[Pagina precedente]... ricordo caro di famiglia, da rivedere l'ultima volta, il sacerdote aveva guardato intorno per la camera. Poi, da un atto dell'infermo avendo compreso, s'era risentito. Il coso era il Viatico.
L'infermo s'espresse meglio, e fu contentato. Ma per poco il suo malaugurato vezzo di cosare non gli costò la salute dell'anima.
Certo quelli che si lasciano andare fino a un tal segno son rari. Ma quanti non sono quelli che parlano presso a poco al modo di Coso; che, per infingardaggine intellettuale o per disprezzo dell'arte volgare del discorso, non dà nno del proprio pensiero che briciole e sgoccioli, non mettono nella conversazione che la materia bruta del loro concetto, lasciando agli altri la cura di lavorarla, come una faccenda indegna di loro? Il mondo n'è pieno. Ma se l'uomo si può definire "l'animale parlante", codesti non sono uomini.... sono cosi.
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TRA LO SCRIVERE E IL PARLARE C'È DI MEZZO IL MARE.
Per dimostrarti che a parlar bene non basta studiar la lingua, ma occorre fare uno studio e un esercizio particolare a quel fine, ti racconto un aneddoto.
Circa trent'anni fa, ebbi una sera la fortuna di desinare con una brigata di milanesi, fra i quali c'era uno scienziato illustre, autore d'un libro notissimo di scienza popolare, che è una delle opere più eloquenti e meglio scritte della letteratura scientifica d'Italia. Lo scienziato, ch'era un uomo d'indole vivace e di spirito argutissimo, aveva poche sere avanti rallegrato quella stessa compagnia raccontando in dialetto certi episodi comici d'un suo recente viaggio nella Scozia; e il suo racconto era piaciuto per modo, che anche quella sera, alle frutte, tutti i commensali vollero che lo ripetesse, e mi dissero parecchi, mentre egli si disponeva a parlare: - Sentirà , e riderà come non ha mai riso. - L'illustre uomo incominciò, parlando italiano per riguardo al nuovo uditore, e andò un pezzo innanzi nel [38] racconto; ma l'uditorio, benchè avesse la miglior voglia di ridere, rimase freddo; volevo ridere anch'io, ma non potevo; mi sconcertava il disinganno che leggevo sul viso degli altri; i quali aspettavano tutti qualche cosa che non veniva mai, e parevano stupiti che non venisse, e intenti a cercarne dentro di sè la ragione. E, infatti, il racconto procedeva male; lo sforzo che faceva il parlatore per trovar parole e frasi comiche, che poi non lo appagavano, ratteneva la sua vena; l'espressione del suo viso che, manifestando quello sforzo, discordava dalla comicità del discorso, ne distruggeva quasi al tutto l'effetto; il suo gesto stesso riusciva impacciato come il suo linguaggio; mancava al racconto la spontaneità , il colorito, la vita. A un certo punto egli s'interruppe, facendo un atto brusco d'impazienza, ed esclamò ridendo: - Oh, lasciatemi un po' parlare il mio milanese! - e ripreso in milanese il discorso, tirò via col vento in poppa, con tutt'altro viso e tutt'altro accento, libero, arguto, amenissimo, accompagnato fino alla fine dall'ilarità unanime e sonora degli ascoltatori.
Mille casi consimili vedrai tu pure nella vita, perchè migliaia d'italiani colti, e che scrivono bene, si ritrovano, parlando italiano, nello stesso impaccio nel quale si trovò lo scienziato milanese. E la ragione dell'impaccio sta in ciò: che fra il parlare e lo scrivere passa la stessa differenza che fra il correre ed il camminare. Come, se non è esercitata alla corsa, anche una persona ben formata, e che ha nel camminare un portamento sciolto e elegante, corre senza leggerezza e senza grazia e rimane senza fiato dopo un breve tratto, così ogni italiano, che parli per [39] uso il suo dialetto, pur conoscendo la lingua benissimo, se a parlarla non s'è esercitato con particolare studio, se non ha acquistato con quest'esercizio la prontezza intellettuale e l'agilità meccanica necessaria al parlar bene, che è come un comporre all'improvviso, non troverà lì per lì le parole proprie, snaturerà il proprio pensiero, parlerà stentato e slavato, traballando e inciampando a ogni passo. Vedi dunque quanto importa che, prima d'ogni cosa, tu t'eserciti a ben parlare; e dico: prima d'ogni cosa, perchè è un esercizio che puoi cominciare utilmente anche prima di metterti a studiare il materiale della lingua nel modo che vedremo poi. E ora t'accenno i preliminari della ginnastica; dopo i quali passeremo agli attrezzi.
