[Pagina precedente].... Quivi fece nella Pace sopra le cose di Raffaello un'opera, della quale non dipinse mai peggio a' suoi giorni, né posso imaginare onde ciò procedesse, se non da questo, che non pure in lui, ma si è veduto anco in molti altri. E questo (il che pare cosa mirabile et occulta di natura) è che chi muta paese o luogo, pare che muti natura, virtù, costumi et abito di persona, in tanto che tallora non pare quel medesimo, ma un altro e tutto stordito e stupefatto. Il che poté intervenire al Rosso nell'aria di Roma, e per le stupende cose che egli vi vide d'architettura e scultura, e per le pitture e statue di Michelagnolo, che forse lo cavarono di sé. Le quali cose fecero anco fuggire, senza lasciar loro alcuna cosa operare in Roma, fra' Bartolomeo di S. Marco et Andrea del Sarto. Tuttavia, qualunche si fusse di ciò la cagione, il Rosso non fece mai peggio; e da vantaggio è quest'opera [a] paragone di quelle di Raffaello da Urbino.
In questo tempo fece al vescovo Tornabuoni amico suo un quadro d'un Cristo morto, sostenuto da due Angeli, che oggi è appresso agli eredi di monsignor Della Casa, il quale fu una bellissima impresa. Fece al Baviera, in disegni di stampe, tutti gli dèi, intagliati poi da Giacopo Caraglio, quando Saturno si muta in cavallo, e particularmente quando Plutone rapisce Proserpina. Lavorò una bozza della decollazione di S. Giovanni Batista, che oggi è in una chiesiuola su la piazza de' Salviati in Roma. Succedendo in tanto il sacco di Roma, fu il povero Rosso fatto prigione de' Tedeschi e molto mal trattato. Perciò che oltra lo spogliarlo de' vestimenti, scalzo e senza nulla in testa, gli fecero portare addosso pesi, e sgombrare quasi tutta la bottega d'un pizzicagnolo. Per il che da quelli mal condotto, si condusse appena in Perugia, dove da Domenico di Paris pittore fu molto accarezzato e rivestito; et egli disegnò per lui un cartone di una tavola de' Magi, il quale appresso lui si vede, cosa bellissima. Né molto restò in tal luogo, perché intendendo ch'al Borgo era venuto il vescovo de' Tornabuoni, fuggito egli ancora dal sacco, si trasferì quivi, perché gli era amicissimo. Era in quel tempo al Borgo Raffaello dal Colle pittore, creato di Giulio Romano, che nella sua patria aveva preso a fare, per S. Croce, Compagnia di Battuti, una tavola per poco prezzo, della quale come amorevole si spogliò, e la diede al Rosso, acciò che in quella città rimanesse qualche reliquia di suo. Per il che la Compagnia si risentì, ma il vescovo gli fece molte comodità . Onde finita la tavola, che gl'acquistò nome, ella fu messa in S. Croce: perché il Deposto che vi è di croce è cosa molto rara e bella, per avere osservato ne' colori un certo che, tenebroso per l'eclisse, che fu nella morte di Cristo, e per essere stata lavorata con grandissima diligenza. Gli fu dopo fatto in Città di Castello allogazione d'una tavola, la quale volendo lavorare mentre che s'ingessava, le ruinò un tetto addosso che l'infranse tutta, et a lui venne un mal di febbre sì bestiale, che ne fu quasi per morire: per il che da Castello si fé portare al Borgo. Seguitando quel male con la quartana, si trasferì poi alla Pieve a S. Stefano a pigliare aria, et ultimamente in Arezzo, dove fu tenuto in casa da Benedetto Spadari; il quale adoperò di maniera col mezzo di Giovanni Antonio Lappoli aretino e di quanti amici e parenti essi avevano, che gli fu dato a lavorare in fresco alla Madonna delle Lagrime una volta, allogata già a Niccolò Soggi pittore. E perché tal memoria si lasciasse in quella città , gliele allogarono per prezzo di trecento scudi d'oro. Onde il Rosso cominciò cartoni in una stanza che gli avevano consegnata in un luogo detto Murello, e quivi ne finì quattro. In uno fece i primi parenti legati allo albero del peccato, e la Nostra Donna che cava loro il peccato di bocca, figurato per quel pomo, e sotto i piedi il serpente, e nell'aria (volendo figurare ch'era vestita del sole e della luna) fece Febo e Diana ignudi. Nell'altra quando l'arca federes è portata da Mosè, figurata per la Nostra Donna da cinque Virtù circondata. In un'altra è il trono di Salamone, pure figurato per la medesima a cui si porgono voti per significare quei che ricorrono a lei per grazia, con altre bizzarrie che dal bello ingegno di Messer Giovanni Polastra, canonico aretino et amico del Rosso, furono trovate; a compiacenza del quale fece il Rosso un bellissimo modello di tutta l'opera, che è oggi nelle nostre case d'Arezzo. Disegnò anco uno studio d'ignudi per quell'opera, che è cosa rarissima: onde fu un peccato ch'ella non si finisse, perché se egli l'avesse messa in opera, e fattala a olio come aveva a farla in fresco, ella sarebbe stata veramente un miracolo. Ma egli fu sempre nemico del lavorare in fresco, e però si andò temporeggiando in fare i cartoni, per farla finire a Raffaello dal Borgo et altri, tanto ch'ella non si fece.
