[Pagina precedente]...ello che fa uscir gli uomini di stento, e che l'arte nostra non viene per Spirito Santo". Non lavorò molto Giovan Antonio a fresco, perciò che i colori gli facevono troppa mutazione, nondimeno si vede di sua mano, sopra la chiesa di Murello, una Pietà con due Angioletti nudi assai bene lavorati. Finalmente essendo stato uomo di buon giudizio et assai pratico nelle cose del mondo, d'anni sessanta, l'anno 1552, amalando di febre acutissima si morì. Fu suo creato Bartolomeo Torri, nato di assai nobile famiglia in Arezzo, il quale condottosi a Roma, sotto don Giulio Clovio miniatore eccellentissimo, veramente attese di maniera al disegno et allo studio degl'ignudi, ma più alla notomia, che si era fatto valente e tenuto il migliore disegnatore di Roma. E non ha molto, che don Silvano Razzi mi disse don Giulio Clovio avergli detto in Roma, dopo aver molto lodato questo giovane, quello stesso che a me ha molte volte affermato, cioè non se l'essere levato di casa per altro che per le sporcherie della notomia, perciò che teneva tanto nelle stanze e sotto il letto membra e pezzi d'uomini, che ammorbavano la casa. Oltre ciò, stracurando costui la vita sua e pensando che lo stare come filosofaccio sporco e senza regola di vivere e fuggendo la conversazione degl'uomini, fusse la via da farsi grande et immortale, si condusse male affatto; perciò che la natura non può tolerare le soverchie ingiurie che alcuni tallora le fanno. Infermatosi adunque Bartolomeo d'anni venticinque, se ne tornò in Arezzo per curarsi e vedere di riaversi, ma non gli riuscì perché, continuando i suoi soliti studii et i medesimi disordini, in quattro mesi, poco dopo Giovan Antonio, morendo gli fece compagnia. La perdita del quale giovane dolse infinitamente a tutta la sua città , perciò che vivendo era per fare, secondo il gran principio dell'opere sue, grandissimo onore alla patria et a tutta Toscana, e chi vede dei disegni che fece, essendo anco giovinetto, resta maravigliato e, per essere mancato sì presto, pieno di compassione.
VITA DI NICCOLÃ’ SOGGI PITTORE
Fra molti che furono discepoli di Pietro Perugino, niuno ve n'ebbe, dopo Raffaello da Urbino, che fusse né più studioso, né più diligente di Niccolò Soggi, del quale al presente scriviamo la vita. Costui, nato in Fiorenza di Iacopo Soggi, persona da bene, ma non molto ricca, ebbe col tempo servitù in Roma con Messer Antonio dal Monte, per che, avendo Iacopo un podere a Marciano in Valdichiana e standosi il più del tempo là , praticò assai, per la vicinità de' luoghi, col detto Messer Anton di Monte. Iacopo dunque, vedendo questo suo figliuolo molto inclinato alla pittura, l'acconciò con Pietro Perugino, et in poco tempo, col continuo studio, acquistò tanto che non molto tempo passò che Pietro cominciò a servirsene nelle cose sue, con molto utile di Niccolò, il quale attese in modo a tirare di prospettiva et a ritrarre di naturale, che fu poi nell'una cosa e nell'altra molto eccellente.
