[Pagina precedente]...ornasse a suo piacere, perciò che nulla gli mancherebbe appresso di lui, il Vinci da queste cose invitato e dall'amore che a Luca portava, si risolvé a partirsi di Roma e per qualche tempo eleggere Pisa per sua stanza, dove stimava d'avere occasione d'esercitarsi e di fare sperienza della sua virtù. Venuto addunque in Pisa, trovò che 'l marmo era già nella stanza, acconcio secondo l'ordine di Luca, e cominciando a volerne cavare una figura in piè, s'avvedde che 'l marmo aveva un pelo, il quale lo scemava un braccio. Per lo che risoluto a voltarlo a giacere, fece un fiume giovane che tiene un vaso che getta acqua, et è il vaso alzato da tre fanciulli, i quali aiutano a versare l'acqua il fiume e sotto i piedi a lui molta copia d'acqua discorre, nella quale si veggono pesci guizzare et uccelli acquatici in varie parti volare. Finito questo fiume, il Vinci ne fece dono a Luca, il quale lo presentò alla Duchessa et a lei fu molto caro perché allora, essendo in Pisa don Grazzia di Tolledo suo fratello venuto con le galee, ella lo donò al fratello, il quale con molto piacere lo ricevette per le fonti del suo giardino di Napoli a Chiaia.
Scriveva in questo tempo Luca Martini sopra la Commedia di Dante alcune cose et avendo mostrata al Vinci la crudeltà descritta da Dante, la quale usorono i Pisani e l'arcivescovo Ruggeri contro al conte Ugolino della Gherardesca, facendo lui morire di fame con quattro suoi figliuoli nella torre, perciò cognominata della fame, porse occasione e pensiero al Vinci di nuova opera e di nuovo disegno. Però, mentre che ancora lavorava il sopra detto fiume, messe mano a fare una storia di cera per gettarla di bronzo alta più d'un braccio e larga tre quarti, nella quale fece due de' figliuoli del conte morti, uno in atto di spirare l'anima, uno che vinto dalla fame è presso all'estremo non pervenuto ancora all'ultimo fiato; il padre in atto pietoso e miserabile, cieco e di dolore pieno va brancolando sopra i miseri corpi de' figliuoli distesi in terra. Non meno in questa opera mostrò il Vinci la virtù del disegno che Dante ne' suoi versi mostrasse il valore della poesia, perché non men compassione muovono in chi riguarda gli atti formati nella cera dallo scultore, che faccino in chi ascolta gli accenti e le parole notate in carta, vive, da quel poeta. E per mostrare il luogo dove il caso seguì, fece da piè il fiume d'Arno che tiene tutta la larghezza della storia, perché poco discosto dal fiume è in Pisa la sopra detta torre; sopra la quale figurò ancora una vecchia ignuda, secca e paurosa, intesa per la Fame quasi nel modo che la descrive Ovidio. Finita la cera, gettò la storia di bronzo, la quale sommamente piacque, et in corte e da tutti fu tenuta cosa singulare.
Era il duca Cosimo allora intento a beneficare et abbellire la città di Pisa e già di nuovo aveva fatto fare la piazza del mercato con gran numero di botteghe intorno e nel mezzo messe una colonna alta dieci braccia sopra la quale per disegno di Luca doveva stare una statua in persona della Dovizia. Addunque il Martini, parlato col Duca e messogli innanzi il Vinci, ottenne che 'l Duca volentieri gli concesse la statua, desiderando sempre sua eccellenza d'aiutare i virtuosi e di tirare innanzi i buoni ingegni. Condusse il Vinci di trevertino la statua tre braccia e mezzo alta, la quale molto fu da ciascheduno lodata perché, avendole posto un fanciulletto a' piedi, che l'aiuta tenere il corno dell'abbondanza, mostra in quel sasso ancora che ruvido e malagevole, nondimeno morbidezza e molta facilità . Mandò di poi Luca a Carrara a far cavare un marmo cinque braccia alto e largo tre, nel quale il Vinci avendo già veduto alcuni schizzi di Michelagnolo d'un Sansone che ammazzava un Filisteo con la mascella d'asino, disegnò da questo suggetto fare a sua fantasia due statue di cinque braccia. Onde mentre che 'l marmo veniva, messosi a fare più modelli variati l'uno dall'altro, si fermò a uno e di poi venuto il sasso, a lavorarlo incominciò e lo tirò innanzi assai, immitando Michelagnolo nel cavare a poco a poco de' sassi il concetto suo e 'l disegno senza guastargli o farvi altro errore. Condusse in questa opera gli strafori sotto squadra e sopra squadra, ancora che laboriosi, con molta facilità , e la maniera di tutta l'opera era dolcissima. Ma perché l'opera era faticosissima, s'andava intrattenendo con altri studi e lavori di manco importanza, onde nel medesimo tempo fece un quadro piccolo di basso rilievo di marmo, nel quale espresse una Nostra Donna con Cristo, con San Giovanni e con Santa Lisabetta, che fu et è tenuto cosa singulare; et ebbelo l'illustrissima Duchessa et oggi è fra le cose rare del Duca nel suo scrittoio.
