[Pagina precedente]...i martiri quando e' sono condennati alla morte dinanzi a' due imperadori romani che, dopo la battaglia e presa loro, gli fanno in quel bosco crocifiggere e sospender a quegli alberi. La quale storia fu messa per le mani a Perino, et ancora che il luogo fusse discosto et il prezzo piccolo, fu di tanto potere l'invenzione della storia e la facciata che era assai grande, che egli si dispose a farla; oltreché egli ne fu assai confortato da chi gli era amico, atteso che questa opera lo metterebbe in quella considerazione che meritava la sua virtù fra i cittadini che non lo conoscevano, e fra gli artefici suoi in Fiorenza, dove non era conosciuto se non per fama. Deliberatosi dunque a lavorare, prese questa cura, e fattone un disegno piccolo, che fu tenuta cosa divina, e messo mano a fare un cartone grande quanto l'opera, lo condusse (non si partendo d'intorno a quello) a un termine che tutte le figure principali erano finite del tutto. E così l'Apostolo si rimase indietro, senza farvi altro.
Aveva Perino disegnato questo cartone in sul foglio bianco, sfumato e tratteggiato, lasciando i lumi della propria carta, e condotto tutto con una diligenza mirabile; nella quale erano i due imperadori nel tribunale che sentenziano a la croce tutti i prigioni, i quali erano volti verso il tribunale, chi ginocchioni, chi ritto et altro chinato, tutti ignudi legati per diverse vie, in attitudini varie, storcendosi con atti di pietà e conoscendo il tremar delle membra, per aversi a disgiugner l'anima nella passione e tormento della crocifissione; oltreché vi era accennato in quelle teste la constanzia della fede né vecchi, il timore della morte ne' giovani, in altri il dolore delle torture nello stringerli le legature il torso e le braccia. Vedevasi appresso il gonfiar de' muscoli, e fino al sudor freddo della morte, accennato in quel disegno. Appresso si vedeva ne' soldati che gli guidavano una fierezza terribile, impiissima e crudele nel presentargli al tribunale per la sentenza e nel guidargli a le croci. Avevano indosso gli imperadori e' soldati, corazze all'antica et abbigliamenti molto ornati e bizzarri, et i calzari, le scarpe, le celate, le targhe e le altre armadure fatte con tutta quella copia di bellissimi ornamenti che più si possa fare et imitare et aggiugnere all'antico, disegnate con quell'amore et artifizio e fine, che può far tutti gli estremi dell'arte. Il quale cartone, vistosi per gli artefici e per altri intendenti ingegni, giudicarono non aver visto pari bellezza e bontà in disegno dopo quello di Michelagnolo Buonarroti, fatto in Fiorenza per la sala del Consiglio. Laonde, acquistato Perino quella maggior fama che egli più poteva acquistare nell'arte, mentre che egli andava finendo tal cartone, per passar tempo, fece mettere in ordine e macinare colori a olio per fare al Piloto orefice suo amicissimo un quadretto non molto grande; il quale condusse a fine quasi più di mezzo, dentrovi una Nostra Donna.
Era già molti anni stato domestico di Perino un ser Raffaello di Sandro, prete zoppo, cappellano di San Lorenzo, il quale portò sempre amore agli artefici di disegno; costui dunque persuase Perino a tornar seco in compagnia, non avendo egli né chi gli cucinasse, né chi lo tenesse in casa, essendo stato il tempo che ci era stato, oggi con un amico e domani con un altro. Laonde Perino andò alloggiare seco e vi stette molte settimane. Intanto la peste cominciata a scoprirsi in certi luoghi in Fiorenza, messe a Perino paura di non infettarsi; per il che deliberato partirsi, volle prima sodisfare a ser Raffaello tanti dì ch'era stato seco a mangiare, ma non volle mai ser Raffaello acconsentire di pigliare niente; anzi disse: "E' mi basta un tratto avere uno straccio di carta di tua mano". Per il che, visto questo, Perino tolse circa a quattro braccia di tela grossa, e fattola appiccare ad un muro che era fra due usci della sua saletta, vi fece un'istoria contrafatta di color di bronzo, in un giorno et in una notte. Nella quale tela, che serviva per ispalliera, fece l'istoria di Mosè quando passa il Mar Rosso e che faraone si sommerge in quello co' suoi cavalli e co' suoi carri: dove Perino fece attitudini bellissime di figure, chi nuota armato e chi ignudo, altri, abbracciando il collo a' cavalli, bagnati le barbe et i capelli, nuotano e gridano per la paura della morte, cercando il più che possono di scampare; da l'altra parte del mare vi è Mosè, Aron e gli altri Ebrei, maschi e femmine, che ringraziano Iddio; et un numero di vasi, ch'egli finge che abbino spogliato l'Egitto, con bellissimi garbi e varie forme, e femine con acconciature di testa molto varie, la quale finita lasciò per amorevolezza a ser Raffaello; al quale fu cara tanto, quanto se gli avesse lassato il priorato di San Lorenzo. La qual tela fu tenuta di poi in pregio e lodata, e dopo la morte di ser Raffaello rimase, con le altre sue robe, a Domenico di Sandro, pizzicagnolo, suo fratello.
