[Pagina precedente]... tavola la Nostra Donna in aria col putto in collo sopra certe nuvole rette da alcuni putti, e da basso molti Santi e Sante assai bene condotti, ma non però con quella perfezzione che furono i sopra detti quadri. Ma egli scusandosi di ciò con molti amici, e particolarmente una volta con Giorgio Vasari, diceva che come era fuori dell'aria di Siena e di certe sue commodità , non gli pareva saper far alcuna cosa. Tornatosene dunque a casa con proposito di non volersene più, per andar a lavorar altrove, partire, fece in una tavola a olio, per le monache di S. Paolo, vicine a S. Marco, la natività di Nostra Donna con alcune balie e S. Anna in un letto che scorta, finto dentro a una porta; una donna in uno scuro, che asciugando panni non ha altro lume che quello che le fa lo splendor del fuoco. Nella predella, che è vaghissima, sono tre storie a tempera: essa Vergine presentata al tempio, lo sposalizio, e l'adorazione de' Magi.
Nella Mercanzia, tribunale in quella città , hanno gl'uffiziali una tavoletta, la quale dicono fu fatta da Domenico, quando era giovane, che è bellissima. Dentro vi è un San Paolo in mezzo che siede e, dagli lati, la sua conversione in uno di figure piccole e nell'altro quando fu decapitato. Finalmente fu data a dipignere a Domenico la nicchia grande del Duomo ch'è in testa dietro all'altare maggiore, nella quale egli primieramente fece tutto di sua mano l'ornamento di stucco con fogliami e figure, e due vittorie ne' vani del semicircolo, il quale ornamento fu invero opera ricchissima e bella. Nel mezzo poi fece di pittura a fresco l'Ascendere di Cristo in cielo, e dalla cornice in giù fece tre quadri divisi da colonne di rilievo e dipinte in prospettiva. In quel di mezzo, che ha un arco sopra in prospettiva, è la Nostra Donna, San Piero e San Giovanni, e dalle bande ne' due vani dieci Apostoli, cinque per banda in varie attitudini, che guardano Cristo ascendere in cielo; e sopra ciascuno de' due quadri degl'Apostoli è un Angelo in iscorto, fatti per que' due che dopo l'Ascensione dissono ch'egli era salito in cielo. Quest'opera certo è mirabile, ma più sarebbe ancora se Domenico avesse dato bell'aria alle teste, là dove hanno una certa aria non molto piacevole, perciò che pare che in vecchiezza e' pigliasse un'ariaccia di volti spaventata e non molto vaga. Quest'opera, dico, se avesse avuto bellezza nelle teste sarebbe tanto bella, che non si potrebbe veder meglio. Nella qual aria delle teste prevalse il Soddoma a Domenico al giudizio de' sanesi, perciò che il Soddoma le faceva molto più belle, se bene quelle di Domenico avevano più disegno e più forza. E nel vero la maniera delle teste in queste nostre arti importa assai, et il farle che abbiano bell'aria e buona grazia ha molti maestri scampati dal biasimo, che arebbono avuto per lo restante dell'opera. Fu questa di pittura l'ultima opera che facesse Domenico, il quale in ultimo entrato in capriccio di fare di rilievo, cominciò a dare opera al fondere de' bronzi, e tanto adoperò, che condusse, ma con estrema fatica, a sei colonne del Duomo, le più vicine all'altar maggiore, sei Angeli di bronzo tondi, poco minori del vivo, i quali tengono per posamento d'un candeliere che tiene un lume, alcune tazze o vero bacinette, e sono molto belli. E negl'ultimi si portò di maniera che ne fu sommamente lodato; per che, cresciutogli l'animo, diede principio a fare i dodici Apostoli per mettergli alle colonne di sotto, dove ne sono ora alcuni di marmo vecchi e di cattiva maniera; ma non seguitò, perché non visse poi molto.
