[Pagina precedente]...sava soltanto per esprimere il pensiero proprio; anche per parlare per conto nostro, come fanno tutti i parlatori irrefrenabili, che non vogliono star a sentire i discorsi degli altri. Egli rompeva in bocca all'amico il ragionamento o il racconto, e lo finiva per lui: - Ho capito: tu gli hai risposto così e così, lui ha replicato in codesto modo, tu hai perso la pazienza, e l'hai piantato, non è vero? E hai fatto bene, e io feci lo stesso in un caso simile che m'occorse appunto.... - E non serviva dirgli: - Fa' il comodo tuo; quando avrai finito tu, ricomincerò io -; sorrideva e tirava innanzi, e non ci lasciava ricominciare.
Quando andava al teatro o faceva una gita fuor di città , o quando sapevamo che gli era seguìta qualche avventura, lo aspettavamo con vero sgomento nella saletta appartata del caffè dove ci veniva a trovare ogni sera; perchè non c'era cristi, egli ci voleva riferire le sue impressioni, e filava dei discorsi di mezz'ora così rapidi e fitti, che a noi non riusciva neppure di farci entrare di straforo un'osservazione. E s'aveva un bel tentare di scoraggiarlo non badandogli: egli pensava che la nostra disattenzione fosse simulata per un tantino d'invidia che ci pungesse del dono di Dio, e questo pensiero lo stimolava anche più. Oppure, vedendoci disattenti noi, rivolgeva il discorso agli altri pochi avventori che venivano nella stessa sala, anche se sconosciuti, e s'infervorava a cicalare anche più del solito, scambiando con ammirazione lo [322] stupore che quelli mostravano in viso, un poco somigliante all'intontimento che dà il rumore monotono d'una ruota di mulino.
Una sera, fra l'altre, prese di mira un grosso medico barbuto che stava sorbendo il caffè dalla parte opposta della saletta, e di discorso in discorso gli venne a parlare d'un suo incomodo, del quale gli raccontò la storia minuta con una fiumana di parole; e finì con domandargli: - Che rimedio mi consiglia lei?
Quegli lo guardò fisso, e poi, fra il silenzio di tutti, con un viso grave e un vocione di basso, gli rispose spiccicando le sillabe: - Lei ha bisogno d'un astringente.
Tutti risero in coro, e fu quella la prima volta che il dottor Raganella mostrò un'ombra di vergogna d'aver troppo parlato.
Il matrimonio ci liberò dalla tirannia della sua loquela. Ma ci separammo da buoni amici, quando partì per il viaggio di nozze. Nel fargli i nostri augùri, peraltro, compiangemmo tutti in cuor nostro la sua povera moglie: come avrebbe potuto resistere per tutta la vita al flagello di quella facondia? Pochi giorni dopo, uno di noi ricevette dalla Svizzera una sua lunga lettera, nella quale egli diceva, fra l'altro, che la sua sposa era stata così commossa dallo spettacolo della cascata del Reno a Sciaffusa, che l'aveva fatto rimaner là un'ora con lei ad ammirarlo. Lo stesso pensiero balenò a tutti: l'aveva fatto rimaner là perchè il fragore della cascata copriva la sua voce, e in quel tempo essa s'era un po' riposata.... Lo stesso amico ricevette poi un'altra lettera, con la quale egli annunziava il suo ritorno, e che la sera dopo sarebbe venuto a trovarci al caffè. [323] Tremammo all'idea della descrizione del viaggio ch'egli ci avrebbe inflitta: chi ci poteva reggere? Sarebbe stata una grandinata di parole dalle otto a mezzanotte. La sera fatale, un amico, che l'aveva visto avvicinarsi per la strada, ce lo preannunziò, affacciandosi all'uscio: - Si salvi chi può! - Tutti se la diedero a gambe. Trovando la saletta vuota, egli sospettò la fuga, se n'ebbe per male, e non ritornò più. Ne fummo dolenti; ma non c'era rimedio. Pochi mesi dopo, per ragione d'interessi domestici, andò a stare a Bologna, e per anni non se n'ebbe più notizia. Poi si seppe che sua moglie gli aveva fatto causa per separazione legale. Il vero perchè non ci fu detto. Ma per noi non ci fu dubbio. Egli doveva aver reso alla povera donna la vita intollerabile. La causa della separazione era certissimamente il più bel dono di Dio.
