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Gli misero alla morte al capo nella sala, ove lavorava, la tavola della Trasfigurazione che aveva finita per il cardinale de' Medici, la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l'anima di dolore a ogni uno che quivi guardava. La quale tavola per la perdita di Raffaello fu messa dal cardinale a San Pietro a Montorio allo altar maggiore; e fu poi sempre per la rarità d'ogni suo gesto in gran pregio tenuta. Fu data al corpo suo quella onorata sepoltura che tanto nobile spirito aveva meritato, perché non fu nessuno artefice che dolendosi non piagnesse et insieme alla sepoltura non l'accompagnasse. Dolse ancora sommamente la morte sua a tutta la corte del Papa, prima per avere egli avuto in vita uno officio di cubiculario et appresso per essere stato sì caro al Papa che la sua morte amaramente lo fece piagnere. O felice e beata anima, da che ogn'uomo volentieri ragiona di te e celebra i gesti tuoi et ammira ogni tuo disegno lasciato. Ben poteva la pittura, quando questo nobile artefice morì, morire anche ella che quando egli gli occhi chiuse, ella quasi cieca rimase. Ora a noi che dopo lui siamo rimasi, resta imitare il buono, anzi ottimo modo, da lui lasciatoci in esempio e come merita la virtù sua e l'obligo nostro, tenerne nell'animo graziosissimo ricordo e farne con la lingua sempre onoratissima memoria. Che invero noi abbiamo per lui l'arte, i colori e la invenzione unitamente ridotti a quella fine e perfezzione che appena si poteva sperare, né di passar lui già mai si pensi spirito alcuno. Et oltre a questo beneficio che e' fece all'arte, come amico di quella, non restò vivendo mostrarci come si negozia con gli uomini grandi, co' mediocri e con gl'infimi. E certo fra le sue doti singulari ne scorgo una di tal valore che in me stesso stupisco: che il cielo gli diede forza di poter mostrare ne l'arte nostra uno effetto sì contrario alle complessioni di noi pittori; questo è che naturalmente gli artefici nostri, non dico solo i bassi, ma quelli che hanno umore d'esser grandi (come di questo umore l'arte ne produce infiniti), lavorando ne l'opere in compagnia di Raffaello stavano uniti e di concordia tale che tutti i mali umori nel veder lui si amorzavano et ogni vile e basso pensiero cadeva loro di mente. La quale unione mai non fu più in altro tempo che nel suo. E questo avveniva perché restavano vinti dalla cortesia e dall'arte sua, ma più dal genio della sua buona natura. La quale era sì piena di gentilezza e sì colma di carità , che egli si vedeva che fino agli animali l'onoravano, non che gli uomini. Dicesi che ogni pittore che conosciuto l'avesse, et anche chi non lo avesse conosciuto, se lo avessi richiesto di qualche disegno che gli bisognasse, egli lasciava l'opera sua per sovvenirlo. E sempre tenne infiniti in opera, aiutandoli et insegnandoli con quello amore che non ad artifici, ma a figliuoli proprii si conveniva. Per la qual cagione si vedeva che non andava mai a corte che partendo di casa non avesse seco cinquanta pittori tutti valenti e buoni che gli facevono compagnia per onorarlo. Egli insomma non visse da pittore, ma da principe: per il che o arte della pittura, tu pur ti potevi allora stimare felicissima avendo un tuo artefice che di virtù e di costumi t'alzava sopra il cielo; beata veramente ti potevi chiamare, da che per l'orme di tanto uomo, hanno pur visto gli allievi tuoi come si vive e che importi l'avere accompagnato insieme arte e virtute; le quali in Raffaello congiunte, potettero sforzare la grandezza di Giulio II e la generosità di Leone X nel sommo grado e degnità che egli erono a farselo familiarissimo et usarli ogni sorte di liberalità , tal che poté col favore e con le facultà che gli diedero fare a sé et a l'arte grandissimo onore. Beato ancora si può dire chi stando a' suoi servigi sotto lui operò, perché ritrovo chiunche che lo imitò essersi a onesto porto ridotto e così quegli che imiteranno le sue fatiche nell'arte saranno onorati dal mondo e, ne' costumi santi lui somigliando, remunerati dal cielo. Ebbe Raffaello dal Bembo questo epitaffio:
D.O.M.
