LA VIRTU' SCONOSCIUTA, di Vittorio Alfieri - pagina 3
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VITTORIO
Oh anima veramente sublime, che tutto innalza quanto ella tocca! anima, che per nulla aver fatto, ed ogni cosa sentito, tanto è maggiore d'ogni altra, e direi, di sé stessa!
FRANCESCO
Deh, modera questi tuoi affettuosi trasporti.
Tanti altri uomini vi sarà, che così pensano e praticano tutto dì...
VITTORIO
Ed ecco ancora un'altra particolar tua grandezza.
Gli uomini conosci, ed i tempi; e sì pure ti ostini a reputare non rara cosa la virtù, ed il vero.
Senza avvedertene, tu giudichi altrui da te stesso; e così, senza volerlo, te sovra ogni altro fai grande.
Ma, dimmi ancora: come mai col cuore e la mente così pieni e infiammati del bello (cioè del vero); con una tempra di carattere così magnanimamente sdegnoso, impaziente, e bollente; come potevi tu essere coi dotti, o pretesi tali, cotanto modesto; cogli ignoranti così umano; coi saputi così discreto; e coi soverchiatori in fine cotanto signor del tuo sdegno?
FRANCESCO
Non fare mai, né dir nulla invano, fu sempre la principale mia massima.
E siccome, per mostrarmi io erudito, (se pure stato lo fossi) già non avrei in tutti costoro scemato l'orgoglio, ma di gran lunga bensì accresciuto in essi l'odio e la rabbia della lor dimostrata insufficienza, mi solea perciò tacere, o non parlare, se non richiesto: e ciò brevemente facea, e accompagnando sempre le parole mie col mi pare; formola, che tengono essi cotanto cara in altrui, mentre pure non esce mai di lor bocca.
Ma, non crederai tu per ciò, che io avessi concepito il puerile e basso disegno di piacere a tutti, compiacendo ai più, che son di costoro; no; di pochissimi volli, e giovommi, aver l'amore e la stima; degli altri soltanto non volli aver l'odio, il quale, anche non meritato, sempre ad un uomo buono riesce uno spiacevole carico; e sempre suppone che molti hai offeso: e quand'anche ciò facciasi, non se ne accorgendo l'uomo, o col solo valer più degli altri, o col lasciarlo conoscere, a ogni modo viver dovendo fra gli uomini, e non potendo loro giovare offendendoli, se pure d'alcun pensiero si è fatto tesoro, va goduto per sé, o coi pochissimi amici, e interamente dissimulato coi rimanenti.
Queste regole del bene, o per dir meglio, del queto vivere, alquanto debilette parranno alla tua indomita impetuosa indole: ma, non si vuole, né si può vivere in Siena e nella presente Italia, come già in Roma, in Sparta, e in Atene: e siccome in quelle città molti forse, che per sé amata non l'avrebbero, praticavano, od onoravano almeno la virtù, perché ciò voleva la imperiosa opinione dei più; così nelle presenti città, dove i più non la conoscono, ovvero l'abborriscono, è forza il fingere di non conoscerla, o di non apprezzarla molto più che essi l'apprezzino.
Confesso però, che tra quelle quattro specie d'uomini che mi hai mentovate, i dotti, gl'ignoranti, e i saputi, mi hanno fatto ridere alcuna volta, e più spesso a compassione destato; ma i soverchiatori mi hanno assai volte infiammato di sdegno: non udirono per ciò essi mai da me quelle brevissime e forti verità, che di vergogna e confusione riempiendoli, lievemente ammutoliti gli avrebbero; tacque il mio labbro, e non ch'io parlare temessi, ma vano il reputava del tutto; parlò con essi tacitamente il mio aspetto; e ciò mi bastò per non essere quasi mai soverchiato.
VITTORIO
Ciò ch'io più pregio in te ed ammiro, si è, che tu nato buono, e fatto poi ottimo dal molto pensare, e dal molto conoscere le umane cose, godevi pur d'esserlo per te stesso; e se mostrar tale ti dovevi, sempre di alquanto minor valore che il tuo non era, ti mostravi.
Tu fra questi presenti uomini mi parevi quasi una gemma nel fango, che per meno rilucere vi si nasconde; ma per esser bruttata non perde già ella il suo splendore e virtù; e chiunque la raccoglie e terge, sel vede.