[324]
A TRAVERSO I SECOLI.
I Trecentisti.
A questo punto bisogna che ci fermiamo un poco a discorrere dei principali scrittori che s'hanno da leggere per imparare la lingua.
Prima di tutti....
Qui vedo sorridere i miei lettori, che in questo momento suppongo siano tre, un giovinetto, una signorina e un cittadino originale, a cui è saltato il ticchio, fra i trenta e i quarant'anni, di mettersi a studiare la lingua del suo paese: li vedo sorridere con certa malizia, e mi par di sentirli dire tutti e tre insieme: - Già , ci aspettavamo il consiglio prammatico -, e poi in cadenza di canto: - i Tre-cen-ti-sti!
Eh, Dio buono, non è una novità , lo so bene. E so anche, giovinetto mio, quello che tu e gli altri due lettori mi vorreste rispondere: che a leggere quei nostri antichi scrittori vi provaste, ma che vi riuscirono ostici, non tanto per la materia quanto per la forma; voglio dir per la lingua e per lo stile troppo diversi da quelli delle scritture moderne; per cagion di che vi [325] sentiste, leggendoli, come spaesati, sconcertati nelle consuetudini del vostro pensiero e del vostro gusto, e quasi in compagnia di gente con cui non fosse possibile, per la differenza dell'indole, pigliar famigliarità ; e fra la quale e voi s'interponesse un velo di nebbia, che v'impedisse di vederli bene in viso, e quindi di mettervi in comunicazione immediata con l'animo loro.
Ma io vorrei principalmente persuader te, giovinetto, che, vincendo quel primo senso ostico, e persistendo nella lettura di quegli scrittori, finiresti col prendervi amore, con tuo vantaggio grandissimo, per quelle medesime ragioni per le quali ti pare ora che quella lettura non t'abbia mai ad attirare. Pròvatici un'altra volta, te ne prego, e persisti, tenendo sempre presente che quelle parole e frasi, nelle quali consiste la maggior differenza fra quegli scrittori e i moderni, erano allora in Toscana, e in specie a Firenze, d'uso comune, e quindi naturalissime a coloro che scrivevano; i quali, eccetto pochissimi, non facevano distinzione fra lingua parlata e lingua scritta; di che deriva appunto la ricchezza, la schiettezza, l'efficacia delle loro scritture. Dopo che avrai preso con essi qualche famigliarità , non sentirai più la novità di quei modi, che ora ti paiono affettazioni e stranezze; parranno anche a te naturali come parevano agli scrittori a cui venivano spontanei; e allora, non più arrestato da quegl'intoppi, ti lascerai andare all'onda di quella prosa viva, fresca, giovanile, sentirai, come dice il nostro primo poeta vivente, quello che c'è di più vivido e più frizzante, più zampillante e più mosso nell'elocuzione di quei prosatori che in quella dei moderni che tu [326] preferisci; nei quali l'arte è più raffinata, ma tanto meno ricca e meno schietta la vena. Ti parrà di sentirli parlare di viva voce in quei loro periodi, simili appunto al linguaggio parlato, d'una orditura così semplice e debole, con poca o nessuna legatura rettorica di pensieri, e affollati di determinazioni accessorie; i quali alle volte piglian la fuga, alle volte s'arrestano a un tratto, e fanno mille brusche svoltate, come seguendo tutti i balzi del pensiero nascente e riproducendo il disordine del discorso vivo; ammirerai, come dice il Capponi, quella naturalezza delle armonie, in cui non sono mai cercate combinazioni di suoni, e "hanno più rilievo quelle parole che avevano avuto prima nella voce più vivo l'accento"; ti delizierai in quella loro proprietà di vocaboli, non studiata, perchè essi eran propri per necessità , in quelle loro locuzioni "della nitidezza che si vede nelle monete novellamente coniate", in quella fresca verginità d'una lingua, che cominciava appena a diventar letteraria, e in cui si sente come la fragranza della sbocciatura. E sempre più, continuando a leggere, t'innamorerai di quello che così giustamente si chiama candore di tali scrittori, di quell'aria amabile d'ingenuità che dà alla loro prosa la frequenza della congiunzione semplice, come l'usano i bambini e la gente del popolo, e la profusione dei superlativi, in