunque che si lavoravano i legnami di detti palchi, avuto licenza dal Duca, andai a starmi due mesi fra Arezzo e Cortona, parte per dar fine ad alcuni miei bisogni e parte per fornire un lavoro in fresco cominciato in Cortona nelle facciate e volta della Compagnia del Gesù. Nel qual luogo feci tre istorie della vita di Gesù Cristo, e tutti i sacrificii stati fatti a Dio nel Vecchio Testamento da Caino et Abel infino a Nemia profeta, dove anche in quel mentre accomodai di modelli e disegni la fabrica della Madonna Nuova fuor della città. La quale opera del Gesù finita, tornai a Fiorenza con tutta la famiglia l'anno 1555, al servizio del duca Cosimo; dove cominciai e finii i quadri e le facciate et il palco di detta sala di sopra chiamata degli Elementi, facendo nei quadri, che sono undici, la castrazione di Cielo per l'Aria, et in un terrazzo a canto a detta sala feci nel palco i fatti di Saturno e di Opi, e poi nel palco d'un'altra camera grande tutte le cose di Cerere e Proserpina; in una camera maggiore, che è allato a questa, similmente nel palco, che è ricchissimo, istorie della dea Berecinzia e di Cibele col suo trionfo e le 4 stagioni, e nelle facce tutti e dodici mesi. Nel palco d'un'altra, non così ricca, il nascimento di Giove, il suo essere nutrito dalla capra Alfea, col rimanente dell'altre cose di lui più segnalate. In un altro terrazzo a canto alla medesima stanza, molto ornato di pietre e di stucchi, altre cose di Giove e Giunone. E finalmente nella camera che segue il nascere d'Ercole con tutte le sue fatiche, e quello che non si poté mettere nel palco si mise nelle fregiature di ciascuna stanza, o si è messo ne' panni d'arazzo che il signor Duca ha fatto tessere con mia cartoni a ciascuna stanza, corrispondenti alle pitture delle facciate in alto. Non dirò delle grottesche, ornamenti e pitture di scale, né altre molte minuzie fatte di mia mano in quello apparato di stanze, perché oltre che spero se n'abbia a fare altra volta più lungo ragionamento, le può vedere ciascuno a sua voglia e darne giudizio. Mentre di sopra si dipignevano queste stanze, si murarono l'altre che sono in sul piano della sala maggiore e rispondono a queste per dirittura a piombo, con gran comodi di scale publiche e secrete che vanno dalle più alte alle più basse abitazioni del palazzo.
Morto intanto il Tasso, il Duca, che aveva grandissima voglia che quel palazzo, stato murato a caso et in più volte in diversi tempi e più a comodo degl'ufiziali che con alcuno buon ordine, si correggesse, si risolvé a volere che per ogni modo, secondo che possibile era, si rassettasse, e la sala grande col tempo si dipignesse, et il Bandinello seguitasse la cominciata udienza. Per dunque accordare tutto il palazzo insieme, cioè il fatto con quello che s'aveva da fare, mi ordinò che io facessi più piante e disegni, e finalmente, secondo che alcune gl'erano piaciute, un modello di legname, per meglio potere a suo senno andare accomodando tutti gl'appartamenti, e dirizzare e mutar le scale vecchie che gli parevano erte, mal considerate e cattive. Alla qual cosa, ancor che impresa difficile e sopra le forze mi paresse, misi mano, e condussi, come seppi il meglio, un grandissimo modello, che è oggi appresso sua eccellenza, più per ubbidirla che con speranza mi avesse da riuscire. Il quale modello, finito che fu, o fusse sua o mia ventura, o il disiderio grandissimo che io aveva di sodisfare, gli piacque molto; per che, dato mano a murare, a poco a poco si è condotto, facendo ora una cosa e quando un'altra, al termine che si vede. Et in tanto che si fece il rimanente, condussi con ricchissimo lavoro di stucchi in varii spartimenti