Da questo tuo parlare ben ora comprendo perché allor quando l'acerba morte rapivati, ancorché da pochissimi ben conosciuto, e da tutti dissimile, tu eri pur pianto e desiderato da tutti.
La virtù, benché occulta, gli animi dunque tutti, ed i men virtuosi, pienamente, e mal grado loro, soggioga.
Ma vero è, ch'ella era di sì gran vaglia la tua, che occulta parendo, non l'era.
Ignote eran forse le tue parti sublimi di verace antica virtù che ti avrebbero fatto di tua propria luce brillare in mezzo ai più sommi uomini di Roma libera; ma quelle virtù secondarie, che altro non sono se non se negazione di vizj, e che nella presente nostra meschinità pur somme si chiamano, (e, visti i governi nostri, forse elle il sono) quelle possedevi pur tutte, e ogni giorno, come corrente moneta, senza avvedertene, le spendevi.
Quindi nasceva il rispetto, quindi l'universale amore sì grande e verace, che quando io mi accompagnava con te per le vie, dal più infimo fino al più grande, io vedeva in ogni volto manifestamente nel salutarti scolpita quella tacita venerazione, che non si può aver dagli uomini mai per altr'uomo, se non per chi non ha macchia nessuna.
Nel volto dei buoni, che erano per lo più i bassi, la rimirava io mista d'amore; in quel degli altri traspariva fra un nuvoletto di sdegno; ma così picciolo egli era, che io l'avrei creduto acceso più contro sé stessi, che contro di te: guai però, guai, se coloro ti avessero creduto ricco delle tue tante altre virtù! ti si perdonavano le triviali e morali, perché ad ognuno parea di poterle, volendolo, praticare.
Tacitamente frattanto io osservava in me stesso, e giubilava di doppia gioja, ravvisando in te due così ben distinti, e così raramente accozzati personaggi: il Gori di tutti, e il Gori di sé stesso; e direi, il Gori mio, se questa parola mio in contrapposto del tutti non suonasse qui forse orgoglio e baldanza.
FRANCESCO
Ed io, per provarti che amico vero in morte ti sono come già in vita ti fui, render ti voglio, non grazie per lodi, ma biasimo: e dirti voglio, che se pure in me tu commendi l'aver cogli antichi pensato, e ai moderni non dispiaciuto, in ciò solo imitarmi dovresti.
Giacché pure incominciato hai di scrivere, e del tutto forse non sei fuor di strada, libero e sublime sfogo nelle sole tue carte concedi alla splendida e soverchia tua bile; sottilmente, e con discrezione negli scritti adoprata, ella è codesta bile il più incalzante maestro d'ogni alto insegnamento: ma fra gli uomini viventi raffrenarla si debbe: nessuno mai correggerai coll'offenderlo; né maggiore de' tuoi stessi minori mostrarti potrai, se maggiore in prima non ti fai di te stesso.
Pensa coi classici; coll'intelletto e coll'anima spazia, se il puoi, infra Greci e Romani; scrivi, se il sai, come se da quei grandi soli tu dovessi esser letto; ma vivi, e parla, co' tuoi.
Di questo secolo servile ed ozioso, tutto, ben so, ti è nausea e noja; nulla t'inalza; nulla ti punge; nulla ti lusinga: ma, né cangiarlo tu puoi, né in un altro tu esistere, se non col pensiero, e coi scritti.
Pensa dunque, ancor tel ridico, pensa, e scrivi, a tuo senno; ma parla, e vivi, ed opera cogli uomini a senno dei più.
E su ciò fortemente t'incalzo, perché ti vorrei amato dai pochi bensì, e dai soli buoni stimato, ma non odiato mai da nessuno.
VITTORIO
Comune non è questo pregio, poich'egli era il tuo.
Io non ho in me quella umanità, agevolezza, e blanda natura, che era pur tutta tua: sovrana dote, per cui, senza lusinga, né sforzo nessuno, in vece di abbassar te fino agli altri, parevi gli altri innalzar fino a te.
E questa, credilo, è l'arte sola, che fa e lascia convivere i grandi co' piccioli: ma dei veri grandi parlo io, e dei veri piccioli; che mai non son quelli, chiamati tali dal mondo.