Messe di poi mano a una istoria in marmo di mezzo e basso rilievo, alta un braccio e lunga un braccio e mezzo, nella quale figurava Pisa restaurata dal Duca, il quale è nell'Opera presente alla città et alla restaurazione di essa sollecitata dalla sua presenza. Intorno al Duca sono le sue virtù ritratte e particularmente una Minerva figurata per la Sapienza e per l'arti risuscitate da lui nella città di Pisa: et ella è cinta intorno da molti mali e difetti naturali del luogo i quali, a guisa di nimici, l'assediavano per tutto e l'affliggevano; da tutti questi è stata poi liberata quella città dalle sopradette virtù del Duca. Tutte queste virtù intorno al Duca e tutti que' mali intorno a Pisa erano ritratti con bellissimi modi et attitudini nella sua storia dal Vinci. Ma egli la lasciò imperfetta e desiderata molto da chi la vede per la perfezione delle cose finite in quella,
Cresciuta per queste cose e sparsa intorno la fama del Vinci, gli eredi di Messer Bartolomeo Turini da Pescia lo pregorono che e' facesse un modello d'una sepoltura di marmo per Messer Baldassarre, il quale fatto e piaciuto loro e convenuti che la sepoltura si facesse, il Vinci mandò a Carrara a cavare i marmi Francesco del Tadda, valente maestro d'intaglio di marmo. Avendogli costui mandato un pezzo di marmo, il Vinci cominciò una statua, e ne cavò una figura abbozzata sì fatta, che chi altro non avesse saputo, arebbe detto che certo Michelagnolo l'ha abbozzata. Il nome del Vinci e la virtù era già grande et ammirata da tutti e molto più, che a sì giovane età non sarebbe richiesto, et era per ampliare ancora a diventare maggiore e per adeguare ogni uomo nell'arte sua, come l'opere sue senza l'altrui testimonio fanno fede, quando il termine a lui prescritto dal cielo essendo dappresso, interroppe ogni suo disegno, fece l'aumento suo veloce in un tratto cessare e non patì più che avanti montasse e privò il mondo di molta eccellenza d'arte e d'opere, delle quali vivendo il Vinci egli si sarebbe ornato. Avvenne in questo tempo, mentre che 'l Vinci all'altrui sepoltura era intento, non sapendo che la sua si preparava, che 'l Duca ebbe a mandare per cose d'importanza Luca Martini a Genova, il quale sì perché amava il Vinci e per averlo in compagnia e sì ancora per dare a lui qualche diporto e sollazzo e fargli vedere Genova, andando lo menò seco. Dove mentre che i negozii si trattavano dal Martini, per mezzo di lui Messer Adamo Centurioni dette al Vinci di fare una figura di San Giovanni Batista, della quale egli fece il modello. Ma tosto venutagli la febbre, gli fu, per raddoppiare il male insieme, ancora tolto l'amico, forse per trovare che 'l fato s'adempiesse nella vita del Vinci. Fu necessario a Luca per lo 'nteresse del negozio a lui commesso, che egli andasse a trovare il Duca a Firenze, laonde partendosi dall'infermo amico con molto dolore dell'uno e dell'altro, lo lasciò in casa l'abate nero e strettamente a lui lo raccomandò, benché egli mal volentieri restasse in Genova. Ma il Vinci ogni dì sentendosi peggiorare, si risolvé a levarsi di Genova, e fatto venire da Pisa un suo creato chiamato Tiberio Cavalieri, si fece con l'aiuto di costui condurre a Livorno per acqua e da Livorno a Pisa in ceste. Condotto in Pisa la sera a ventidua ore, travagliato et afflitto dal cammino e dal mare e dalla febbre, la notte mai non posò e la seguente mattina in sul far del giorno passò all'altra vita, non avendo dell'età sua ancora passato i ventitré anni. Dolse a tutti gli amici la morte del Vinci et a Luca Martini eccessivamente, e dolse a tutti gli altri, i quali s'erano permesso di vedere dalla sua mano di quelle cose che rare volte si veggono, e Messer Benedetto Varchi, amicissimo alle sue virtù et a quelle di ciascheduno, gli fece poi per memoria delle sue lode questo sonetto:
Come potrò da me, se tu non presti
forza, o tregua al mio gran duolo interno,
soffrirlo in pace mai, Signor superno,
che fin qui nuova ogn'or pena mi desti?