RAPHAEL SANCTIO IOANNIS FILIO
URBINATI
PICTORI EMINENTISSIMO VETERUMQUE AEMULO
CUIUS SPIRANTEIS PROPE IMAGINEIS
SI CONTEMPLERE
NATURAE ATQUE ARTIS FOEDUS
FACILE INSPEXERIS
IULII II ET LEONIS X PONTT MAXX.
PICTURAE ET ARCHITECTURAE OPERIBUS
GLORIAM AUXIT
VIXIT ANNOS XXXVII INTEGER INTEGROS
QUO DIE NATUS EST EO ESSE
DESIIT VIII D APRILIS MDXX.
ILLE HIC EST RAPHAEL, TIMUIT QUO SOSPITE VINCI
RERUM MAGNA PARENS, ET MORIENTE MORI.
Et il conte Baldassarre Castiglione scrisse de la sua morte in questa maniera:
Quod lacerum corpus medica sanaverit arte;
Hippolytum Stigiis et revocarit aquis;
ad Stygias ipse est raptus Epidaurius undas;
sic precium vitae, mors fuit artifici.
Tu quoque dum toto laniatam corpore Romam
componis miro Raphael ingenio;
atque Urbis lacerum ferro, igni, annisque cadaver,
ad vitam, antiquum iam revocasque decus,
movisti superum invidiam indignataque Mors est,
te dudum extinctis reddere posse animam,
et quod longa dies paulatim aboleverat, hoc te
mortali spreta lege parare iterum.
Sic miser heu prima cadis intercepte juventa,
deberi et morti, nostraque nosque mones.
VITA DI GUGLIELMO DA MARCILLA PITTORE FRANZESE E MAESTRO DI FINESTRE INVETRIATE
In questi medesimi tempi, dotati da Dio di quella maggior felicità che possino aver l'arti nostre, fiorì Guglielmo da Marcilla franzese, il quale, per la ferma abitazione et affezione che e' portò alla città d'Arezzo, si può dire se la eleggesse per patria, che da tutti fussi reputato e chiamato aretino. E veramente de' benefizii che si cavano della virtù è uno, che sia pure di che strana e lontana regione o barbara et incognita nazione quale uomo si voglia, pure che egli abbia lo animo ornato di virtù e con le mani faccia alcuno esercizio ingegnoso, nello apparir nuovo in ogni città dove e' camina, mostrando il valor suo, tanta forza ha l'opera virtuosa che di lingua in lingua in poco spazio gli fa nome e le qualità di lui diventano pregiatissime et onoratissime.
E spesso avviene a infiniti, che di lontano hanno lasciato le patrie loro, nel dare d'intoppo in nazioni che siano amiche delle virtù e de' forestieri per buono uso di costumi, trovarsi accarezzati e riconosciuti sì fattamente, ch'e' si scordano il loro nido natìo et un altro nuovo s'eleggono per ultimo riposo; come per ultimo suo nido elesse Arezzo, Guglielmo, il quale nella sua giovanezza attese in Francia all'arte del disegno et insieme con quello diede opera alle finestre di vetro, nelle quali faceva figure di colorito non meno unite che se elle fossero d'una vaghissima et unitissima pittura a olio.
Costui ne' suoi paesi, persuaso da' prieghi d'alcuni amici suoi, si ritrovò alla morte d'un loro inimico, per la qual cosa fu sforzato nella Religione di San Domenico in Francia pigliare l'abito di frate, per essere libero dalla corte e da la giustizia. E se bene egli dimorò nella religione, non però mai abbandonò gli studi dell'arte, anzi continuando gli condusse ad ottima perfezzione. Fu per ordine di papa Giulio II dato commissione a Bramante da Urbino di far fare in palazzo molte finestre di vetro, perché nel domandare che egli fece de' più eccellenti, fra gli altri, che di tal mestiero lavoravano, gli fu dato notizia d'alcuni che facevano in Francia cose maravigliose, e ne vide il saggio per lo ambasciator francese che negoziava allora appresso Sua Santità , il quale aveva in un telaro, per finestra dello studio, una figura lavorata in un pezzo di vetro bianco con infinito numero di colori sopra il vetro lavorati a fuoco; onde per ordine di Bramante fu scritto in Francia che venissero a Roma, offerendogli buone provisioni. Laonde maestro Claudio Franzese, capo di questa arte, avuto tal nuova, sapendo l'eccellenza di Guglielmo, con buone promesse e danari, fece sì che non gli fu difficile trarlo fuor de' frati, avendo egli per le discortesie usategli e per le invidie, che son di continuo fra loro, più voglia di partirsi che maestro Claudio bisogno di trarlo fuora. Vennero dunque a Roma, e lo abito di San Domenico si mutò in quello di San Piero. Aveva Bramante fatto fare allora due fenestre di trevertino nel palazzo del papa, le quali erano nella sala dinanzi alla cappella, oggi abbellita di fabbrica in volta per Antonio da San Gallo, e di stucchi mirabili per le mani di Perino del Vaga fiorentino, le quali fenestre da maestro Claudio e da Guglielmo furono lavorate, ancora che poi per il sacco spezzate per trarne i piombi per le palle degli archibusi, le quali erano certamente maravigliose. Oltra queste ne fecero per le camere papali infinite, delle quali il medesimo avvenne che dell'altre due. Et oggi ancora se ne vede una nella camera del fuoco di Raffaello sopra torre Borgia, nelle quali sono Angeli che tengono l'arme di Leon X.