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PER IMPARARE A PARLAR BENE.
Il parlar malamente, in chi più o meno conosce la lingua, deriva in gran parte dalla consuetudine di non pensar mai un momento, prima di aprir la bocca, al modo di dire il meglio che si può quello che si vuol dire. E tu avvèzzati a pensarci. Dirai: - Non s'ha sempre tempo. - Basterà che ci pensi tutte le volte che ci hai tempo, e non tarderai a ricavarne un profitto maggiore di quello che t'immagini, perchè ti riuscirà di dir meglio che per il passato anche molte di quelle cose che sarai costretto a dire all'improvviso.
Si parla male generalmente anche per effetto della consuetudine, che si prende per pigrizia, di lasciar quasi sempre a mezzo l'espressione del proprio pensiero quando si vede che l'ha capito a volo la persona a cui si parla. Questa consuetudine pigra ci rende faticoso e difficile l'esprimer bene tutti quegli altri pensieri, dei quali, perchè sian compresi, dobbiamo dare l'espressione compiuta. Ebbene, e tu abìtuati, parlando, ad esprimere sempre tutto il tuo [41] pensiero, anche quando non sia necessario, come faresti se lo dovessi mettere sulla carta.
Fa' qualche volta, mentalmente, quest'altro esercizio, dopo che hai fatto o veduto qualche cosa, o sentito una commozione, o ricevuto un'impressione qualsiasi; domanda a te stesso: - Come direi se dovessi raccontare questo fatto, o descrivere questa cosa, od esprimere questa commozione? - e pròvati a farlo, supponendo di parlare a una persona colta, con la quale tu non abbia famigliarità , e di cui ti prema la stima e la simpatia.
Studia in special modo di dir bene tutte quelle piccole cose che occorre dire ogni giorno, e anche più volte il giorno; ti riuscirà facile trovarle e fissartele in mente, poichè sono, per così dire, i luoghi comuni della vita quotidiana e del linguaggio di ciascuno; e quando ti sarai avvezzato a dirle facilmente e correttamente, riconoscerai, dal vantaggio acquistato, maggiore della tua aspettazione, che nel dir male quelle piccole cose, benchè non sian molte e sian semplici, consiste principalmente il parlar male di quasi tutti.
Bada anche a questo. Una delle nostre miserie, parlando, è l'incertezza che ci arresta nel designare certi oggetti, atti, fatti, sentimenti, per i quali sono usati comunemente due o tre vocaboli di senso affine, ma di cui è proprio uno solo; poichè, nell'atto che c'indugiamo a scegliere, perdiamo il concetto della frase o del periodo, che poi ci riescono alla peggio. Se nel dir la cosa più semplice, come, per esempio, che siamo andati a cercare un tale a casa, che abbiamo salito quattro branche di scale, e dopo [42] aver picchiato all'uscio, sentito abbaiare un cagnolino, e una voce domandar: - chi è? - mentre scorreva il paletto - se dubitiamo un momento fra branche e rami, fra picchiato e battuto, fra uscio e porta, sentito e udito, abbaiare e latrare, domandare e chiedere, paletto e chiavistello, è facile che facciamo un brutto garbuglio d'un periodo che dovrebbe correr liscio como l'olio. Fìssati dunque in mente le parole proprie che in tutti quei casi dubbi, frequentissimi, sono da usarsi, in modo che sian sempre le prime a venirti sulle labbra, e avrai fatto con questo un gran passo innanzi sulla via del parlar facile e corretto ad un tempo.
Un altro consiglio. Ti accadrà spesso di sentir strapazzare la lingua italiana, e di ridere dentro di te delle parole sbagliate, delle frasi barbare e dei costrutti sgrammaticati del cattivo parlatore. È bene che in questi casi tu t'eserciti alla critica; ma se vuoi che ti giovi, non dev'essere puramente negativa: non basta che tu noti gli errori, bisogna che tu cerchi e fissi nel tuo pensiero le parole, le frasi, i costrutti corretti corrispondenti a quelli erronei, che hai osservati; perchè, bada bene, noi burliamo assai spesso gli altri di errori che sfuggono usualmente a noi pure, e la prima cagione del nostro persistere nel parlar male è appunto la consuetudine del criticare senza correggere; per la qual cosa non ricaviamo nessun frutto degli errori altrui, che dovrebbero farci aprir gli occhi sui nostri.
