[Pagina precedente]...ssempio d'incredibile bellezza et onestà , tanto bene, che da donna, in ciò per le dette cagioni non molto pratica, non si può più oltre desiderare.
Similmente ha con molta sua lode atteso al disegno et alla pittura et attende ancora, avendo imparato da Alessandro Allori allievo del Bronzino, Madonna Lucrezia figliuola di Messer Alfonso Quistelli dalla Mirandola e donna oggi del conte Clemente Pietra; come si può vedere in molti quadri e ritratti che ha lavorati di sua mano, degni d'esser lodati da ognuno. Ma Soffonisba Cremonese figliuola di Messer Amilcaro Angusciuola, ha con più studio e con miglior grazia che altra donna de' tempi nostri faticato dietro alle cose del disegno, perciò che ha saputo non pure disegnare, colorire e ritrarre di naturale e copiare eccellentemente cose d'altri, ma da sé sola ha fatto cose rarissime e bellissime di pittura. Onde ha meritato che Filippo re di Spagna, avendo inteso dal signor Duca d'Alba le virtù e meriti suoi, abbia mandato per lei e fattala condurre onoratissimamente in Ispagna, dove la tiene appresso la reina con grossa provisione e con stupor di tutta quella corte che ammira, come cosa maravigliosa, l'eccellenza di Soffonisba. E non è molto, che Messer Tommaso Cavalieri, gentiluomo romano, mandò al signor duca Cosimo (oltre una carta di mano del divino Michelagnolo dove è una Cleopatra) un'altra carta di mano di Sofonisba, nella quale è una fanciullina che si ride di un putto che piagne, perché avendogli ella messo inanzi un canestrino pieno di gambari, uno d'essi gli morde un dito. Del quale disegno non si può veder cosa più graziosa, né più simile al vero. Onde io in memoria della virtù di Sofonisba, poiché vivendo ella in Ispagna non ha l'Italia copia delle sue opere, l'ho messo nel nostro libro de' disegni. Possiamo dunque dire col divino Ariosto e con verità che:
Le donne son venute in eccellenza
di ciascun'arte ov'hanno posto cura.
E questo sia il fine della vita di Properzia, scultrice bolognese.
VITE D'ALFONSO LOMBARDI FERRARESE DI MICHELAGNOLO DA SIENA E DI GIROLAMO S. CROCE NAPOLETANO SCULTORI E DI DOSSO E BATTISTA PITTORI FERRARESI
Alfonso Ferrarese, lavorando nella sua prima giovanezza di stucchi e di cera, fece infiniti ritratti di naturale in medagliette piccole a molti signori e gentiluomini della sua patria; alcuni de' quali, che ancora si veggiono di cera e stucco bianchi, fanno fede del buon ingegno e giudizio ch'egli ebbe, come sono quello del principe Doria, d'Alfonso duca di Ferrara, di Clemente Settimo, di Carlo Quinto imperatore, del cardinale Ippolito de' Medici, del Bembo, dell'Ariosto e d'altri simili personaggi. Costui trovandosi in Bologna per la incoronazione di Carlo Quinto, dove aveva fatto per quello apparato gl'ornamenti della porta di S. Petronio, fu in tanta considerazione, per essere il primo che introducesse il buon modo di fare ritratti di naturale, in forma di medaglie, come si è detto, che non fu alcun grande uomo in quelle corti per lo quale egli non lavorasse alcuna cosa, con suo molto utile et onore. Ma non si contentando della gloria et utile che gli veniva dal fare opere di terra, di cera e di stucco, si mise a lavorar di marmo et acquistò tanto in alcune cose di non molta importanza che fece, che gli fu dato a lavorare in San Michele in Bosco fuori di Bologna la sepoltura di Ramazzotto, la quale gli acquistò grandissimo onore e fama. Dopo la quale opera, fece nella medesima città alcune storiette di marmo di mezzo rilievo all'arca di San