[Pagina precedente]...endo dunque Alfonso ricevuto molti doni e cortesie dal duca Alessandro, se ne tornò a Bologna; dove, essendo anco per la morte del cardinale poco contento e per la perdita delle sepolture molto dolente, gli venne una rogna pestifera et incurabile, che a poco a poco l'andò consumando fin che, condottosi a 49 anni della sua età , passò a miglior vita, continuamente dolendosi della fortuna che gl'avesse tolto un signore dal quale poteva sperare tutto quel bene che poteva farlo in questa vita felice; e che ella doveva pur prima chiuder gl'occhi a lui condottosi a tanta miseria, che al cardinale Ippolito de' Medici.
Morì Alfonso l'anno 1536.
Michelagnolo scultore sanese, poi che ebbe consumato i suoi migliori anni in Schiavonia con altri eccellenti scultori, si condusse a Roma con questa occasione. Morto papa Adriano, il cardinale Hincfort, il quale era stato dimestico e creato di quel Pontefice, non ingrato de' benefizii da lui ricevuti deliberò di fargli una sepoltura di marmo e ne diede cura a Baldassarre Petrucci pittor sanese, il quale fattone il modello, volle che Michelagnolo scultore suo amico e compatriota ne pigliasse carico sopra di sé. Michelagnolo dunque fece in detta sepoltura esso papa Adriano grande quanto il vivo, disteso in sulla cassa e ritratto di naturale, e sotto a quello in una storia pur di marmo, la sua venuta a Roma et il popolo romano, che va a incontrarlo e l'adora. Intorno poi sono in quattro nicchie, quattro Virtù di marmo: la Giustizia, la Fortezza, la Pace e la Prudenza, tutte condotte con molta diligenza dalla mano di Michelagnolo e dal consiglio di Baldassarre; bene è vero che alcune delle cose che sono in quell'opera, furono lavorate dal Tribolo scultore fiorentino allora giovanetto, e queste fra tutte furono stimate le migliori. E perché Michelagnolo con sottilissima diligenza lavorò le cose minori di quell'opera, le figure piccole che vi sono meritano di essere più che tutte l'altre lodate. Ma fra l'altre cose vi sono alcuni mischi con molta pulitezza lavorati e commessi tanto bene, che più non si può desiderare. Per le quali fatiche fu a Michelagnolo dal detto cardinale donato giusto et onorato premio e poi sempre carezzato mentre che visse; e nel vero a gran ragione, perciò che questa sepoltura e gratitudine non ha dato minor fama al cardinale che a Michelagnolo si facesse nome in vita e fama dopo la morte. La quale opera finita non andò molto che Michelagnolo passò da questa all'altra vita d'anni cinquanta in circa.
Girolamo Santa Croce napolitano, ancor che nel più bel corso della sua vita, e quando di lui maggior cose si speravano, ci fusse dalla morte rapito, mostrò nell'opere di scultura, che in que' pochi anni fece in Napoli, quello che arebbe fatto se fusse più lungamente vivuto. L'opere, adunque, che costui lavorò di scultura in Napoli, furono con quell'amore condotte e finite, che maggiore si può desiderare in un giovane che voglia di gran lunga avanzar gl'altri che abbiano inanzi a lui tenuto in qualche nobile esercizio molti anni il principato. Lavorò costui in San Giovanni Carbonaro di Napoli la capella del marchese di Vico, la quale è un tempio tondo, partito in colonne e nicchie, con alcune sepolture intagliate con molta diligenza. E perché la tavola di questa capella, nella quale sono di mezzo rilievo in marmo i Magi che offeriscono a Cristo, è di mano d'uno Spagnuolo, Girolamo fece a concorrenza di quella un San Giovanni di tondo rilievo in una nicchia così bello che mostrò non esser inferiore allo Spagnuolo né d'animo, né di giudizio; onde si acquistò tanto nome, che ancor che