cui si manifesta la fanciullesca vivacità dell'ammirazione, e quel martellamento, che fanno così spesso, sopra un'idea semplicissima, come per farla entrare in capo a un lettore ignorante; ciò che pure è proprio della gente ingenua. Vedrai che singolari effetti d'arte escono dalla schietta ispirazione [327] non corretta dall'arte, dal calore del sentimento libero, dalle negligenze, dalle rozzezze medesime, dagli stessi difetti non mascherati d'alcun artifizio, ma lasciati scoperti come nudità innocenti. Come si respira in quelle pagine! Ecco gente che parla davvero alla buona e alla libera, che ci dice quello che ha da dire senza l'interprete letterario! Ci par quasi un miracolo. E quanta naturalezza nel modo di raccontare, quanta vivezza in quei dialoghi a botte e risposte, e quanta evidenza in quello stesso disordine affannoso con cui ci rappresentano le scene animate, e che graziosa semplicità negli esordi e nelle considerazioni sugli uomini e sugli avvenimenti! Ti diletterai pure a osservare quante cose si potevano dir bene allora senza una quantità di parole e di frasi che a noi, per dir quelle cose stesse, paiono ora di necessità assoluta; ti maraviglierai di trovare interi periodi che si potrebbero riscrivere al presente, dopo sei secoli, senza mutarvi un vocabolo; ti divertirai a notare qua e là i francesismi curiosissimi, le parole che mutarono significato, e quelle cadute in disuso, che ora farebbero sorridere, le diversità singolarissime, fra quel tempo e il nostro, del senso e del linguaggio comico, del frasario cerimonioso, delle forme del ragionamento, dell'espressione della gioia e dell'amore. E arrivato a un certo punto, vivrai con l'immaginazione in quel tempo, ti parrà d'aggirarti fra quella gente e di respirare l'aria che essi respiravano. Avendo cominciato a leggere per imparar la lingua, sarai preso a poco a poco dalla sostanza, attratto dalla curiosità di quel modo di sentire e di pensare, dalla descrizione delle costumanze, degli usi [328] pubblici, della vita domestica, dell'arte della guerra e dei viaggi, da tutte le manifestazioni dello spirito di quel popolo "giovane, forte, adoprante, pieno d'immaginazione, più inventore che ora non sia", e compreso d'una fede religiosa semplice e ardente. E ammirerai di più quegli scrittori se proverai qualche volta a staccarti all'improvviso da loro per leggere uno qualsiasi dei prosatori del tuo tempo. Come ti parranno compassati, troppo ligi alla fredda ragione, pieni d'artifici e di civetterie e ricercati nell'orditura e nell'armonia dello stile anche quelli che per questi rispetti peccano meno! E più avvertirai il vantaggio di quelle letture quando, avendone ancor piena la mente, ti metterai a scrivere, chè ti sentirai tanto più sciolto, più libero, meglio inclinato a esprimere i tuoi pensieri semplicemente, fresco e leggiero dello spirito come si sente del corpo chi esce dall'acque d'un fiume. E ti do un consiglio: di leggere prima i più semplici, dai quali quando passerai a Dante, rimarrai maravigliato, come d'un prodigio, del passo gigantesco che fa con lui la prosa italiana, senza perdere la sua freschezza giovanile, pure prendendo a norma la sintassi latina; maravigliato profondamente della elaborazione sapiente che egli vi porta insieme coi "soavi numeri" e i "sottili legamenti" della poesia, dell'arte magistrale con cui egli disegna l'idea, plasma l'immagine, illumina tutti i particolari dei fatti in quell'architettura mirabilmente varia dei periodi, in quella prosa "ora solenne ora gentile, profonda e limpida" che è il primo vero e grande esempio di prosa artistica nella nostra letteratura. E studia con amore anche l'altro grande [329] maestro. Vinci la noia che ti daranno da prima i lunghi periodi, nei quali, per accarezzare l'orecchio, sovrabbonda di parole, e per raggruppare intorno a un concetto principale troppi concetti accessori, addossa incisi ad incisi, e per imitare la prosa latina intreccia e traspone forzatamente frasi e vocaboli. Vinci q...
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