[Pagina precedente]... sconsiglia i giovani dallo studio della lingua, come da un perditempo.
E puoi farne la prova tu stesso. A chiunque ti dica che studiar la lingua è tempo perso, se te lo dice in italiano, prova a dir lì per lì ch'egli ha fatto un errore di proprietà o di grammatica, e vedrai che salta su, smentendo subito sè stesso, e ti rimbecca: - Come? Vuoi fare il maestro a me?... Ma studia prima la lingua!
E qui, supponendo che tu sia oramai arcipersuaso, chiudo la triplice prefazione, e mi metto in cammino.
[28]
DEL PARLARE.
Le miserie della loquela.
La prima cosa che ti devi proporre, mettendoti a studiare la lingua, è d'imparare a parlarla correttamente e facilmente.
A darti fermezza in questo proposito gioverà più che altro la consuetudine, che tu devi prendere, d'osservare la scorrettezza, la rozzezza, lo stento, le infinite miserie e ridicolaggini del modo di parlare dei più, non già nelle classi sociali inferiori, ma in quella medesima a cui tu appartieni.
Troverai molti che, parlando italiano, perdono ogni vivacità dello spirito, come se cambiassero natura; che ti fanno sospirar mezzo minuto ogni parola, come avari a cui ogni parola costasse uno scudo, e par che le posino l'una dopo l'altra con gran riguardo come oggetti fragili e preziosi; che per raccontar la cosa più semplice e più futile fanno una lunga e lenta tiritera, che metterebbe alla prova la pazienza d'un santo.
Conoscerai altri che, per parlar corretto, si [29] rifanno ogni momento indietro a rettificar una parola o a correggere una frase, ti presentano due volte un periodo, prima in brutta copia e poi messo a pulito, ti fanno assistere a tutta la faticosa fabbricazione del proprio discorso, pezzo per pezzo e giuntura per giuntura, e quando credi che l'abbian finito, v'aggiungono ancora qualche commento e gli dà nno qualche ritocco; dopo di che, affaticati dal lavoro fatto, non hanno più capo ad ascoltare la tua risposta.
Sentirai parecchi, che metton fuori ogni tanto una parola o una frase francese, o del dialetto, o del loro gergo professionale, con l'aria di non avvedersene, o di dirla per dar varietà capricciosa o colorito comico al discorso; ma in realtà perchè non sanno l'espressione corrispondente italiana; e screziano così il loro italiano per modo, che non si sa ben dire che lingua parlino, e par di sentire di quei sonatori ambulanti che suonano tre strumenti, tutti e tre malamente, in una volta sola.
Udirai certi tali, che cercano di nascondere gli spropositi come i prestigiatori fanno sparire le pallottole, assordandoti con un precipizio di parole; che per distrarre la tua attenzione dalla loro grammatica alzano la voce o dà nno in risate fuor di proposito, e si mangiano a mezzo le forme verbali di cui non sono sicuri, e confondono le frasi dubbie con l'accompagnamento d'una specie di rantolo catarrale, somigliante al rugliare che fanno i cani tra l'uno e l'altro latrato.
Ma chi può dire tutte le industrie puerili e ridicole a cui si ricorre per salvare il decoro nella disperata lotta con la lingua italiana? Gli uni si riducono a parlare più coi gesti e con gli [30] ammicchi che con le parole; gli altri vanno avanti a furia d'intercalari e di luoghi comuni, coi quali coprono tutti gli sbrani e tappano tutti i buchi del discorso; questi, per prender tempo a cercare il vocabolo, sciorinano dei ma che non hanno più fine, o piantano dei però enormi, su cui s'appoggiano come sopra un bastone; quelli, per poter raccogliere il periodo che scappa da tutte le parti, fanno lunghe pause, anche nel dire una bazzecola, fingendo un lavorìo profondo del pensiero, o una distrazione improvvisa, o una svogliatezza di gente annoiata, che dica tanto per dire, senza badare a quello che dice. Quante arti, quante fatiche e figure ridicole per iscansare il ridicolo di non saper parlare la propria lingua!