Ma, che laudo io in te queste sociali virtù secondarie, mentre un solo esempio ch'io recassi d'una delle altre tue, basterebbe per porti sovra ogni uomo del nostro secolo guasto? Qual fu la cagione della immatura tua morte? la pietà vera, e il raro amore che pel tuo fratello nutrivi.
In questi tempi, in cui noi tutti pur troppo dal vorace lusso incalzati, noi tutti quasi, non che piangere di vero cuore la morte dei nostri, crudelmente la desideriamo, od almen l'aspettiamo; la insaziabile abbominevol peste della cupidità delle ricchezze altrui (peste altre volte nelle sole case dei re meritamente albergata) ora, dacché dai moltiplicati bisogni più servi siam fatti, invaso anche ha i più umili tetti: e, tolto il nobile, e sempre di noi men servo agricoltore, il quale nella sua numerosa famiglia la ricchezza amore e felicità sua piena ripone, gli altri tutti barbaramente s'invidiano fra loro la vita; del troppo longevo padre la invidiano i figli, della moglie il marito, del fratello il fratello; e nessuno in somma ben vivo si reputa, fin che non ha i suoi tutti sepolto.
Ma tu, diverso in tutto da tutti, fosti anco in ciò diverso dai pochi sommi uomini, che per lo più tenerissimi esser non sogliono dei loro congiunti: né dir saprei se in te fosse maggiore la sublimità della mente, o quella del cuore.
Questo fratello tuo, minore di te in ogni cosa come negli anni, di cui tu, quasi amoroso padre, cotanta cura pigliavi; per cui solo attendevi a quel tuo così a te dispiacevole traffico, che necessario non t'era per vivere agiato, e di tanto disturbo ti riusciva per viver pensante; questo tuo fratello in somma, ottimo giovine e di nobil'indole anch'egli, ma in nessuna cosa superiore né al suo stato, né ai tempi, ed in nessunissima a te vicino, egli era pure la sola remora, l'ostacolo solo alla tua intera felicità: poiché tu, come saggio, in null'altro riponendola che nel viver libero, e pensare e dire a tuo senno, disegnavi acquistartela, emendando il tuo nascere, col ricercarla e goderla in quelle contrade dove ella in tutta securtà si ritrova e s'alligna.
Eppure quando la morte, percotendo da prima il tuo fratello, pareva aprirtene la via, poteva nel tuo petto assai più la pietà e il dolor per altrui, che non l'amor per te stesso.
Non t'adirare, deh, se io qui a virtù grande ti ascrivo que' sensi, che in migliori tempi, e fra miglior gente, verrebbe tenuto mostruosità il non averli: ma così rara cosa mi pare fra noi la cagion di tua morte, e di così naturale e nuova grandezza ripiena, che ai nostri tempi dove né vivere né morire da grandi mai non si può, parmi, direi così, che la natura in te solo sfoggiando impreso abbia a deridere le tirannidi nostre; col tuo chiaro esempio mostrando, che ogni picciol tetto può esser campo a magnanimità e virtù, ancorché ad esse tolto ne venga ogni altro pubblico campo.
E se il dolore di un fratello semplicemente di sangue, e non di virtù, cotanto pure potea nella ben nata e calda tua anima, chi negarmi ardirà, che tu, in altra più felice contrada nato, per la patria, per la virtù, e per la verace gloria, di ogni più sublime sforzo non saresti stato capace?
FRANCESCO
Deh, basti.
Non so se il solo dolore del premorto fratello mi uccidesse, e nol credo; ma certo il mio corpo, già non robustissimo, gran crollo ne riceveva.
Doleami il fratello, poco curava io di me stesso, e tu presente non eri; propizio era il punto.
All'età mia non m'era possibile oramai di rinascere a vera vita; tu sai che il dolor di non vivere quale potuto forse l'avrei, andava consumando i miei giorni; l'aggiunta dell'estraneo dolore fu quella forse che colmò la misura; e morte, che in petto mi albergava pur sempre, trovò in quelI'istante tutte dischiuse le vie a diffondersi pel debil mio corpo.