Dunque de' miei più cari or quegli, or questi
verde sen voli all'alto asilo eterno,
ed io canuto in questo basso inferno
a pianger sempre e lamentarmi resti?
Sciolgami al men tua gran bontate quinci,
or che reo fato nostro o sua ventura,
ch'era ben degno d'altra vita e gente,
per far più ricco il cielo e la scultura
men bella, e me col buon Martin dolente,
n'ha privi, o pieta, del secondo Vinci.
IL FINE DELLA VITA DI PIERO DA VINCI, SCULTORE
VITA DI BACCIO BANDINELLI SCULTORE FIORENTINO
Ne' tempi ne' quali fiorirono in Fiorenza l'arti del disegno pe' favori et aiuti del Magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici, fu nella città un orefice chiamato Michelagnolo di Viviano da Gaiuole, il quale lavorò eccellentemente di cesello, d'incavo, per ismalti e per niello et era pratico in ogni sorte di grosserie. Costui era molto intendente di gioie e benissimo le legava, e per la sua universalità e virtù a lui facevano capo tutti i maestri forestieri dell'arte sua et egli dava loro ricapito, sì come a' giovani ancora della città , di maniera che la sua bottega era tenuta et era la prima di Fiorenza. Da costui si forniva il Magnifico Lorenzo e tutta la casa de' Medici, et a Giuliano fratello del Magnifico Lorenzo, per la giostra che fece su la piazza di Santa Croce, lavorò tutti gl'ornamenti delle celate e cimieri et imprese con sottil magisterio; onde acquistò gran nome e molta famigliarità co' figliuoli del Magnifico Lorenzo, a' quali fu poi sempre molto cara l'opera sua et a lui utile la conoscenza loro e l'amistà , per la quale e per molti lavori ancora fatti da lui per tutta la città e dominio egli divenne benestante, non meno che riputato da molto nell'arte sua. A questo Michelagnolo, nella partita loro di Firenze l'anno 1494, lasciorno i Medici molti argenti e dorerie e tutto fu da lui segretissimamente tenuto e fedelmente salvato fino al ritorno loro, da' quali fu molto lodato dappoi della fede sua e ristorato con premio. Nacque a Michelagnolo l'anno 1487 un figliuolo, il quale egli chiamò Bartolomeo, ma di poi, secondo la consuetudine di Firenze, fu da tutti chiamato Baccio.
Desiderando Michelagnolo di lasciare il figliuolo erede dell'arte e dell'avviamento suo, lo tirò appresso di sé in bottega in compagnia d'altri giovani, i quali imparavano a disegnare, perciò che in que' tempi così usavano e non era tenuto buono orefice chi non era buon disegnatore e che non lavorasse bene di rilievo. Baccio, addunque, ne' suo' primi anni attese al disegno, secondo che gli mostrava il padre, non meno giovandogli a profittare la concorrenza degli altri giovani, tra' quali s'addomesticò molto con uno chiamato il Piloto, che riuscì di poi valente orefice e seco andava spesso per le chiese disegnando le cose de' buoni pittori, ma col disegno mescolava il rilievo, contrafacendo in cera alcune cose di Donato e del Verrocchio, et alcuni lavori fece di terra di tondo rilievo. Essendo ancora Baccio nell'età fanciullesca, si riparava alcuna volta nella bottega di Girolamo del Buda, pittore ordinario su la piazza di San Pulinari, dove essendo un verno venuta gran copia di neve e di poi dalla gente ammontata su detta piazza, Girolamo rivolto a Baccio gli disse per ischerzo: "Baccio, se questa neve fussi marmo, non se ne caverebbe egli un bel gigante come Marforio a giacere?" "Caverebbesi", rispose Baccio, "et io v...
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