le prime otto stanze nuove, che sono in sul piano della gran sala, fra salotti, camere et una cappella, con varie pitture et infiniti ritratti di naturale che vengono nelle istorie, cominciando da Cosimo Vecchio, e chiamando ciascuna stanza dal nome d'alcuno disceso da lui grande e famoso. In una adunque sono l'azzioni del detto Cosimo più notabili, e quelle virtù che più furono sue proprie, et i suoi maggiori amici e servitori, col ritratto de' figliuoli, tutti di naturale; e così sono insomma quella di Lorenzo Vecchio, quella di papa Leone suo figliuolo, quella di papa Clemente, quella del signor Giovanni padre di sì gran Duca, quella di esso signor duca Cosimo. Nella cappella è un bellissimo e gran quadro di mano di Raffaello da Urbino, in mezzo a S. Cosimo e Damiano mie pitture, nei quali è detta cappella intitolata; così delle stanze poi di sopra dipinte alla signora duchessa Leonora, che sono quattro, sono azzioni di donne illustri, greche, ebree, latine e toscane, a ciascuna camera una di queste; perché oltre che altrove n'ho ragionato, se ne dirà pienamente nel Dialogo che tosto daremo in luce, come s'è detto, che il tutto qui raccontare sarebbe stato troppo lungo. Delle quali mie fatiche ancora che continue, difficili e grandi, ne fui dalla magnanima liberalità di sì gran Duca, oltre alle provisioni, grandemente e largamente rimunerato con donativi, e di case onorate e comode in Fiorenza et in villa, perché io potessi più agiatamente servirlo; oltre che nella patria mia d'Arezzo mi ha onorato del supremo magistrato del Gonfalonieri et altri ufizii con facultà che io possa sostituire in quegli un de' cittadini di quel luogo, senza che a ser Piero mio fratello ha dato in Fiorenza ufizi d'utile, e parimente a' mia parenti d'Arezzo favori eccessivi, là dove io non sarò mai per le tante amorevolezze sazio di confessar l'obligo che io tengo con questo signore.
E tornando all'opere mie dico che pensò questo eccellentissimo signore di mettere ad esecuzione un pensiero avuto già gran tempo, di dipignere la sala grande, concetto degno della altezza e profondità dell'ingegno suo, né so se, come dicea, credo burlando meco, perché pensava certo che io ne caverei le mani, et a' dì suoi la vederebbe finita, o pur fusse qualche altro suo segreto, e, come sono stati tutti e' suoi, prudentissimo giudizio. L'effetto insomma fu che mi commesse che si alzassi i cavalli et il tetto più di quel che gl'era braccia tredici, e si facessi il palco di legname, e si mettessi d'oro, e dipignessi pien di storie a olio: impresa grandissima, importantissima e se non sopra l'animo forse sopra le forze mie; ma o che la fede di quel gran signore, e la buona fortuna che gl'ha in tutte le cose, mi facessi da più di quel che io sono, o che la speranza e l'occasione di sì bel suggetto mi agevolassi molto di facultà, o che (e questo dovevo preporre a ogn'altra cosa) la grazia di Dio mi somministrassi le forze, io la presi. E come si è veduto la condussi contra l'openione di molti in molto manco tempo, non solo che io avevo promesso e che meritava l'opera, ma neanche io, o pensassi mai sua eccellenza illustrissima. Ben mi penso che ne venissi maravigliata e sodisfattissima, perché venne fatta al maggior bisogno et alla più bella occasione che gli potessi occorrere, e questa fu, acciò si sappia la cagione di tanta sollecitudine, che avendo prescritto il maritaggio che si trattava dello illustrissimo Principe nostro con la figliuola del passato Imperatore, e sorella del presente, mi parve debito mio far ogni sforzo che in tempo et occasione di tanta festa, questa che era la principale stanza del palazzo, e dove si avevano a far