Ma per compier la mostra bisogna ricordare anche quelli che non parlano; quelli che nelle compagnie dove si parla italiano non vanno, o ci vanno come a un castigo, e ci stanno come sulle spine, senza rifiatare, o parlando il meno possibile, anche con danno proprio, e a costo di parere imbronciati o villani; quelli che, per la stessa ragione, pigliano in uggia i conoscenti, e anche gli amici italianeggianti, e da questi si fanno prendere in uggia alla volta loro, burlandoli come d'una ostentazione di saccenti e d'aristocratici; quelli che vanno più oltre, che non nascondono la propria antipatia, dandole un altro colore, verso tutti quegli italiani d'altre regioni, coi quali, per farsi intendere, dovendo trattar con loro per forza, sono costretti a parlare italiano. E c'è ancora la famiglia numerosissima degli screanzati incorreggibili, che in qualunque compagnia si trovino, pure sapendo di non esser capiti, s'ostinano sfacciatamente a parlare il [31] proprio dialetto, a sventolare la bandiera della propria ignoranza, sulla quale hanno scritto: - Chi mi capisce, bene; chi non mi capisce, s'accomodi -; somiglianti a quegli ubbriachi allucinati, che tiran via a ragionar coi pilastri.
Ma c'è nella gran famiglia dei poveri della parola un personaggio, che tu devi conoscere più intimamente degli altri, perchè rappresenta una tendenza pericolosa e comunissima, dalla quale più che da ogni altra ti hai da guardare. Egli sarà il primo d'una serie di personaggi singolari, che io conobbi, e che ti farò conoscere man mano, per ammaestramento e per ricreazione, nel corso del viaggio che faremo insieme.
Ti presento per il primo il signor Coso.
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IL SIGNOR COSO.
Le sue qualità più notevoli erano un profondo disprezzo per l'arte della parola e un grande amore per la pesca con l'amo; il quale amore derivava in parte da quel disprezzo, perchè diceva egli stesso che spessissimo andava a pescare non per altro che per isfuggire alla noia di barattar del fiato col prossimo.
Quando lo conobbi non era più giovane; ma anche da giovane dicevano i suoi vecchi amici che era sempre stato restìo al parlare come un tirchio allo spendere. Non che fosse propriamente taciturno: alle conversazioni degli amici prendeva parte; ma accennava ogni suo pensiero con poche sillabe, in modo informe, e masticava il resto con voci inarticolate, e con un atto del capo e un cenno trascurato della mano invitava l'uditore a fare in vece sua il molesto lavoro di compiere l'espressione dell'idea ch'egli aveva abbozzata. Con un come si dice? si liberava dalla seccatura di dir la cosa; lasciava a mezzo ogni periodo con un insomma, tu capisci; e con la parola coso faceva di meno di mille vocaboli. [33] Per questo gli avevan dato il soprannome di Coso. - "Sai, questa mattina ho veduto coso, laggiù.... Dice che per quell'affare.... tu sai.... niente; salvo il caso.... ma neanche nel caso.... Tu m'intendi -". Era questa la forma tipica del suo discorso. - Tu sai.... coso - diceva d'un amico ammalato, e non si curava neppure di dir che era morto: indicava con un gesto che se n'era andato. Fu lui che annunziò agli amici l'elezione del nuovo Papa, il cardinale Pecci. - Eletto - disse. - Chi hanno eletto? - Coso - rispose; e non pronunziò il nome che alla seconda domanda.