In quel medesimo tempo, essendo persona cortese, fece molti disegni in Arezzo e fuori, per pitture e fabriche: come ai rettori della fraternita quello della cappella che è a' piè di piazza, dove è oggi il volto santo, per i quali aveva disegnato una tavola che s'aveva a porre di sua mano nel medesimo luogo, dentro una Nostra Donna che ha sotto il manto un popolo. Il quale disegno, che non fu messo in opera, è nel nostro libro insieme con molti altri bellissimi di mano del medesimo. Ma tornando all'opera ch'egli doveva fare alla Madonna delle Lacrime, gl'entrò mallevadore di questa opera Giovanni Antonio Lappoli aretino et amico suo fidatissimo, che con ogni modo di servitù gli usò termini di amorevolezza. Ma l'anno 1530, essendo l'assedio intorno a Fiorenza, et essendo gli Aretini, per la poca prudenza di papa Altoviti, rimasi in libertà , essi combatterono la cittadella e la mandarono a terra. E perché que' popoli mal volentieri vedevano i Fiorentini, il Rosso non si volle fidar di essi e se n'andò al Borgo San Sepolcro, lasciando i cartoni et i disegni dell'opera serrati in Cittadella: perché quelli che a Castello gli aveva allogato la tavola, volsero che la finisse; e per il male che avea avuto a Castello, non volle ritornarvi, e così al Borgo finì la tavola loro. Né mai a essi volse dare allegrezza di poterla vedere: dove figurò un popolo et un Cristo in aria adorato da quattro figure, e quivi fece Mori, Zingani e le più strane cose del mondo; e da le figure in fuori, che di bontà son perfette, il componimento attende a ogni altra cosa, che all'animo di coloro che gli chiesero tale pittura. In quel medesimo tempo, che tal cosa faceva, disotterrò de' morti nel vescovado ove stava, e fece una bellissima notomia. E nel vero era il Rosso studiosissimo delle cose dell'arte, e pochi giorni passavano che non disegnasse qualche nudo di naturale.