gli atti più importanti, si potessi godere. E qui lascerò pensare non solo a chi è dell'arte, ma a chi è fuora ancora pur che abbi veduto la grandezza e varietà di quell'opera, la quale occasione terribilissima e grande, doverrà scusarmi se io non avessi per cotal fretta satisfatto pienamente in una varietà così grande di guerre in terra et in mare, espugnazioni di città, batterie, assalti, scaramuccie, edificazioni di città, consigli publici, cerimonie antiche e moderne, trionfi, e tante altre cose che non che altro gli schizzi, disegni e cartoni di tanta opera richiedevano lunghissimo tempo, per non dir nulla de' corpi ignudi, nei quali consiste la perfezzione delle nostre arti, né de' paesi dove furono fatte le dette cose dipinte, i quali ho tutti avuto a ritrarre di naturale in sul luogo e sito proprio, sì come ancora ho fatto molti capitani generali, soldati et altri capi che furono in quelle imprese che ho dipinto. Et insomma ardirò dire che ho avuto occasione di fare in detto palco quasi tutto quello che può credere pensiero e concetto d'uomo, varietà di corpi, visi, vestimenti, abigliamenti, celate, elmi, corazze, acconciature di capi diverse, cavalli, fornimenti, barde, artiglierie d'ogni sorte, navigazioni, tempeste, pioggie, nevate, e tante altre cose che io non basto a ricordarmene, ma chi vede quest'opera può agevolmente immaginarsi quante fatiche e quante vigilie abbia sopportato in fare con quanto studio ho potuto maggiore, circa quaranta storie grandi, et alcune di loro in quadri di braccia dieci per ogni verso, con figure grandissime, et in tutte le maniere. E se bene mi hanno alcuni de' giovani miei creati aiutato, mi hanno alcuna volta fatto commodo et alcuna no. Perciò che ho avuto tallora, come sanno essi, a rifare ogni cosa di mia mano, e tutta ricoprire la tavola, perché sia d'una medesima maniera. Le quali storie dico trattano delle cose di Fiorenza, dalla sua edificazione insino a oggi, la divisione in quartieri, le città sottoposte, nemici superati, città soggiogate, et in ultimo il principio e fine della guerra di Pisa, da uno de' lati, e dall'altro il principio similmente e fine di quella di Siena; una dal governo popolare condotta et ottenuta nello spazio di quattordici anni, e l'altra dal Duca in quattordici mesi, come si vedrà; oltre quello che è nel palco, e sarà nelle facciate, che sono ottanta braccia lunghe ciascuna et alte venti, che tuttavia vo dipignendo a fresco, per poi anco di ciò poter ragionare in detto Dialogo.
Il che tutto ho voluto dire in fin qui non per altro che per mostrare con quanta fatica mi sono adoperato et adopero tuttavia nelle cose dell'arte, e con quante giuste cagioni potrei scusarmi, dove in alcuna avessi (che credo avere in molte) mancato. Aggiugnerò anco, che quasi nel medesimo tempo, ebbi carico di disegnare tutti gl'archi da mostrarsi a sua eccellenza per determinare l'ordine tutto, e poi mettere gran parte in opera, e far finire il già detto grandissimo apparato, fatto in Fiorenza per le nozze del signor principe illustrissimo: di far fare con miei disegni in dieci quadri, alti braccia quattordici l'uno et undici larghi, tutte le piazze delle città principali del dominio, tirate in prospettiva, con i loro primi edificatori et insegne, oltre di far finire la testa di detta sala, cominciata dal Bandinello; di far fare nell'altra una scena, la maggiore e più ricca che fusse da altri fatta mai, e finalmente di condurre le scale principali di quel palazzo, i loro ricetti, et il cortile, e colonne in quel modo che sa ognuno e che si è detto di sopra, con quindici città dell'imperio e del Tiruolo, ritratte di naturale in tanti quadri.