Fecero ancora in S. Maria del Popolo due fenestre nella capella di dietro alla Madonna con le storie della vita di lei, le quali di quel mestiero furono lodatissime. E queste opere non meno gli acquistarono fama e nome che comodità alla vita. Ma maestro Claudio disordinando molto nel mangiare e bere, come è costume di quella nazione, cosa pestifera all'aria di Roma, ammalò d'una febbre sì grave che in sei giorni passò a l'altra vita. Per che Guglielmo, rimanendo solo e quasi perduto senza il compagno, da sé dipinse una fenestra in Santa Maria de Anima, chiesa de' Tedeschi in Roma, pur di vetro, la quale fu cagione che Silvio cardinale di Cortona gli fece offerte e convenne seco perché in Cortona sua patria alcune fenestre et altre opere gli facesse, onde seco in Cortona lo condusse a abitare. E la prima opera che facesse fu la facciata di casa sua, che è volta su la piazza, la quale dipinse di chiaro oscuro e dentro vi fece Crotone e gli altri primi fondatori di quella città . Laonde il cardinale, conoscendo Guglielmo non meno buona persona che ottimo maestro di quella arte, gli fece fare nella Pieve di Cortona la fenestra della cappella maggiore; nella quale fece la Natività di Cristo et i Magi che l'adorano. Aveva Guglielmo bello spirito, ingegno e grandissima pratica nel maneggiare i vetri, e massimamente nel dispensare in modo i colori che i chiari venissero nelle prime figure et i più oscuri, di mano in mano, in quelle che andavano più lontane; et in questa parte fu raro e veramente eccellente. Ebbe poi nel dipignergli ottimo giudizio, onde conduceva le figure tanto unite che elle si allontanavano a poco a poco, per modo che non si apiccavano, né con i casamenti, né con i paesi, e parevano dipinte in una tavola o più tosto di rilievo. Ebbe invenzione e varietà nella composizione delle storie e le fece ricche e molto accomodate, agevolando il modo di fare quelle pitture che vanno commesse di pezzi di vetri, il che pareva et è veramente, a chi non ha questa pratica e destrezza, difficilissimo. Disegnò costui le sue pitture per le finestre con tanto buon modo et ordine, che le commettiture de' piombi e de' ferri che attraversano in certi luoghi l'accomodarono di maniera nelle congiunture delle figure e nelle pieghe de' panni, che non si conoscano, anzi davano tanta grazia che più non arebbe fatto il pennello e così seppe fare della necessità virtù.
Adoprava Guglielmo solamente di due sorti colori per ombrare que' vetri che voleva reggessino al fuoco: l'uno fu scaglia di ferro e l'altro scaglia di rame. Quella di ferro nera gl'ombrava i panni, i capelli et i casamenti, e l'altra, cioè quella di rame, che fa tané, le carnagioni. Si serviva anco assai d'una pietra dura, che viene di Fiandra e di Francia, che oggi si chiama lapis amotica, che è di colore rosso e serve molto per brunire l'oro; e pesta prima in un mortaio di bronzo e poi con un macinello di ferro sopra una piastra di rame o d'ottone e temperata a gomma, in sul vetro fa divinamente. Non aveva Guglielmo, quando prima arivò a Roma, se bene era pratico nell'altre cose, molto disegno, ma conosciuto il bisogno, se bene era in là co...
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