E ciò fu il meglio per me: alle tante mie noje non v'ho aggiunto vecchiezza, e i suoi fastidj moltissimi.
VITTORIO
Ah, crudele! ma non era già il meglio per me, che nel perderti, la metà, e la migliore, dell'esser mio smarrita ho per sempre; e altro sollievo non serbo, che il sempre pascermi piangendo della tua memoria ed immagine.
FRANCESCO
Doler non mi posso dell'immenso amor tuo; ma ti biasmerò bensì molto del lasciarti così in preda al dolore, e del dirmi, o pensare, che in me tu perdesti la metà del tuo essere.
Nel fior de' tuoi anni; acquistata (ancorché a carissimo prezzo) a te stesso quella libertà, che se a farti vero cittadino insufficiente è pur sempre, poiché tal non sei nato, a non impedirti di essere e dimostrarti uomo pur basta; ed in oltre dolcemente ripieno il tuo cuore di nobile e degno amore; infelice a tai patti reputar non ti dei: né io ti concedo che tu sii colla fortuna tua ingiusto ed ingrato.
Che di me ti dolga mi è dolce; poiché il moderato dolore agli animi teneri e grandi è pascolo, che ad essi anco arreca un loro particolare diletto; ma che tu ten disperi, nol voglio.
Assai gran parte ti resta di quelle cose che all'umano cuore più giovano: anzi tutte ti restano, poiché quella stessa santa amistà che tra noi passava, e che pure, nol niego, è così importante e necessario sollievo alla umana miseria, tu la ritrovi tuttora, e sotto più piacevol e lusinghiero aspetto, nel cuore dell'amata tua donna.
Con essa delle più alte cose parlare ti è dato; ella tutte le intende, le assapora, le sente.
Sovrano impulso al ben fare dal dolce e sublime suo conversare trarrai, e l'hai tratto finora.
VITTORIO
O dolcissimo amico, tu mi parli di cosa, che sola di seguitarti impedivami; argomentar puoi quindi s'io l'ami.
Sostegni della mia vita, d'ogni opera mia entrambi voi l'anima siete; e tu, sì, benché tolto dagli occhi miei, tu il sei tuttavia; e se in essa te tutto ritrovato non avessi, i soli legami d'amore a ritenermi in vita eran pochi.
Ma spesso, tu il sai, crudelmente costretto son io di lasciarla; e son quelli i momenti terribili del mio più feroce delirio.
Di te mi ritrovo io privo per sempre, di essa troppo più a lungo ch'io sostenere nol posso; in preda solamente a me stesso in tal guisa rimasto, me stesso invano ricerco, e non trovo.
Ed ecco come alla accesa mia fantasia altro sfogo o rimedio non soccorre, che il pianto, o le rime.
Ed ecco come, ora desiando, ora immaginando di vederti e parlarti, io ho vissuti questi due anni dacché mi sei tolto.
Ma pur troppo in me sento un funesto presagio che questa prima volta sarà la sola ed ultima, in cui mi fia dato il favellarti e l'udirti: e il crudel fato alle eterne sue leggi per or derogando, quest'una forse conceduta non mi ha, che come un lieve compenso all'inopinato e barbaro modo con cui rapito mi fosti.
FRANCESCO
Vero è, (così pur nol fosse!) che prima ed ultima volta fia questa, in cui scambievolmente vederci ed udirci potremo oramai; ma la fervida memoria che di me tu conservi, mi ti renderà bene spesso presente, ed in parte così verrai a deludere le inesorabili leggi di morte.
Dal vano pianto io ti scongiuro dunque a cessare; non ardirò dirti interamente lo stesso quanto alle tue tante rime; sì delle poche che per me hai fatte o farai, sì delle molte, e troppe, che per la tua donna scrivesti e scrivi tuttora.
Ma siccome tu fama da esse non pretendi né aspetti, più nobile e dolce sfogo della mestizia dell'animo tuo, amichevolmente ti dico che ritrovare non puoi.
E molto mi piace che dell'amata tua donna, più assai che i crin d'oro e i negr'occhi, ne vai laudando la candidissima alma, il dolce costume, gli alti sensi, e il nobile acuto e modesto ingegno.