in Napoli fusse tenuto scultore maraviglioso, e di tutti migliore Giovanni da Nola, egli nondimeno lavorò mentre Giovanni visse a sua concorrenza, ancor che Giovanni fusse già vecchio et avesse in quella città , dove molto si costuma fare le capelle e le tavole di marmo, lavorato moltissime cose. Prese dunque Girolamo per concorrenza di Giovanni a fare una capella in Monte Oliveto di Napoli dentro la porta della chiesa a man manca, dirimpetto alla quale ne fece un'altra dall'altra banda Giovanni del medesimo componimento. Fece Girolamo nella sua una Nostra Donna quanto il vivo tutta tonda, che è tenuta bellissima figura. E perché misse infinita diligenza nel fare i panni, le mani e spiccare con straforamenti il marmo, la condusse a tanta perfezzione che fu openione che egli avesse passato tutti coloro che in Napoli avevano adoperato al suo tempo ferri per lavorare di marmo. La qual Madonna pose in mezzo a un S. Giovanni et un San Piero, figure molto bene intese e con bella maniera lavorate e finite, come sono anco alcuni fanciulli che sono sopra queste collocati. Fece oltre ciò nella chiesa di Capella, luogo de' monaci di Monte Oliveto, due statue grandi di tutto rilievo, bellissime. Dopo cominciò una statua di Carlo Quinto imperatore, quando tornò da Tunisi, e quella abbozzata e subbiata in alcuni luoghi, rimase gradinata; perché la fortuna e la morte invidiando al mondo tanto bene, ce lo tolsero d'anni trentacinque. E certo se Girolamo vivea, si sperava che sì come aveva nella sua professione avanzati tutti quelli della sua patria, così avesse a superare tutti gl'artefici del tempo suo. Onde dolse a' Napoletani infinitamente la morte di lui e tanto più, quanto egli era stato dalla natura dotato, non pure di bellissimo ingegno, ma di tanta modestia, umanità e gentilezza, quanto più non si può in uomo desiderare; per che non è maraviglia, se tutti coloro che lo conobbono quando di lui ragionano non possono tenere le lacrime. L'ultime sue sculture furono l'anno 1537, nel quale anno fu sotterrato in Napoli con onoratissime essequie, rimanendo anco vivo il detto Giovanni da Nola vecchio et assai pratico scultore, come si vede in molte opere fatte in Napoli con buona pratica, ma con non molto disegno. A costui fece lavorare don Petro di Tolledo marchese di Villafranca et allora vece re di Napoli, una sepoltura di marmo per sé e per la sua donna; nella quale opera fece Giovanni una infinità di storie delle vittorie ottenute da quel signore contra i Turchi, con molte statue, che sono in quell'opera tutta isolata, e condotta con molta diligenza. Doveva questo sepolcro esser portato in Ispagna, ma non avendo ciò fatto mentre visse quel signore, si rimase in Napoli.
Morì Giovanni d'anni settanta e fu sotterrato in Napoli l'anno 1558.
Quasi ne' medesimi tempi che il cielo fece dono a Ferrara, anzi al mondo, del divino Lodovico Ariosto, nacque il Dosso pittore nella medesima città , il quale, se bene non fu così raro tra i pittori come l'Ariosto tra i poeti, si portò non di meno per sì fatta maniera nell'arte, che oltre all'essere state in gran pregio le sue opere in Ferrara, meritò anco che il dotto poeta amico e dimestico suo facesse di lui onorata memoria ne' suoi celebratissimi scritti. Onde al nome del Dosso ha dato maggior fama la penna di Messer Lodovico, che non fecero tutti i pennelli e colori che consumò in tutta sua vita. Onde io per me confesso che grandissima ventura è quella di coloro che sono da così grandi uomini celebrati; perché il valor della penna sforza infiniti a dar credenza alle lodi di quelli, ancor che interamente non le meritino.