Domenico nella predella dell'altare. Fece similmente per la porta di San Petronio in alcune storiette di marmo a man sinistra, entrando in chiesa, la Resurrezzione di Cristo, molto bella. Ma quello che ai Bolognesi piacque sommamente fu la morte di Nostra Donna in figure tonde di mistura e di stucco molto forte, nello spedale della Vita, nella stanza di sopra. Nella quale opera è fra l'altre cose maraviglioso il giudeo, che lascia appiccate le mani al cataletto della Madonna. Fece anco della medesima mistura nel palazzo publico di quella città , nella sala di sopra del governatore, un Ercole grande che ha sotto l'Idra morta. La quale statua fu fatta a concorrenza di Zacheria da Volterra, il quale fu di molto superato dalla virtù et eccellenza d'Alfonso. Alla Madonna del Baracane fece il medesimo due Angeli di stucco, che tengono un padiglione di mezzo rilievo; et in San Giuseppo nella nave di mezzo fra un arco e l'altro fece di terra in alcuni tondi i dodici Apostoli dal mezzo in su di tondo rilievo. Di terra parimente fece nella medesima città nei cantoni della volta della Madonna del Popolo, quattro figure maggiori del vivo; cioè S. Petronio, San Procolo, San Francesco e San Domenico, che sono figure bellissime e di gran maniera. Di mano del medesimo sono alcune cose pur di stucco a Castel Bolognese, et alcune altre in Cesena nella Compagnia di San Giovanni. Né si maravigli alcuno se in sin qui non si è ragionato che costui lavorasse quasi altro che terra, cera e stucchi e pochissimo di marmo, perché oltre che Alfonso fu sempre in questa maniera di lavori inclinato, passata una certa età , essendo assai bello di persona e d'aspetto giovinile, esercitò l'arte più per piacere e per una certa vanagloria, che per voglia di mettersi a scarpellare sassi. Usò sempre di portare alle braccia et al collo e ne' vestimenti, ornamenti d'oro et altre frascherie, che lo dimostravano più tosto uomo di corte lascivo e vano che artefice desideroso di gloria. E nel vero quanto risplendono cotali ornamenti in coloro ai quali per ricchezze, stati e nobiltà di sangue non disconvengono, tanto sono degni di biasimo negl'artefici et altre persone, che non deono, chi per un rispetto e chi per un altro, agguagliarsi a gl'uomini ricchissimi; perciò che in cambio d'esserne questi cotali lodati, sono dagl'uomini di giudizio meno stimati e molte volte scherniti. Alfonso dunque invaghito di se medesimo et usando termini e lascivie poco convenienti a virtuoso artefice, si levò con sì fatti costumi alcuna volta, tutta quella gloria che gl'aveva acquistato l'affaticarsi nel suo mestiero; perciò che trovandosi una sera a certe nozze in casa d'un conte in Bologna et avendo buona pezza fatto all'amore con una onoratissima gentildonna, fu per avventura invitato da lei al ballo della torcia: perché aggirandosi con essa, vinto da smania d'amore, disse con un profondissimo sospiro e con voce tremante, guardando la sua donna con occhi pieni di dolcezza:
"S'amor non è, che dunque è quel ch'io sento?"
Il che udendo la gentildonna, che accortissima era, per mostrargli l'error suo, rispose: "È sarà qualche pidocchio". La qual risposta, essendo udita da molti, fu cagione che s'empiesse di questo motto tutta Bologna e ch'egli ne rimanesse sempre scornato. E veramente se Alfonso avesse dato opera non alle vanità del mondo, ma alle fatiche dell'arte, egli avrebbe senza dubbio fatto cose maravigliose. Perché se ciò faceva in parte, non si essercitando molto, che averebbe fatto se avesse durato fatica?