Partendo dunque di Firenze, Perino lasciò in abbandono l'opera de' Martiri, della quale rincrebbe grandemente; e certo se ella fusse stata in altro luogo che in Camaldoli, l'arebbe egli finita; ma considerato che gli uffiziali della sanità avevano preso per gli appestati lo stesso convento di Camaldoli, volle più tosto salvare sé che lasciar fama in Fiorenza, bastandoli aver mostrato quanto e' valeva nel disegno. Rimase il cartone e l'altre sue robe a Giovanni di Goro orefice suo amico, che si morì nella peste; e dopo lui pervenne nelle mani del Piloto, che lo tenne molti anni spiegato in casa sua, mostrandolo volentieri a ogni persona d'ingegno come cosa rarissima; ma non so già dove e' si capitasse dopo la morte del Piloto. Stette fuggiasco molti mesi dalla peste Perino in più luoghi, né per questo spese mai il tempo indarno che egli continovamente non disegnasse e studiasse cose dell'arte; e cessata la peste se ne tornò a Roma et attese a far cose piccole, le quali io non narrerò altrimenti.
Fu l'anno 1523 creato papa Clemente Settimo, che fu un grandissimo refrigerio all'arte della pittura e della scultura, state da Adriano Sesto, mentre che e' visse, tenute tanto basse, che non solo non si era lavorato per lui niente, ma non se ne dilettando, anzi più tosto avendole in odio, era stato cagione che nessuno altro se ne dilettasse, o spendesse, o trattenesse nessuno artefice, come si è detto altre volte. Per il che Perino allora fece molte cose nella creazione del nuovo Pontefice.
Deliberandosi poi di far capo de l'arte, in cambio di Raffaello da Urbino già morto, Giulio Romano e Giovan Francesco detto il Fattore, acciò che scompartissino i lavori agli altri secondo l'usato di prima, Perino, che aveva lavorato un'arme del Papa in fresco col cartone di Giulio Romano sopra la porta del cardinal Ceserino, si portò tanto egregiamente, che dubitarono non egli fusse anteposto a loro, perché, ancora che egli avessino nome di discepoli di Raffaello e d'avere eredato le cose sue, non avevano interamente l'arte e la grazia, che egli coi colori dava alle sue figure, eredato. Presono partito, adunque, Giulio e Giovan Francesco d'intrattenere Perino; e così l'anno santo del Giubileo 1525 diedero la Caterina, sorella di Giovan Francesco, a Perino per donna, acciò che fra loro fusse quella intera amicizia, che tanto tempo avevono contratta, convertita in parentado. Laonde, continovando l'opere che faceva, non vi andò troppo tempo che, per le lode dategli nella prima opera fatta in San Marcello, fu deliberato dal priore di quel convento e da certi capi della Compagnia del Crocifisso, la quale ci ha una cappella fabbricata dagli uomini suoi per ragunarvisi, che ella si dovesse dipignere; e così allogarono a Perino questa opera, con speranza di avere qualche cosa eccellente di suo.