Attese anco assai Niccolò a fare modelli di terra e di cera, ponendo loro panni addosso e cartepecore bagnate; il che fu cagione che egli insecchì sì forte la maniera, che mentre visse tenne sempre quella medesima, né per fatica che facesse se la poté mai levare da dosso. La prima opera che costui facesse doppo la morte di Pietro suo maestro, si fu una tavola a olio in Fiorenza nello spedale delle Donne di Bonifazio Lupi in via Sangallo, cioè la banda di dietro dell'altare, dove l'Angelo saluta la Nostra Donna, con un casamento tirato in prospettiva, dove sopra i pilastri girano gl'archi e le crocere, secondo la maniera di Piero. Dopo l'anno 1512 avendo fatto molti quadri di Nostre Donne per le case dei cittadini, et altre cosette che si fanno giornalmente, sentendo che a Roma si facevano gran cose, si partì di Firenze, pensando acquistare nell'arte e dovere anco avanzare qualche cosa, e se n'andò a Roma dove, avendo visitato il detto Messer Antonio di Monte, che allora era cardinale, fu non solamente veduto volentieri, ma subito messo in opera a fare, in quel principio del pontificato di Leone, nella facciata del palazzo, dove è la statua di maestro Pasquino, una grand'arme in fresco di papa Leone in mezzo a quella del popolo romano e quella del detto cardinale. Nella quale opera Niccolò si portò non molto bene, perché nelle figure d'alcuni ignudi che vi sono et in alcune vestite, fatte per ornamento di quell'armi, cognobbe Niccolò che lo studio de' modegli è cattivo a chi vuol pigliare buona maniera. Scoperta dunque che fu quell'opera, la quale non riuscì di quella bontà che molti s'aspettavano, si mise Niccolò a lavorare un quadro a olio, nel quale fece S. Prassedia martire che preme una spugna piena di sangue in un vaso; e la condusse con tanta diligenza, che ricuperò in parte l'onore che gli pareva avere perduto nel fare la sopra detta arme. Questo quadro, il quale fu fatto per lo detto cardinale di Monte, titolare di S. Prassedia, fu posto nel mezzo di quella chiesa, sopra un altare, sotto il quale è un pozzo di sangue di Santi martiri, e con bella considerazione, alludendo la pittura al luogo dove era il sangue de' detti martiri. Fece Niccolò dopo questo, in un altro quadro alto tre quarti di braccio, al detto cardinale suo padrone, una Nostra Donna a olio col Figliuolo in collo, San Giovanni piccolo fanciullo et alcuni paesi, tanto bene e con tanta diligenza, che ogni cosa pare miniato e non dipinto. Il quale quadro, che fu delle migliori cose che mai facesse Niccolò, stette molti anni in camera di quel prelato. Capitando poi quel cardinale in Arezzo et alloggiando nella Badia di Santa Fiore, luogo de' monaci neri di San Benedetto, per le molte cortesie che gli furono fatte, donò il detto quadro alla sagrestia di quel luogo, nella quale si è infino a ora conservato e come buona pittura e per memoria di quel cardinale; col quale venendo Niccolò anch'egli ad Arezzo e dimorandovi poi quasi sempre, allora fece amicizia con Domenico Pecori pittore, il quale allora faceva in una tavola della Compagnia della Trinità la Circoncisione di Cristo, e fu sì fatta la dimestichezza loro, che Niccolò fece in questa tavola a Domenico un casamento in prospettiva di colonne con archi e girando sostengono un palco fatto, secondo l'uso di que' tempi, pieno di rosoni, che fu tenuto allora molto bello. Fece il medesimo al detto Domenico a olio, in sul drappo, un tondo d'una Nostra Donna con un popolo sotto, per il baldacchino della Fraternita d'Arezzo, il quale, come si è detto nella vita di Domenico Pecori, si abruciò per una festa che si fece in San Francesco.
Essendogli poi allogata una cappella nel detto San Francesco, cioè la seconda entrando in chiesa a man ritta, vi fece dentro a tempera la Nostra Donna, San Giovanni Batista, San Bernardo, Sant'Antonio, San Francesco e tre Angeli in aria che cantano, con un Dio Padre in un frontespizio, che quasi tutti furono condotti da Niccolò a tempera, con la punta del pennello. Ma perché si è quasi tutta scrostata per la fortezza della tempera, ella fu una fatica gettata via, ma ciò fece Niccolò per tentare nuovi modi. Ma conosciuto che il vero modo era il lavorare in fresco, s'attaccò alla prima occasione e tolse a dipignere in fresco una cappella in S. Agostino di quella città , a canto alla porta a man manca entrando in chiesa. Nella quale cappella, che gli fu allogata da un Scamarra maestro di fornaci, fece una Nostra Donna in aria con un popolo sotto e San Donato e San Francesco ginocchioni, e la miglior cosa che egli facesse in