Non è anche stato poco il tempo che ne' medesimi tempi ho messo in tirare innanzi, da che prima la cominciai, la loggia e grandissima fabrica de' magistrati, che volta sul fiume d'Arno, della quale non ho mai fatto murare altra cosa più difficile, né più pericolosa, per essere fondata in sul fiume e quasi in aria. Ma era necessaria, oltre all'altre cagioni, per appiccarvi, come si è fatto, il gran corridore, che attraversando il fiume, va dal palazzo ducale al palazzo e giardino de' Pitti. Il quale corridore fu condotto in cinque mesi con mio ordine e disegno ancor che sia opera da pensare che non potesse condursi in meno di cinque anni. Oltre che anco fu mia cura il far rifare, per le medesime nozze, et accrescere nella tribuna maggiore di Santo Spirito i nuovi ingegni della festa che già si faceva in San Felice in Piazza, il che tutto fu ridotto a quella perfezzione che si poteva maggiore, onde non si corrono più di que' pericoli che già si facevano in detta festa.
È stata similmente mia cura l'opera del palazzo e chiesa de' cavalieri di Santo Stefano in Pisa, e la tribuna, o vero cupola della Madonna dell'Umiltà in Pistoia, che è opera importantissima. Di che tutto, senza scusare la mia imperfezzione, la quale conosco da vantaggio se cosa ho fatto di buono, rendo infinite grazie a Dio, dal quale spero avere anco tanto d'aiuto che io vedrò quando che sia finita la terribile impresa delle dette facciate della sala, con piena sodisfazione de' miei signori, che già, per ispazio di tredici anni, mi hanno dato occasione di grandissime cose, con mio onore et utile operare, per poi, come stracco, logoro et invecchiato riposarmi. E se le cose dette, per la più parte, ho fatto con qualche fretta e prestezza, per diverse cagioni, questa spero io di fare con mio commodo, poi che il signor Duca si contenta che io non la corra, ma la faccia con agio, dandomi tutti quei riposi e quelle ricreazioni che io medesimo so disiderare.
Onde l'anno passato, essendo stracco per le molte opere sopra dette, mi diede licenza che io potessi alcuni mesi andare a spasso, per che messomi in viaggio cercai poco meno che tutta Italia, rivedendo infiniti amici, e miei signori, e l'opere di diversi eccellenti artefici, come ho detto di sopra ad altro proposito. In ultimo essendo in Roma per tornarmene a Fiorenza, nel baciare i piedi al santissimo e beatissimo papa Pio Quinto, mi comise che io gli facessi in Fiorenza una tavola per mandarla al suo convento e chiesa del Bosco, ch'egli faceva tuttavia edificare nella sua patria, vicino ad Alessandria della Paglia. Tornato dunque a Fiorenza, e per averlomi Sua Santità comandato, e per le molte amorevolezze fattemi, gli feci, sì come avea commessomi, in una tavola l'Adorazione de' Magi, la quale come seppe essere stata da me condotta a fine, mi fece intendere che per sua contentezza e per conferirmi alcuni suoi pensieri, io andassi con la detta tavola a Roma, ma sopra tutto per discorrere sopra la fabrica di San Piero, la quale mostra di avere a cuore sommamente. Messomi dunque a ordine con cento scudi, che per ciò mi mandò, e mandata innanzi la tavola, andai a Roma. Dove, poi che fui dimorato un mese, et avuti molti ragionamenti con Sua Santità, e consigliatolo a non permettere che s'alterasse l'ordine del Buonarruoto nella fabrica di San Piero, e fatti alcuni disegni, mi ordinò che io facessi per l'altar maggiore della detta sua chiesa del Bosco, e non una tavola, come s'usa comunemente, ma una machina grandissima quasi a guisa d'arco trionfale, con due tavole grandi, una dinanzi et una di dietro, et in pezzi minori circa trenta storie piene di molte figure che tutte sono a bonissimo termine condotte. Nel qual tempo ottenni graziosamente da Sua Santità (mandandomi con infinita amorevolezza e favore le bolle espedite gratis) la erezione d'una cappella e decanato nella Pieve d'Arezzo, che è la cappella maggiore di detta Pieve, con mio padronato e della casa mia, dotata da me e di mia mano dipinta, et offerta alla bontà divina per una ricognizione (ancor che minima sia) del grande obligo c'ho con sua maiestà per infinite grazie e benefizii che s'è