Fu il Dosso molto amato dal duca Alfonso di Ferrara, prima per le sue qualità nell'arte della pittura e poi per essere uomo affabile molto e piacevole, della quale maniera d'uomini molto si dilettava quel Duca. Ebbe in Lombardia nome il Dosso di far meglio i paesi che alcun altro che di quella pratica operasse, o in muro o a olio o a guazzo; massimamente da poi che si è veduta la maniera tedesca. Fece in Ferrara nella chiesa catedrale una tavola con figure a olio, tenuta assai bella, e lavorò nel palazzo del Duca molte stanze in compagnia d'un suo fratello detto Battista, i quali sempre furono nimici l'uno dell'altro, ancor che per voler del Duca lavorassero insieme. Fecero di chiaro scuro nel cortile di detto palazzo istorie d'Ercole et una infinità di nudi per quelle mura. Similmente per tutta Ferrara lavorarono molte cose in tavola et in fresco. E di lor mano è una tavola del Duomo di Modena. Et in Trento nel palazzo del cardinale in compagnia d'altri pittori fecero molte cose di lor mano. Ne' medesimi tempi, facendo Girolamo Genga pittore et architettore, per il duca Francesco Maria d'Urbino sopra Pesero al palazzo dell'imperiale molti ornamenti, come al suo luogo si dirà , fra molti pittori, che a quell'opera furono condotti per ordine del detto signor Francesco Maria, vi furono chiamati Dosso e Battista ferraresi, massimamente per far paesi, avendo molto innanzi fatto in quel palazzo molte pitture Francesco di Mirozzo da Forlì, Raffaello dal Colle del Borgo a Sansepolcro e molti altri. Arrivati dunque il Dosso e Battista all'imperiale, come è usanza di certi uomini così fatti, biasimarono la maggior parte di quelle cose che videro e promessero a quel signore di voler essi fare cose molto migliori; per che il Genga, che era persona accorta, vedendo dove la cosa doveva riuscire, diede loro a dipignere una camera da per loro. Onde essi messesi a lavorare si sforzarono con ogni fatica e studio di mostrare la virtù loro. Ma qualunque si fusse di ciò la cagione, non fecero mai in tutto il tempo di lor vita alcuna cosa meno lodevole, anzi peggio di quella. E pare che spesso avvenga che gl'uomini nei maggior bisogni e quando sono in maggior aspettazione, abagliandosi et acecandosi il giudizio, facciano peggio che mai: il che può forse avvenire dalla loro malignità e cattiva natura di biasimare sempre le cose altrui o dal troppo volere sforzare l'ingegno; essendo che nell'andar di passo e come porge la natura, senza mancar però di studio e diligenza, pare che sia miglior modo che il voler cavar le cose quasi per forza dell'ingegno, dove non sono; donde è vero che anco nell'altre arti e massimamente negli scritti, troppo bene si conosce l'affettazione e per dir così il troppo studio in ogni cosa. Scopertasi dunque l'opera dei Dossi, ella fu di maniera ridicola che si partirono con vergogna da quel signore; il quale fu forzato a buttar in terra tutto quello che avevano lavorato e farlo da altri ridipignere con il disegno del Genga. In ultimo fecero costoro nel duomo di Faenza per Messer Giovambattista cavaliere de' Buosi una molto bella tavola d'un Cristo che disputa nel tempio, nella quale opera vinsero se stessi, per la nuova maniera che vi usarono e massimamente nel ritratto di detto cavaliere e d'altri. La qual tavola fu posta in quel luogo l'anno 1536. Finalmente divenuto Dosso già vecchio, consumò gl'ultimi anni senza lavorare, essendo insino all'ultimo della vita provisionato dal duca Alfonso. Finalmente dopo lui rimase Battista, che lavorò molte cose da per sé, mantenendosi in buono stato. E Dosso fu sepellito in Ferrara sua patria.
Visse ne' tempi medesimi il Bernazzano Milanese, eccellentissimo per far paesi, erbe, animali et altre cose terrestri, volatili et acquatici. E perché non diede molta opera alle figure, come quello che si conosceva imperfetto, fece compagnia con Cesare da Sesto, che le faceva molto bene e di bella maniera. Dicesi che il Bernazzano fece in un cortile a fresco certi paesi molto belli e tanto bene imitati, che essendovi dipinto un fragoleto pieno di fragole mature, acerbe e fiorite, alcuni pavoni ingannati dalla falsa apparenza di quelle, tanto spesso tornarono a beccarle che bucarono la calcina dell'intonaco.
VITA DI GIOVANNI ANTONIO LICINIO DA PORDENONE E D'ALTRI PITTORI DEL FRIULI
Pare, sì come si è altra volta a questo proposito ragionato, che la natura benigna, madre di tutti, faccia alcuna fiata dono di cose rarissime ad alcuni luoghi, che non ebbero mai di cotali cose alcuna conoscenza; e ch'ella faccia anco talora nascere in un paese di maniera gl'uomini inclinati al disegno et alla pittura, che senza altri maestri, solo imitando le cose vive e naturali, divengono eccellentissimi. Ed adiviene ancora bene spesso che, cominciando un solo, molti si mettono a far a concorre...
[Pagina successiva]