Era in parte affettazione, come si dice che usasse fra certi nobili francesi del secondo Impero; ma era più che altro una grande pigrizia, venuta a poco a poco a tal segno, che gli dava molestia anche il parlare degli altri. Quando sentiva un amico esprimere, discutendo, il proprio pensiero con un periodo filato e lunghetto, lo guardava con l'aria di deriderlo per quella fatica inutile ch'egli faceva, come avrebbe guardato uno che si stroncasse a sollevare un baule per la curiosità di saper quanto pesa. Quando il racconto di qualcuno si prolungava oltre un minuto, non faceva complimenti: chiudeva gli occhi e fingeva di dormire. Dal tempo che andava a scuola, dove a nessun professore era mai riuscito di cavargli più di quindici righe su qualunque soggetto di componimento, egli era venuto restringendo sempre più il suo linguaggio, nel quale ai vocaboli si sostituivano i gesti, e alla pronunzia scolpita un barbugliamento d'addormentato. Egli aveva un gesto per dire: - Non ti fidar del tale: è un briccone; - un gesto per annunziare che una [34] commedia aveva fatto fiasco, che un certo affare non premeva, che d'un altro affare non si voleva impicciare; e tutte le gradazioni dello stupore, della maraviglia, del dispiacere esprimeva con una sola esclamazione, diversamente intonata: - Oh diavolo! - E s'aveva un bel burlarlo di questa sua stranezza: egli scrollava le spalle e rispondeva: - Chiacchieroni! - Una volta sola, ch'io mi ricordi, egli fece il miracolo di esprimere senza reticenze, benchè in forma laconica, un suo pensiero filosofico, per dar ragione della sua maniera di parlare. Udendo ripetere una sentenza del Michelet: - Nous mangeons immensément trop; - da che derivano alla società , secondo lo scrittore francese, infiniti mali, egli disse che a quella si doveva sostituire un'altra sentenza: - Noi parliamo troppo - poichè di quasi tutti i nostri guai la vera cagione era questa.
Ma non si può credere fino a che punto arrivasse nel far economia di sillabe: fino a non farsi capire dal fiaccheraio, al quale, invece di: - Alla Stazione di Porta Nuova - diceva: - Alla Nuova -; fino a non pronunziar mai che una delle due parole di cui si componesse il titolo del giornale, ch'egli chiedeva al rivenditore; fino a bandire dal suo vocabolario tutti i superlativi e gli avverbi lunghi; tanto che a sentirgli dire un giorno: irremissibilmente e un'altra volta: mortificatissimo, lo guardammo tutti stupiti. Da ultimo, poi, avendo inteso da un amico toscano un verbo non prima conosciuto: cosare, se n'era impadronito con la gioia d'un matematico che scopre una nuova formola algebrica, e con quello s'alleggeriva anche più la fatica [35] ingrata del parlare. Non diceva più al cameriere della trattoria che levasse l'olio dal fiasco; ma: - Cosami quel fiasco -, e così, cosare un plico, per mettervi il suggello, e a un amico, indicandogli un uscio fresco di vernice: - Bada, che ti cosi l'abito. - Se avesse trovato nella lingua altre dieci parole come cosa e cosare, non gli sarebbe occorso altro vocabolario, e ne avrebbe avuto d'avanzo.
Poichè pensiero e parola nascono nella mente gemelli, chi si disavvezza dall'esprimere il proprio pensiero, si disavvezza a poco a poco anche dal pensare. Questo era seguìto a lui: le facoltà di pensare e di parlare gli s'erano arrugginite ad un tempo. Egli pensava a pensieri indeterminati, monchi e sconnessi come il suo linguaggio, e dall'inerzia del cervello gli era venuta una grande indifferenza per ogni cosa. È questo l'ultimo e peggior danno nel quale incorrono tutti coloro che per pigrizia rifuggono usualmente dalla fatica di tradurre il proprio pensiero in parole. Negli ultimi suoi anni Coso non leggeva nemmeno più i giornali: si contentava di raccoglier le notizie politiche al caffè o per la strada, e quando gliele davano con troppi particolari, tagliava la parola in bocca all'amico, dicendogli: - Insomma, hanno cosato il bilancio - oppure: - alle corte, avremo un ministero Coso -, e aggiungeva un gesto che significava: - Basta, basta; ho capito; oh che fastidio!
Coso abbandonò questa valle di lacrime e di parole una diecina d'anni fa, in una città dell'Italia meridionale, dove era andato per ragion d'impiego. E tal morì qual visse, se è vero quanto si riseppe da un suo nipote, che [36] l'assistette negli ultimi giorni: un capo armonico, a dir la verità , che potrebbe aver inventato una fiaba. Io la ripeto com'egli la disse, affermandoci che non ci metteva nulla di suo.
Presentendo la propria fine, il buon Coso, che aveva avuto sempre religione, fece chiamare il prete. A un certo punto il nipote, che stava all'uscio, sentì il prete dire con voce grave, in cui la pietà velava il rimprovero: - No, caro signore, io non posso acconsentire a una domanda fatta in codesto modo.
Il malato gli aveva espresso il suo desiderio con la sua parola solita: il coso.
Pensando ch'egli volesse qualche oggetto, un...
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