E perché era quest'uomo capricciosissimo e gli riusciva ogni cosa, intagliò da sé stampe di legno, per far carte di chiaro scuro, e se ne veggiono fuori due Apostoli fatti eccellentemente, uno de' quali n'avemo nel nostro libro de' disegni, con alcune carte di sua mano, disegnate divinamente. Intagliò similmente col bulino stampe di rame, e stampò con acqua forte alcune storiette molto capricciose d'archimia, dove Giove e gl'altri dèi volendo congelare Mercurio, lo mettono in un correggiuolo legato e facendogli fuoco attorno Vulcano e Plutone, quando pensarono che dovesse fermarsi, Mercurio volò via e se n'andò in fumo. Fece Domenico, oltre alle sopra dette, molte altre opere di non molta importanza, come quadri di Nostre Donne et altre cose simili da camera, come una Nostra Donna che è in casa il cavalier Donati et un quadro a tempera, dove Giove si converte in pioggia d'oro e piove in grembo a Danae. Piero Catanei similmente ha di mano del medesimo in un tondo a olio una Vergine bellissima. Dipinse anche per la Fraternita di S. Lucia una bellissima bara; e parimente un'altra per quella di Santo Antonio. Né si maravigli niuno che io faccia menzione di sì fatte opere, perciò che sono veramente belle a maraviglia, come sa chiunque l'ha vedute.
Finalmente, pervenuto all'età di sessantacinque anni, s'affrettò il fine della vita coll'affaticarsi tutto solo il giorno e la notte intorno a' getti di metallo et a rinettar da sé, senza volere aiuto niuno. Morì dunque a dì 18 di maggio 1549, e da Giuliano orefice, suo amicissimo, fu fatto sepellire nel Duomo, dove avea tante e sì rare opere lavorato. E fu portato alla sepoltura da tutti gli artefici della sua città , la quale allora conobbe il grandissimo danno che riceveva nella perdita di Domenico, et oggi lo conosce più che mai, ammirando l'opere sue. Fu Domenico persona costumata e da bene, temente Dio e studioso della sua arte, ma solitario oltre modo, onde meritò da' suoi sanesi, che sempre hanno con molta loro lode atteso a' belli studi et alle poesie, essere con versi e volgari e latini onoratamente celebrato.
VITA DI GIOVANN'ANTONIO LAPPOLI PITTORE ARETINO
Rade volte aviene che d'un ceppo vecchio non germogli alcun rampollo buono, il quale col tempo crescendo non rinuovi e colle sue frondi rivesta quel luogo spogliato e faccia con i frutti conoscere a chi gli gusta il medesimo sapore che già si sentì del primo albero. E che ciò sia vero si dimostra nella presente vita di Giovann'Antonio, il quale, morendo Matteo suo padre, che fu l'ultimo de' pittori del suo tempo assai lodato, rimase con buone entrate al governo della madre e così si stette infino a dodici anni; al qual termine della sua età pervenuto, Giovan Antonio, non si curando di pigliare altro esercizio che la pittura, mosso oltre all'altre cagioni dal volere seguire le vestigie e l'arte del padre, imparò sotto Domenico Pecori pittore aretino, che fu il suo primo maestro, il quale era stato insieme con Matteo suo padre discepolo di Clemente, i primi principii del disegno. Dopo, essendo stato con costui alcun tempo e desiderando far miglior frutto che non faceva sotto la disciplina di quel maestro et in quel luogo, dove non poteva anco da per sé imparare, ancor che avesse l'inclinazione della natura, fece pensiero di volere che la stanza sua fusse Fiorenza. Al quale suo proponimento, aggiuntosi che rimase solo per la morte della madre, fu assai favorevole la fortuna, perché maritata una sorella che aveva di piccola età a Lionardo Ricoveri ricco e de' primi cittadini ch'allora fusse in Arezzo, se n'andò a Fiorenza, dove fra l'opere di molti che vidde, gli piacque più che quella di tutti gli altri che avevano in quella città operato nella pittura, la maniera d'Andrea del Sarto e di Iacopo da Puntormo; per che risolvendosi d'andare a stare con uno di questi due, si stava sospeso a quale di loro dovesse appigliarsi, quando scoprendosi la Fede e la Carità fatta dal Puntormo sopra il portico della Nunziata di Firenze, deliberò del tutto d'andare a star con esso Puntormo, parendogli che la costui maniera fusse tanto bella, che si potesse sperare che egli, allora giovane, avesse a passare inanzi a tutti i pittori giovani della sua età , come fu in quel tempo ferma credenza d'ognuno. Il Lappoli adunque, ancor che fusse potuto andare a star con Andrea, per le dette cagioni si mise col Puntormo, appresso al quale continuamente disegnando, era da due sproni per la concorrenza cacciato alla fatica terribilmente. L'uno si era Giovan Maria dal Borgo a Sansepolcro, che sotto il medesimo attendeva al disegno et alla pittura, et il quale, consigliandolo sempre al suo bene, fu cagione che mutasse maniera e pigliasse quella buona del Puntormo. L'altro (e questi lo stimolava più forte) era il vedere che Agnolo chiamato il Bronzino era molto tirato innanzi da Iacopo, per una certa amorevole sommessione, bontà e diligente fatica che aveva nell'imitare le cose del maestro; senzaché disegnava benissimo e si portava ne' colori di maniera, che diede speranza di dovere a quell'eccellenza e perfezzione venire, che in lui si è veduta e vede ne' tempi nostri.