Essendo il detto imperador Carlo Quinto in Bologna e venendo l'eccellentissimo Tiziano da Cadór a ritrarre Sua Maestà , venne in desiderio Alfonso di ritrarre anch'egli quel signore; né avendo altro commodo di potere ciò fare, pregò Tiziano senza scoprirgli quello che aveva in animo di fare, che gli facesse grazia di condurlo, in cambio d'un di coloro che gli portavano i colori, alla presenza di Sua Maestà . Onde Tiziano, che molto l'amava, come cortesissimo che è sempre stato veramente, condusse seco Alfonso nelle stanze dell'imperatore. Alfonso dunque, posto che si fu Tiziano a lavorare, se gl'accommodò dietro in guisa che non poteva da lui, che attentissimo badava al suo lavoro, esser veduto. E messo mano a una sua scatoleta in forma di medaglia, ritrasse in quella di stucco l'istesso imperadore e l'ebbe condotto a fine, quando appunto Tiziano ebbe finito anch'egli il suo ritratto. Nel rizzarsi dunque l'imperatore, Alfonso chiusa la scatola, se l'aveva, acciò Tiziano non la vedesse, già messa nella manica, quando dicendogli Sua Maestà : "Mostra quello che tu hai fatto", fu forzato a dare umilmente quel ritratto in mano dell'imperatore, il quale avendo considerato e molto lodato l'opera, gli disse: "Bastarebbeti l'animo di farla di marmo?". "Sacra Maestà , sì", rispose Alfonso. "Falla dunque", soggiunse l'imperatore, "e portamela a Genova." Quanto paresse nuovo questo fatto a Tiziano, se lo può ciascuno per se stesso imaginare. Io per me credo che gli paresse avere messo la sua virtù in compromesso. Ma quello che più gli dovette parer strano, si fu che mandando Sua Maestà a donare mille scudi a Tiziano, gli commise che ne desse la metà , cioè cinquecento, ad Alfonso, e gl'altri cinquecento si tenesse per sé. Di che è da credere, che seco medesimo si dolesse Tiziano. Alfonso dunque messosi con quel maggiore studio che gli fu possibile a lavorare, condusse con tanta diligenza a fine la testa di marmo, che fu giudicata cosa rarissima. Onde meritò, portandola all'imperatore, che Sua Maestà gli facesse donare altri trecento scudi. Venuto Alfonso per i doni e per le lodi dategli da Cesare in riputazione, Ippolito cardinal de' Medici lo condusse a Roma, dove aveva appresso di sé, oltre agl'altri infiniti virtuosi, molti scultori e pittori; e gli fece da una testa antica molto lodata ritrarre in marmo Vitellio imperatore. Nella quale opera, avendo confirmata l'openione che di lui aveva il cardinale e tutta Roma, gli fu dato a fare dal medesimo in una testa di marmo il ritratto naturale di papa Clemente Settimo; e poco appresso quello di Giuliano de' Medici padre di detto cardinale; ma questa non restò del tutto finita. Le quali teste furono poi vendute in Roma e da me comperate a requisizione del Magnifico Ottaviano de' Medici, con alcune pitture. Et oggi dal signor duca Cosimo de' Medici sono state poste nelle stanze nuove del suo palazzo, nella sala dove sono state fatte da me nel palco e nelle facciate, di pittura, tutte le storie di papa Leone Decimo; sono state poste dico in detta sala sopra le porte fatte di quel mischio rosso che si truova vicino a Fiorenza, in compagnia d'altre teste d'uomini illustri della casa de' Medici.
Ma tornando ad Alfonso, egli seguitò poi di fare di scultura al detto cardinale molte cose, che per essere state piccole si sono smarrite. Venendo poi la morte di Clemente e dovendosi fare la sepoltura di lui e di Leone, fu ad Alfonso allogata quell'opera dal cardinale de' Medici. Per che avendo egli fatto sopra alcuni schizzi di Michelagnolo Buonarroti un modello con figure di cera, che fu tenuta cosa bellissima, se n'andò con danari a Carrara per cavare i marmi. Ma essendo non molto dopo morto il cardinale a Itri, essendo partito di Roma per andar in Africa, uscì di mano ad Alfonso quell'opera, perché da' cardinali Salviati, Ridolfi, Pucci, Cibò e Gaddi commessarii di quella, fu ributtato. E dal favore di Madonna Lucrezia Salviati, figliuola del gran Lorenzo Vecchio de' Medici e sorella di Leone, allogata a Baccio Bandinelli scultor fiorentino, che ne aveva, vivendo Clemente, fatto i modelli; per la qual cosa Alfonso mezzo fuor di sé, posta giù l'alterezza, deliberò tornarsene a Bologna, et arrivato a Fiorenza, donò al duca Alessandro una bellissima testa di marmo d'un Carlo Quinto imperatore, la quale è oggi in Carrara, dove fu mandata dal cardinale Cibò, che la cavò alla morte del duca Alessandro della guardaroba di quel signore. Era in umore il detto Duca, quando arrivò Alfonso in Fiorenza, di farsi ritrarre: perché, avendolo fatto Domenico di Polo, intagliatore di ruote, e Francesco di Girolamo dal Prato in medaglia, Benvenuto Cellini per le monete, e di pittura Giorgio Vasari aretino e Iacopo da Puntormo, volle che anco Alfonso lo ritraesse; perché, avendone egli fatto uno di rilievo molto bello e miglior assai di quello che avea fatto il Danese da Carrara, gli fu dato commodità , poiché ad ogni modo voleva andar a Bologna, di farne là un di marmo simile al modello. Av...
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