Perino fattovi fare i ponti, cominciò l'opera; e fece nella volta a mezza botte, nel mezzo, un'istoria quando Dio, fatto Adamo, cava della costa sua Eva sua donna, nella quale storia si vede Adamo ignudo, bellissimo et artifizioso, che oppresso dal sonno giace, mentre che Eva vivissima a man giunte si leva in piedi e riceve la benedizzione dal suo fattore: la figura del quale è fatta di aspetto ricchissimo e grave, in maestà , diritta, con molti panni attorno, che vanno girando con i lembi l'ignudo; e da una banda a man ritta due Evangelisti, de' quali finì tutto il S. Marco et il San Giovanni, eccetto la testa et un braccio ignudo. Fecevi in mezzo fra l'uno e l'altro, due puttini che abracciano per ornamento un candeliere, che veramente son di carne vivissimi, e similmente i Vangelisti molto belli, nelle teste e ne' panni e braccia e tutto quel che lor fece di sua mano. La quale opera, mentre che egli fece, ebbe molti impedimenti, e di malattie e d'altri infortuni, che accaggiono giornalmente a chi ci vive; oltraché dicono che mancarono danari ancora a quelli della Compagnia; e talmente andò in lungo questa pratica che l'anno 1527 venne la rovina di Roma, che fu messa quella città a sacco, e spento molti artefici e distrutto e portato via molte opere. Onde Perino, trovandosi in tal frangente et avendo donna et una puttina, con la quale corse in collo per Roma per camparla di luogo in luogo, fu in ultimo miserissimamente fatto prigione, dove si condusse a pagar taglia con tanta sua disavventura, che fu per dar la volta al cervello.
Passato le furie del Sacco, era sbattuto talmente per la paura che egli aveva ancora, che le cose dell'arte si erano allontanate da lui; ma nientedimeno fece per alcuni soldati spagnuoli tele a guazzo et altre fantasie e, rimessosi in assetto, viveva come gli altri poveramente. Solo fra tanti il Baviera, che teneva le stampe di Raffaello, non aveva perso molto, onde per l'amicizia ch'egli aveva con Perino, per intrattenerlo gli fece disegnare una parte d'istorie, quando gli dèi si trasformano per conseguire i fini de' loro amori. I quali furono intagliati in rame da Jacopo Caraglio eccellente intagliatore di stampe. Et invero in questi disegni si portò tanto bene che, riservando i dintorni e la maniera di Perino, e tratteggiando quegli con un modo facilissimo, cercò ancora dar loro quella leggiadria e quella grazia che aveva dato Perino a' suoi disegni.
Mentre che le rovine del Sacco avevano distrutta Roma e fatto partir di quella gli abitatori et il Papa stesso, che si stava in Orvieto, non essendovi rimasti molti e non si facendo faccenda di nessuna sorte, capitò a Roma Niccola Viniziano, raro et unico maestro di ricami, servitore del principe Doria, il quale, e per l'amicizia vecchia che aveva con Perino e perché egli ha sempre favorito e voluto bene agli uomini de l'arte, persuase a Perino a partirsi di quella miseria et inviarsi a Genova, promettendogli che egli farebbe opera con quel prencipe, che era amatore e si dilettava della pittura, che gli farebbe fare opere grosse; e massimamente che sua eccellenza gli aveva molte volte ragionato che arebbe avuto voglia di far un appartamento di stanze con bellissimi ornamenti. Non bisognò molto persuader Perino per che, essendo dal bisogno oppresso e dalla voglia di uscir di Roma appassionato, deliberò con Niccola partire. E dato ordine di lasciar la sua donna e la figliuola bene accompagnata a' suoi parenti in Roma, et assettato il tutto, se ne andò a Genova. Dove arrivato, e per mezzo di Niccola fattosi noto a quel prencipe, fu tanto grato a sua eccellenza la sua venuta, quanto cosa che in sua vita per trattenimento avesse mai avuta. Fattogli dunque accoglienze e carezze infinite, doppo molti ragionamenti e discorsi, alla fine diedero ordine di cominciare il lavoro, e conchiusono dovere fare un palazzo ornato di stucchi e di pitture a fresco, a olio e d'ogni sorte, il quale più brevemente che io potrò m'ingegnerò di descrivere con le stanze e le pitture et ordine di quello, lasciando stare dove cominciò prima Perino a lavorar, acciò non confonda il dire quest'opera, che di tutte le sue è la migliore.
Dico adunque che all'entrata del palazzo del principe è una porta di marmo, di componimen...
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