degnato farmi. La tavola della quale, nella forma, è molto simile alla detta di sopra; il che è stato anche cagione in parte di ridurlami a memoria, perché è isolata et ha similmente due tavole, una già tocca di sopra nella parte dinanzi, et una della istoria di S. Giorgio di dietro, messe in mezzo da quadri con certi Santi, e sotto in quadretti minori l'istorie loro che di quanto è sotto l'altare in una bellissima tomba i corpi loro con altre reliquie principali della città. Nel mezzo viene un tabernacolo assai bene accomodato per il Sacramento, perché corrisponde a l'uno e l'altro altare, abellito di istorie del Vecchio e Nuovo Testamento, tutte approposito di quel misterio, come in parte s'è ragionato altrove. Mi era anche scordato di dire che l'anno innanzi, quando andai la prima volta a baciargli i piedi, feci la via di Perugia, per mettere a suo luogo tre gran tavole fatte ai monaci neri di San Piero in quella città, per un loro refettorio. In una cioè quella del mezzo sono le nozze di Cana Galilea, nelle quali Cristo fece il miracolo di convertire l'acqua in vino. Nella seconda da man destra è Eliseo profeta, che fa diventar dolce con la farina l'amarissima olla, i cibi della quale guasti dalle coloquinte i suoi Profeti non potevano mangiare; e nella terza è S. Benedetto, al quale annunziando un converso, in tempo di grandissima carestia e quando a punto mancava da vivere ai suoi monaci, che sono arrivati alcuni camelli carichi di farina alla porta, e' vede che gl'Angeli di Dio gli conducevano miracolosamente grandissima quantità di farina. Alla signora Gentilina, madre del signor Chiappino e signor Paulo Vitelli, dipinsi in Fiorenza, e di lì le mandai a Città di Castello, una gran tavola, in cui è la coronazione di Nostra Donna, in alto un ballo d'Angeli, et a basso molte figure maggiori del vivo, la qual tavola fu posta in San Francesco di detta città.
Per la chiesa del Poggio a Caiano, villa del signor Duca, feci in una tavola Cristo morto in grembo alla madre, San Cosimo e San Damiano che lo contemplano, et un Angelo in aria, che piangendo mostra i misterii della Passione di esso Nostro Salvatore. E nella chiesa del Carmine di Fiorenza fu posta, quasi ne' medesimi giorni, una tavola di mia mano nella cappella di Matteo e Simon Botti, miei amicissimi, nella quale è Cristo crucifisso, la Nostra Donna, San Giovanni e la Madalena, che piangono. Dopo a Iacopo Capponi feci, per mandare in Francia, due gran quadri: in uno è la Primavera e nell'altro l'Autunno, con figure grandi e nuove invenzioni; et in un altro quadro maggiore un Cristo morto sostenuto da due Angeli e Dio Padre in alto. Alle monache di Santa Maria Novella d'Arezzo mandai, pur di que' giorni, o poco avanti, una tavola, dentro la quale è la Vergine annunziata dall'Angelo, e dagli lati due Santi; et alle monache di Luco di Mugello, dell'Ordine di Camaldoli, un'altra tavola, che è nel loro coro di dentro, dove è Cristo crucifisso, la Nostra Donna, San Giovanni e Maria Madalena.
A Luca Torrigiani molto mio amorevolissimo e domestico, il quale desiderando, fra molte cose che ha dell'arte nostra, avere una pittura di mia mano propria, per tenerla appresso di sé, gli feci in un gran quadro Venere ignuda, con le tre Grazie attorno, che una gli acconcia il capo, l'altra gli tiene lo specchio e l'altra versa acqua in un vaso per lavarla; la qual pittura m'ingegnai condurla col maggiore studio e diligenza che io potei, sì per contentare non meno l'animo mio, che quello di sì caro e dolce amico. Feci ancora a Antonio de' Nobili generale depositario di sua eccellenza e molto mio affezionato, oltre a un suo ritratto, sforzato contro alla natura mia di farne, una testa di Gesù Cristo, cavata dalle parole che Lentulo scrive della effigie sua, che l'una e l'altra fu fatta con diligenzia; e parimente un'altra alquanto maggiore, ma simile alla detta al signor Mondragone, primo oggi appresso a don Francesco de' Medici principe di Fiorenza e Siena, quale donai a sua signoria per esser egli molto affezionato alle virtù e nostre arti, a cagione che e' possa ricordarsi quando la vede che io lo amo e gli sono amico.