Ma sieno, ten prego, codeste rime il tuo pensiero secondo; le tragedie vadano innanzi; e pensa, che alla nostra Italia ben altramente bisognano altezza d'animo e forza, che non soavità di sospiri.
Non ti stancare di adoperar sovr'esse la lima penosa; e un certo discreto numero non ne eccedere.
Il bollore degli anni impiegato hai finora nel bollor del creare; i rimanenti, che l'età intiepidisce più sempre, alla freddezza della lima consecrali; e, per ultimo prego mio, cui ben fitto ti scongiuro di sempre portarti nel cuore, giunto che sarai ad una certa discreta età, conosciti e datti per vecchio, anche anzi d'esserlo; e le Muse abbandona, prima ch'elle ti lascino.
Né in ciò ti voglio concedere che coi più grandi scrittori tu pecchi; convinto sii, che varcato dall'uomo il nono lustro, o poco più in là, ogni poeta che scrive, va togliendo a sé stesso la già acquistata fama.
VITTORIO
Il nobile e giusto consiglio, che interamente pure al mio pensare si adatta, da te riconoscere il voglio, e, come d'ogni altro tuo prego, a me far di questo una legge inviolabile.
Due cose sole a chiederti mi rimane; ed è l'una; se non isdegneresti che io in alcuna parte ti ponessi una semplice marmorea lapide, con sopravi poche parole, ove testimoniando al mondo il mio immenso amore per te, il tuo alto valore almen vi accennassi.
FRANCESCO
Negar non tel voglio, se ciò al tuo dolore è sollievo; ma se con ciò speri di farmi più noto al mondo, ti pregherò pur di nol fare.
Ad ogni uomo si pongono tutto dì delle lapidi, e inosservate meritamente elle passano.
Ogni, anche ottimo verso, che sulla tomba di un estinto si legga, non equivale mai al semplice nome di chi alcuna chiara cosa operava: nulla rimane di chi nulla fece, ancorché vi si sforzi in contrario ogni più alto ingegno.
Tomba dunque assai degna, e la sola ch'io brami, ottenuta ho io finché voi vivete, nel tuo cuore, e nell'altro, che al tuo sì strettamente allacciato è per sempre.
Estinti voi, con voi non dorrammi di affatto perire, se così vuole il vostro destino: ma se la fama pure delle opere tue dal sepolcro ti trae, quella picciola parte di essa me ne basta che disgiungersi non può dalla tua in chi tanto amasti, e cotanto ti amava.
VITTORIO
Noi dunque quanto alla lapide seguiteremo il dettato del nostro addolorato cuore; senza scordarci però della sublimità vera di questi tuoi ultimi detti.
L'estremo mio prego, di cui sconsolato oltre modo ne andrei se a me tu il negassi, si è, che ti piaccia concedermi che io intitoli al tuo per me sacro nome la mia Congiura de' Pazzi; tragedia, in cui quanto più altamente ho saputo, quei sensi stessi ho spiegati, che dal tuo infiammato petto sì spesse volte prorompere udiva con energia e brevità tanta di maschie e sugose parole.
FRANCESCO
Ciò che in codesta tragedia non debolmente, parmi, esprimesti, non nego io d'averlo già fortemente sentito; ed in ciò eravamo noi pari: ma ella è ben tua la tragedia, e come cosa tua, e degna di te, l'accetto io; e come cara e somma dimostrazione del tuo affetto la tengo; purché con troppe laudi non vogli in quella dedica più onore né parte ascriverne a me, di quello che a me se ne aspetti.
In vita, rimembrami, di ciò ti parlava fin da quando a me destinata l'avevi, e ricevutala io; benché le fortissime verità che là entro si leggono, poteano di danno riuscirmi non lieve, finché costretto era io di vivermi entro il mio carcer natio: alla tirannide, il sai, non meno dispiace chi dire osa il vero, che chi riceverlo ardisce.
Ma tu, amico mio non meno discreto che caldo, tra le altre ragioni per cui ne sospendesti la stampa, fu anche una quella, di non volermi, né la tragedia datami togliere, né, col darmela, intorbidare in parte nessuna la tranquillità, o per dir meglio, il sopore della servile e tremante mia vita.
Tu, generoso, per me ti assumesti di esser timido e vile; ed assai forte prova, in ciò fare, della tua rara ed immensa amicizia mi davi.