Giovan Antonio dunque, disideroso d'imparare e spinto dalle sudette cagioni, durò molti mesi a far disegni e ritratti dell'opere di Iacopo Puntormo tanto ben condotti e begli e buoni, che se egli avesse seguitato e per la natura, che l'aiutava, per la voglia del venire eccellente e per la concorrenza e buona maniera del maestro, si sarebbe fatto eccellentissimo: e ne possono far fede alcuni disegni di matita rossa, che di sua mano si veggiono nel nostro libro. Ma i piaceri, come spesso si vede avvenire, sono ne' giovani le più volte nimici della virtù e fanno che l'intelletto si disvia, e però bisognerebbe a chi attende agli studi di qual si voglia scienza, facultà et arte, non avere altre pratiche che di coloro che sono della professione e buoni e costumati. Giovan Antonio, dunque, essendosi messo a stare, per essere governato, in casa d'un ser Raffaello di Sandro Zoppo, cappellano in San Lorenzo, al quale dava un tanto l'anno, dismesse in gran parte lo studio della pittura; perciò che, essendo questo prete galantuomo e dilettandosi di pittura, di musica e d'altri trattenimenti, praticavano nelle sue stanze, che aveva in San Lorenzo, molte persone virtuose e fra gl'altri Messer Antonio da Lucca, musico e sonator di liuto eccellentissimo, che allora era giovinetto; dal quale imparò Giovan Antonio a sonar di liuto. E se bene nel medesimo luogo praticava anco il Rosso pittore et alcuni altri della professione, si attenne più tosto il Lappoli agl'altri che a quelli dell'arte, da' quali arebbe potuto molto imparare et in un medesimo tempo trattenersi. Per questi impedimenti, adunque, si raffreddò in gran parte la voglia che aveva mostrato d'avere della pittura in Giovan Antonio, ma tuttavia essendo amico di Pier Francesco di Iacopo di Sandro, il quale era discepolo d'Andrea del Sarto, andava alcuna volta a disegnare seco nello Scalzo e pitture et ignudi di naturale. E non andò molto che, datosi a colorire, condusse de' quadri di Iacopo, e poi da sé alcune Nostre Donne e ritratti di naturale, fra i quali fu quello di detto Messer Antonio da Lucca e quello di ser Raffaello, che sono molto buoni. Essendo poi l'anno 1523 la peste in Roma, se ne venne Perino del Vaga a Fiorenza, e cominciò a tornarsi anch'egli con ser Raffaello del Zoppo, per che, avendo fatta seco Giovan Antonio stretta amicizia, avendo conosciuta la virtù di Perino, se gli ridestò nell'animo il pensiero di volere, lasciando tutti gl'altri piaceri, attendere alla pittura, e cessata la peste andare con Perino a Roma. Ma non gli venne fatto perché, venuta la peste in Fiorenza, quando appunto avea finito Perino la storia di chiaro scuro della sommersione di faraone nel Mar Rosso, di color di bronzo, per ser Raffaello, al quale fu sempre presente il Lappoli, furono forzati l'uno e l'altro per non vi lasciare la vita, partirsi di Firenze. Onde tornato Giovan Antonio in Arezzo si mise, per passar tempo, a fare in una storia in tela la morte d'Orfeo, stato ucciso dalle Baccanti; si mise, dico, a fare questa storia in color di bronzo di chiaro scuro nella maniera che avea veduto fare a Perino la sopra detta; la quale opera finita gli fu lodata assai. Dopo si mise a finire una tavola, che Domenico Pecori già suo maestro aveva cominciata per le monache di Santa Margherita; nella quale tavola, che è oggi dentro al m...
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