Ho ancora fra mano che spero finirlo presto un gran quadro cosa capricciosissima che deve servire per il signore Antonio Montalvo signore della Sassetta, degnamente primo cameriere e più intrinseco al Duca nostro e tanto a me amicissimo e dolce domestico amico per non dir superiore, che se la mano mi servirà alla voglia ch'io tengo di lasciargli di mia mano un pegno della affezione che io le porto, si conoscerà quanto io lo onori et abbia caro che la memoria di sì onorato e fedel signore amato da me, viva ne' posteri, poiché egli volentieri si affatica e favorisce tutti e' begli ingegni di questo mestiero o che si dilettino del disegno.
Al signor principe don Francesco ho fatto ultimamente due quadri, che ha mandati a Tolledo in Ispagna a una sorella della signora duchessa Leonora sua madre, e per sé un quadretto piccolo a uso di minio, con quaranta figure fra grandi e piccole, secondo una sua bellissima invenzione. A Filippo Salviati ho finita, non ha molto, una tavola che va a Prato nelle suore di San Vincenzio, dove in alto è la Nostra Donna coronata, come allora giunta in cielo, et a basso gl'Apostoli intorno al sepolcro. Ai monaci neri della Badia di Fiorenza dipingo similmente una tavola, che è vicina al fine, d'una Assunzione di Nostra Donna, e gl'Apostoli in figure maggiori del vivo, con altre figure dalle bande, e storie et ornamenti intorno, in nuovo modo accomodati. E perché il signor Duca, veramente in tutte le cose eccellentissimo, si compiace non solo nell'edificazioni de' palazzi, città, fortezze, porti, logge, piazze, giardini, fontane, villaggi, et altre cose somiglianti, belle, magnifiche et utilissime, e comodo de' suoi popoli, ma anco sommamente in far di nuovo e ridurre a miglior forma e più bellezza, come catolico prencipe, i tempii e le sante chiese di Dio, a imitazione del gran re Salamone, ultimamente ha fattomi levare il tramezzo della chiesa di Santa Maria Novella, che gli toglieva tutta la sua bellezza, e fatto un nuovo coro e ricchissimo dietro l'altare maggiore, per levar quello che occupava nel mezzo gran parte di quella chiesa; il che fa parere quella una nuova chiesa bellissima, come è veramente. E perché le cose, che non hanno fra loro ordine e proporzione, non possono eziandio essere belle interamente, ha ordinato che nelle navate minori si facciano, in guisa che corrispondano al mezzo degl'archi, e fra colonna e colonna, ricchi ornamenti di pietre con nuova foggia, che servino con i loro altari in mezzo per cappelle e sieno tutte d'una o due maniere. E che poi nelle tavole che vanno dentro a' detti ornamenti, alte braccia sette e larghe cinque, si facciano le pitture a volontà e piacimento de' padroni di esse cappelle.