Ma pure, tu il sai, che io a ricevere la tragedia tua era pronto; e che ogni mio danno, se toccarmene alcun men dovea, io riputava guadagno, qualor per te lo soffriva.
VITTORIO
Il pianto mi strappi dal cuore; parlare, né respirare più quasi non posso.
Ogni tuo consiglio prego e volere, sarà pienamente adempito da me...
Ma, oimè! già già ti dilegui !...
Deh, ti arresta;...
odimi ancora...
FRANCESCO
Tutto udii; tutto dissi.
Irresistibile forza dagli occhi tuoi mi sottrae.
Felice vivi, e possanza nessuna di tempo dal tuo cor mi scancelli.
FINE DEL DIALOGO
Posto avea di mia vita assai gran parte
Nella soave tua schietta amistade;
E mi sei tolto in assai verde etade,
Mentr'io credei per pochi dì lasciarte!
Dalla tua propria man vergate carte
Mi fean vivere in tutta securtade;
Quando, improvviso, come il fulmin cade,
Giunge la nuova che lo cor mi parte.
Chi pensato l'avrebbe? in dirti addio,
Era l'estremo! e rivederti io mai
Più non doveva in questo mondo rio!
Ma, sugli occhi pur troppo ognor mi stai;
E vie più caldo accendi in me il desio
Delle virtù, che in te solo trovai.
Oh più assai che Fenice amico raro,
Che amavi me, nulla da me volendo;
Che di vita tempravi a me l'amaro
Meco i miei studj e i pianti dividendo;
Deh, sapess'io laudarti in stil sì chiaro,
Che dal sepolcro il tuo nome traendo,
Io nel mandassi riverito e caro
All'altre età, cui di piacer più intendo!
Ciò per te stesso far potuto avresti
Meglio assai ch'io, se avversi i tempi e il loco
Non t'eran, dove occulti dì vivesti.
Ben d'ingiusta fortuna è crudo il giuoco;
Voler che il fango vile in luce resti,
E ignoto e muto il più sublime fuoco.
Oltre all'ottavo lustro un anno appena
Varcando iva lo amico del mio cuore,
Quando il fratello suo morendo il mena
Seco in tomba, sì grave ei n'ha dolore.
Eppur l'infermo, che duo dì premuore,
Doppio aver lascia e libertade piena
Al mio, che esemplo di fraterno amore,
Perde a sì fera vista e polso e lena.
Né già gli è tolto nel german l'amico;
Ancor ch'ottimi entrambi, eran dispari
D'alma, d'ingegno, d'indole, e di brama.
Pietà fu sola (e in ver, del tempo antico)
Che orbato ha Siena, e me, d'uno dei rari,
Ch'ebber alte virtudi, ed umil fama.
Era l'amico, che il destin mi fura,
Picciol di corpo, e di leggiadre forme;
Brune chiome, occhi ardenti, atto conforme;
E scritto in viso: Io son d'alta natura.
Liberissimo spirto in prigion dura
Nato, ei vi stava qual leon che dorme;
Ma il viver nostro fetido e difforme
Ben conoscea quell'alma ardita e pura.
Null'uom quasi apprezzando, (a dritto forse)
Nullo pur ne odïava; e a tutti umano,
Sol ben oprando ei stesso, i rei rimorse.
Troppa era ei macchia al guasto mondo insano:
Invidia, credo, i lividi occhi torse,
E a Morte cruda lo accennò con mano.
Deh! Torna spesso entro a' miei sogni, o solo
Vero amico ch'io avessi al mondo mai:
Deh! dal tuo avello torna a udir mie' guai;
Che il pianger teco a me pur scema il duolo.
Fuor del carcer terren seguìto a volo
Ti avrei quel dì, che a forza io mi strappai
Dall'amata; quel dì, ch'io invan chiamai
Te, cui già muto racchiudeva il suolo:
Ma colei che dell'uom sempre s'indonna,
Speme, vuol ch'io sorviva, e aspetti l'ora,
Che riunir dovrammi alla mia donna.
Fra noi ti alberga, ombra adorata, allora.
Calda memoria in noi mai non assonna;
Che, te vivo, in tre corpi un'alma fora.
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