quest'opera fu un S. Rocco nella testata della cappella. Quest'opera, piacendo molto a Domenico Ricciardi aretino, il quale aveva nella chiesa della Madonna delle Lacrime una cappella, diede la tavola di quella a dipignere a Niccolò, il quale messo mano all'opera vi dipinse dentro la Natività di Gesù Cristo con molto studio e diligenza. E se bene penò assai a finirla, la condusse tanto bene, che ne merita scusa, anzi lode infinita, perciò che è opera bellissima. Né si può credere con quanti avertimenti ogni minima cosa conducesse, et un casamento rovinato, vicino alla capanna dove è Cristo fanciullino e la Vergine, è molto bene tirato in prospettiva; nel San Giuseppo et in alcuni pastori sono molte teste di naturale, cioè Stagio Sassoli pittore et amico di Niccolò, e Papino dalla Pieve suo discepolo, il quale averebbe fatto a sé et alla patria, se non fusse morto assai giovane, onor grandissimo. E tre Angeli che cantano in aria sono tanto ben fatti, che soli basterebbono a mostrare la virtù e pacienza che infino all'ultimo ebbe Niccolò intorno a quest'opera, la quale non ebbe sì tosto finita, che fu ricerco dagl'uomini della Compagnia di Santa Maria della Neve del Monte Sansovino di far loro una tavola per la detta Compagnia, nella quale fusse la storia della neve che, fiocando a Santa Maria Maggiore di Roma a' cinque dì d'agosto, fu cagione dell'edificazione di quel tempio. Niccolò dunque condusse a' sopra detti la detta tavola con molta diligenza, e dopo fece a Marciano un lavoro in fresco assai lodato. L'anno poi 1524 avendo nella terra di Prato Messer Baldo Magini fatto condurre di marmo da Antonio, fratello di Giuliano da Sangallo, nella Madonna delle Carcere un tabernacolo di due colonne con suo architrave, cornice e quarto tondo, pensò Antonio di far sì che Messer Baldo facesse fare la tavola, che andava dentro a questo tabernacolo, a Niccolò, col quale aveva preso amicizia quando lavorò al Monte San Sovino nel palazzo del già detto cardinal di Monte. Messolo dunque per le mani a Messer Baldo, egli, ancor che avesse in animo di farla dipignere ad Andrea del Sarto, come si è detto in altro luogo, si risolvette, a preghiera e per il consiglio d'Antonio, di allogarla a Niccolò, il quale, messovi mano, con ogni suo potere si sforzò di fare una bell'opera, ma non gli venne fatta perché dalla diligenza in poi non vi si conosce bontà di disegno, né altra cosa, che molto lodevole sia; perché quella sua maniera dura lo conduceva, con le fatiche di que' suoi modelli di terra e di cera, a una fine quasi sempre faticosa e dispiacevole. Né poteva quell'uomo, quanto alle fatiche dell'arte, far più di quello che faceva, né con più amore. E perché conosceva che niuno ..., mai si potè per molti anni persuadere che altri gli passasse innanzi d'eccellenza. In quest'opera adunque è un Dio Padre che manda sopra quella Madonna la corona della virginità et umiltà per mano d'alcuni Angeli che le sono intorno, alcuni de' quali suonano diversi stromenti. In questa tavola ritrasse Niccolò di naturale Messer Baldo ginocchioni a piè d'un Santo Ubaldo vescovo, e dall'altra banda fece San Giuseppo; e queste due figure mettono in mezzo l'imagine di quella Nostra Donna che in quel luogo fece miracoli. Fece di poi Niccolò, in un quadro alto tre braccia, il detto Messer Baldo Magini di naturale e ritto, con la chiesa di San Fabiano di Prato in mano, la quale egli donò al capitolo della calonaca della pieve. E ciò fece per lo capitolo detto il quale, per memoria del ricevuto beneficio, fece porre questa quadro in sagrestia, sì come veramente meritò quell'uomo singolare che con ottimo giudizio beneficiò quella principale chiesa della sua patria tanto nominata per la cintura che vi serba di Nostra Donna. E questo ritratto fu delle migliori opere che mai facesse Niccolò di pittura.
È openione ancora d'alcuni che di mano del medesimo sia una tavoletta che è nella Compagnia di San Pier martir[e] in sulla piazza di San Domenico di Prato, dove sono molti ritratti di naturale, ma secondo me, quando sia vero che così sia, ella fu da lui fatta inanzi a tutte l'altre sue sopra dette pitture. Dopo questi lavori, partendosi di Prato Niccolò sotto la disciplina del quale avea imparato i principii dell'arte della pittura Domenico Giuntalochi, giovane di quella terra di bonissimo ingegno, il quale per aver appreso quella maniera di Niccolò non fu di molto valore nella pittura, come si dirà , se ne venne per lavorare a Fiorenza. Ma veduto che le cose dell'a...
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