In uno dunque di detti ornamenti di pietra, fatti con mio disegno, ho fatto per monsignor reverendissimo Alessandro Strozzi vescovo di Volterra, mio vecchio et amorevolissimo padrone, un Cristo crucifisso, secondo la visione di Santo Anselmo, cioè con sette virtù, senza le quali non possiamo salire per sette gradi a Gesù Cristo, et altre considerazioni fatte dal medesimo maestro Andrea Pasquali, medico del signor Duca, ho fatto in uno di detti ornamenti la Ressurrezione di Gesù Cristo in quel modo che Dio mi ha inspirato, per compiacere esso maestro Andrea mio amicissimo. Il medesimo ha voluto che si faccia questo gran Duca nella chiesa grandissima di Santa Croce di Firenze: cioè che si lievi il tramezzo, si faccia il coro dietro l'altar maggiore, tirando esso altare alquanto innanzi e ponendovi sopra un nuovo ricco tabernacolo per lo Santissimo Sacramento, tutto ornato d'oro, di storie e di figure; et oltre ciò, che nel medesimo modo che si è detto di Santa Maria Novella, vi si faccino quattordici cappelle a canto al muro, con maggior spesa et ornamento che le su dette, per essere questa chiesa molto maggiore che quella. Nelle quali tavole, accompagnando le due del Salviati e Bronzino, ha da essere tutti i principali misterii del Salvatore dal principio della sua Passione insino a che manda lo Spirito Santo sopra gl'Apostoli. La quale tavola della missione dello Spirito Santo, avendo fatto il disegno delle cappelle et ornamenti di pietre, ho io fra mano per Messer Agnolo Biffoli generale tesauriere di questi signori e mio singolare amico. Ho finito non è molto due quadri grandi, che sono nel magistrato de' nove conservadori a canto a San Piero Scheraggio, in uno è la testa di Cristo e nell'altro una Madonna.
Ma perché troppo sarei lungo a volere minutamente raccontare molte altre pitture, disegni che non hanno numero, modelli e mascherate che ho fatto, e perché questo è a bastanza e da vantaggio, non dirò di me altro, se non che per grandi e d'importanza che sieno state le cose che ho messo sempre innanzi al duca Cosimo, non ho mai potuto aggiugnere, non che superare la grandezza dell'animo suo, come chiaramente vedrassi in una terza sagrestia, che vuol fare a canto a San Lorenzo, grande e simile a quella che già vi fece Michelagnolo, ma tutta di varii marmi mischi e musaico, per dentro chiudervi, in sepolcri onoratissimi e degni della sua potenza e grandezza, l'ossa de' suoi morti figliuoli, del padre, madre, della magnanima duchessa Leonora sua consorte e di sé. Di che ho io già fatto un modello a suo gusto, e secondo che da lui mi è stato ordinato, il quale mettendosi in opera farà questa essere un nuovo mausoleo magnificentissimo e veramente reale.
E fin qui basti aver parlato di me, condotto con tante fatiche nella età d'anni cinquantacinque, e per vivere quanto piacerà a Dio con suo onore et in servizio sempre delli amici e quanto le mie forze potranno in uno commodo et augumento di queste nobilissime arti.

FINE DELLA VITA DI G. V., PITTORE ET ARCHITETTO ARETINO



L'AUTORE AGL'ARTEFICI DEL DISEGNO

Onorati e nobili artefici, a pro e comodo de' quali principalmente io a così lunga fatica, la seconda volta messo mi sono, io mi veggio, col favore et aiuto della divina grazia, avere quello compiutamente fornito che io nel principio della presente mia fatica promisi di fare. Per la qual cosa Iddio primieramente et appresso i miei signori ringraziando, che mi hanno onde io abbia ciò potuto fare comodamente conceduto, è da dare alla penna et alla mente faticata riposo, il che farò tosto che arò detto alcune cose brievemente.
Se adunque paresse ad alcuno che, talvolta, in scrivendo fussi stato anzi lunghetto et alquanto prolisso, l'avere io voluto più che mi sia stato possibile essere chiaro, e davanti altrui mettere le cose in guisa, che quello che non s'è inteso, o io non ho saputo dire così alla prima, sia per ogni modo manifesto. E se quello che una volta si è detto è talora stato in altro luogo replicato, di ciò due sono state le cagioni: l'avere così richiesto la materia di cui si tratta, e l'avere io nel tempo che ho rifatta e si è l'opera ristampata, interrotto più d'una fiata per ispazio non dico di giorni, ma di mesi, lo scrivere, o per viaggi, o per soprabondanti fatiche, opere di pitture, disegni e fabriche; sanzaché a un par mio (il confesso liberamente) è quasi impossibile guardarsi da tutti gl'errori.