Ora, avendo egli sempre avuto capriccio di finire la sua vita in Francia e torsi, come diceva egli, a una certa miseria e povertà nella quale si stanno gli uomini che lavorano in Toscana e ne' paesi dove sono nati, deliberò di partirsi. Et avendo a punto, per comparire più pratico in tutte le cose et essere universale, apparata la lingua latina, gli venne occasione d'affrettare maggiormente la sua partita, perciò che, essendo un giovedì santo, quando si dice matutino la sera, un giovinetto aretino suo creato in chiesa, e facendo con un moccolo acceso e con pece greca alcune vampe e fiamme di fuoco, mentre si facevano, come si dice, le tenebre, fu il putto da alcuni preti sgridato et alquanto percosso. Di che avedutosi il Rosso, al quale sedeva il fanciullo a canto, si rizzò con mal animo alla volta del prete. Perché levatosi il rumore, né sapendo alcuno onde la cosa venisse, fu cacciato mano alle spade contra il povero Rosso, il quale era alle mani con i preti. Onde egli datosi a fuggire, con destrezza si ricoverò nelle stanze sue, senza essere stato offeso o raggiunto da nessuno. Ma tenendosi per ciò vituperato, finita la tavola di Castello, senza curarsi del lavoro d'Arezzo, o del danno che faceva a Gioan Antonio suo mallevadore, avendo avuto più di centocinquanta scudi, si partì di notte, e facendo la via di Pesaro, se n'andò a Vinezia. Dove essendo da Messer Pietro Aretino trattenuto, gli disegnò in una carta, che poi fu stampata, un Marte che dorme con Venere e gl'Amori, e le Grazie che lo spogliano e gli traggono la corazza. Da Vinezia partito, se n'andò in Francia, dove fu con molte carezze dalla nazione fiorentina ricevuto. Quivi fatti alcuni quadri, che poi furono posti in Fontanableò nella galleria, gli donò al re Francesco, al quale piacquero infinitamente, ma molto più la presenza, il parlare e la maniera del Rosso, il quale era grande di persona, di pelo rosso conforme al nome, et in tutte le sue azzioni grave, considerato e di molto giudizio. Il re, adunque, avendogli subito ordinato una provisione di quattrocento scudi, e donatogli una casa in Parigi, la quale abitò poco per starsi il più del tempo a Fontanableò, dove aveva stanze e vivea da signore, lo fece capo generale sopra tutte le fabriche, pitture et altri ornamenti di quel luogo. Nel quale primieramente diede il Rosso principio a una galleria sopra la bassa corte, facendo di sopra non volta, ma un palco, o vero soffittato di legname con bellissimo spartimento; le facciate dalle bande fece tutte lavorate di stucchi, con partimenti bizzarri e stravaganti e di più sorti cornici intagliate, con figure ne' reggimenti grandi quanto il naturale, adornando ogni cosa sotto le cornici, fra l'un reggimento e l'altro, di festoni di stucco ricchissimi, e d'altri di pittura con frutti bellissimi e verzure d'ogni sorte. E dopo, in un vano grande, fece dipignere col suo disegno (se bene ho inteso il vero) circa ventiquattro storie, a fresco, credo, dei fatti d'Alessandro Magno; facendo esso come ho detto tutti i disegni, che furono d'acquerello e di chiaro scuro. Nelle due testate di questa galleria sono due tavole a olio di sua mano disegnate e dipinte, di tanta perfezzione, che di pittura si può vedere poco meglio. Nell'una delle quali è un Bacco et una Venere, fatti con arte maravigliosa e con giudizio. È il Bacco un giovinetto nudo, tanto tenero, delicato e dolce, che par di carne veramente e palpabile, e più tosto vivo che dipinto. Et intorno a esso sono alcuni vasi finti d'oro, d'argento, di cristallo e di diverse pietre finissime, tanto stravaganti e con tante bizzarrie attorno, che resta pieno di stupore chiunche vede quest'opera con tante invenzioni. Vi è anco fra l'altre cose, un satiro, che lieva una parte d'un padiglione, la testa del quale è di maravigliosa bellezza in quella sua strana cera caprina, e massimamente, che par che rida e tutto sia festoso in veder così bel giovinetto. Èvvi anco un putto a cavallo sopra un orso bellissimo, e molti altri graziosi e belli ornamenti a torno. Nell'altro è un Cupido e Venere con altre belle figure. Ma quello in che pose il Rosso grandissimo studio fu il Cupido: perché finse un putto di dodici anni, ma cresciuto e di maggiori fattezze che di quella età non si richiede, et in tutte le parti bellissimo. Le quali opere vedendo il re, e piacendogli sommamente, pose al Rosso incredibile affezione, onde non passò molto, che gli diede un canonicato nella santa capella della Madonna di Parigi, et altre tante entrate et utili, che il Rosso con buon numero di servidori e di cavalli viveva da signore e facea banchetti e cortesie straordinarie a tutti i conoscenti et amici, e massimamente ai forestieri italiani, che in quelle parti capitavano. Fece poi un'altra sala, chiamata il Padiglione, perché è sopra il primo piano delle stanze di sopra, che viene a essere l'ultima sopra tutte l'altre et in forma di padiglione, la quale stanza condusse dal piano del pavimento fino agl'arcibanchi, con varii e belli ornamenti di stucchi, e figure tutte tonde spartite con egual distanza, con putti, festoni e varie sorti d'animali. E negli spartimenti de' piani n'è una figura a fresco a sedere, in sì gran numero, che in essi si veggiono figurati tutti gli dèi e dee degl'an...
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