Ancora un'avvertenza. Il parlar bene richiede un esercizio vivo e rapido delle facoltà intellettuali. Vedi che l'uomo acceso da una passione, appunto perchè ha le facoltà eccitate, parla quasi [43] sempre meglio che ad animo riposato e a mente tranquilla. Conviene perciò, quando hai qualche cosa da dire che ti prema di dir bene, quando hai da fare un racconto, per esempio, o una descrizione o un ragionamento anche breve, che tu ti ci metta di buona voglia e con vivo impegno. Come per fare uno sforzo fisico dà i prima quasi una scossa alla volontà e tendi i muscoli e i nervi, così, nell'atto di parlare, tu devi cacciar l'indolenza e dar alla mente un abbrivo risoluto. Ma non ti mettere alla corsa; va' adagio per ora; avvèzzati a parlare pensando, a frenarti. A correre senza inciampare imparerai a poco a poco; devi prima esercitarti a camminar bene. E bada sempre, nel parlare, al viso di chi t'ascolta, che è un critico muto utilissimo, perchè d'ogni parola stonata, d'ogni oscurità , d'ogni lungaggine ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un'espressione di stupore, o canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente; anche se gli ascoltatori sian gente che, facendo lo stesso discorso, cadrebbe negli stessi errori tuoi, o assai peggio; poichè la facoltà critica è in tutti di gran lunga più acuta e più attiva quando s'esercita sugli altri che quando lavora sul suo.
In questo studio del parlare potrai avvantaggiarti molto e presto se in casa tua c'è la buona consuetudine di parlare italiano. Se non c'è, tu devi fare il possibile, rispettosamente, per farcela entrare. Ma....
Quello che dovrei dirti dopo questo ma lo troverai nella lettera seguente; della quale ho ritrovato la minuta sotto un monte di vecchi manoscritti.
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LA LINGUA ITALIANA IN FAMIGLIA.
Cara cugina,
Ringrazio te, tuo marito e i tuoi figliuoli grandi e piccoli dell'allegra giornata che mi faceste passare in casa vostra, e mantengo la promessa, che ti feci nell'accomiatarmi, di rispondere per iscritto alle tue domande: - Ho fatto bene a metter l'uso della lingua italiana in famiglia? Ti pare che i ragazzi ne facciano profitto?
Risponderei di sì, con gran piacere, alla prima domanda, se non avessi un gran dubbio sulla risposta da dare alla seconda.
Osservai in casa tua che l'uso dell'italiano in famiglia non giova gran fatto, che, anzi, riesce quasi più dannoso che utile, se non è accompagnato dalla cura continua di parlar bene, se non è vigilato, illuminato, corretto assiduamente dal padre e dalla madre, se non si riduce, in somma, a essere uno studio costante di tutti.
Osservai nella tua famiglia, come già in altre, che i ragazzi si sono avvezzati a parlar l'italiano con troppa disinvoltura. Sono belle [45] cose nel parlare la vivacità , la scioltezza, la sicurezza di sè; ma solo quando non derivino dal disprezzo della grammatica e dall'inconsapevolezza dello sproposito. Ora, lascia che te lo dica, i tuoi figliuoli parlano con facilità ammirabile un italiano compassionevole, d'un tessuto tutto piemontese, ricamato d'ogni specie d'idiotismi e di modi di conio gallico, e in tutto il tempo che stetti con voi non gl'intesi correggere, nè da te nè da tuo marito, neanche una volta. In casa vostra, per quello che riguarda la lingua, regna la più scapigliata anarchia. Girando per le stanze, feci ai tuoi figliuoli molte domande, e sentii che a quasi tutte le cose dà nno il nome dialettale o francese: chiamano tiretto il cassetto, robinetto la chiavetta, comò il cassettone, sopanta il palco morto. A tavola, in quella discussione che fecero fra di loro intorno ai propri ins...
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