A coloro ai quali paresse che io avessi alcuni o vecchi o moderni troppo lodato, e che facendo comparazione da essi vecchi a quelli di questa età, se ne ridessero, non so che altro mi rispondere se non che intendo avere sempre lodato non semplicemente, ma, come s'usa dire, secondo che et avuto rispetto ai luoghi, tempi et altre somiglianti circonstanze; e nel vero, come che Giotto fusse, poniam caso, ne' suoi tempi lodatissimo, non so quello che di lui e d'altri antichi si fusse detto, se fussi stato al tempo del Buonarruoto; oltre che gl'uomini di questo secolo, il quale è nel colmo della perfezzione, non sarebbono nel grado che sono, se quelli non fussero prima stati tali e quel che furono innanzi a noi, et insomma credasi che quello che ho fatto in lodare, o biasimare, non l'ho fatto malagevolmente, ma solo per dire il vero, o quello che ho creduto che vero sia. Ma non si può sempre aver in mano la bilancia dell'orefice, e chi ha provato che cosa è lo scrivere, e massimamente dove si hanno a fare comparazioni, che sono di loro natura odiose, o dar giudizio, mi averà per iscusato.
E ben so io quante sieno le fatiche, i disagi et i danari che ho speso in molti anni dietro a quest'opera. E sono state tali e tante le difficultà che ci ho trovate, che più volte me ne sarei giù tolto per disperazione, se il soccorso di molti buoni e veri amici, ai quali sarò sempre obbligatissimo, non mi avessero fatto buon animo e confortatomi a seguitare, con tutti quegl'amorevoli aiuti che per loro si sono potuti, di notizie, e d'avisi, e riscontri di varie cose, delle quali, come che vedute l'avessi, io stava assai perplesso e dubbioso. I quali aiuti sono veramente stati sì fatti, che io ho potuto puramente scoprire il vero e dare in luce quest'opera, per ravvivare la memoria di tanti rari e pellegrini ingegni, quasi del tutto sepolta et a benefizio di que' che dopo noi verranno. Nel che fare mi sono stati, come altrove si è detto, di non piccolo aiuto gli scritti di Lorenzo Ghiberti, di Domenico Grillandai e di Raffaello da Urbino; ai quali se bene ho prestato fede, ho nondimeno sempre voluto riscontrare il lor dire con la veduta dell'opere, essendo che insegna la lunga pratica i solleciti dipintori a conoscere, come sapete, non altramente le varie maniere degl'artefici, che si faccia un dotto e pratico cancelliere i diversi e variati scritti de' suoi eguali, e ciascuno i caratteri de' suoi più stretti famigliari amici e congiunti. Ora, se io averò conseguito il fine che io ho desiderato, che è stato di giovare et insiememente dilettare, mi sarà sommamente grato, e quando sia altrimenti mi sarà di contento, o almeno alleggiamento di noia, aver durato fatica in cosa onorevole, che dee farmi degno appo i virtuosi di pietà, non che perdono.
Ma per venire al fine oggimai di sì lungo ragionamento, io ho scritto come pittore, e con quell'ordine e modo che ho saputo migliore; e quanto alla lingua in quella ch'io parlo, o fiorentina, o toscana ch'ella sia, et in quel modo che ho saputo più facile et agevole, lasciando gl'ornati e lunghi periodi, la scelta delle voci e gli altri ornamenti del parlare e scrivere dottamente a chi non ha come ho io più le mani ai pennelli che alla penna, e più il capo ai disegni che allo scrivere. E se ho seminati per l'opera molti vocaboli proprii delle nostre arti, dei quali non occorse per aventura servirsi ai più chiari e maggiori lumi della lingua nostra, ciò ho fatto per non poter far di manco, e per essere inteso da voi artefici, per i quali come ho detto mi sono messo principalmente a questa fatica.
Nel rimanente, avendo fatto quello che ho saputo, accettatelo volentieri, e da me non vogliate quel ch'io non so e non posso, appagandovi del buono animo mio, che è e sarà sempre di giovare e piacere altrui.
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