[Pagina precedente]...e che io consento, come altre moltissime, perchè per una parte io sono costituita da leggi generali della ragione immutabili, e per un'altra parte non sono che il codice degl'idiotismi della lingua; onde ne vengo accettando sempre di nuovi, benchè adagio adagio. Per continuare: chiudo gli occhi sul lo proaggettivo (per esempio: "non fosti generoso, ma lo saresti stato") quando sonerebbe troppo ingrato il tale, che i miei devotissimi usano, o sarebbe uggiosa la ripetizione dell'aggettivo, o il non dir quello nè ripeter questo lascerebbe nella frase un vuoto anche più sgradevole. Lascio passare, quando cadono opportuni, tutti quei costrutti viziosi, come: - A me non me ne vien nulla; a chi sa mostrare i denti gli si porta rispetto, ecc., - che sono frequentissimi, e per ragion di suono quasi inevitabili nel linguaggio parlato. Permetto il volgare cosa per che cosa, e il costrutto toscano noi si fa, noi si dice, e il gli e il la soggetti pleonastici ogni [313] volta che servano a riprodurre fedelmente un discorso famigliare o di gente del popolo. Gabello, infine, tutti gli anacoluti più arditi in tutti i casi in cui per mezzo loro si scansa di dar alla frase una rigida forma grammaticale che nuocerebbe alla chiarezza, alla naturalezza, all'efficacia, e quando, come disse un maestro, s'usa l'anacoluto per non mettere altrimenti in contraddizione un pensiero ingenuo, immediato o semiserio con una maniera d'esprimerlo riflessa, compassata o seria. Ma (e qui siamo al nodo) se do il dito, non voglio che mi si pigli la mano, e poi il braccio, e poi tutta la persona. Voglio che non s'usino se non gl'idiotismi necessari o utili; che tra due locuzioni di eguale naturalezza ed evidenza, una sgrammaticata e una corretta, si scelga sempre quella corretta; che non si consideri, come molti fanno, ogni idiotismo come una gemma per la sola ragione che è un idiotismo; che non si creda ogni licenza ugualmente lecita così nella riproduzione d'un dialogo famigliare come in un discorso letterario, così nel far parlare un uomo del contado come quando parla lo scrittore in persona propria; che all'antica tirannia della Grammatica, non si sostituisca il dispotismo della Sgrammaticatura, e all'ostentazione dell'eleganza la sfacciataggine della volgarità ; che non si calpesti ogni legge del galateo linguistico, cascando nel linguaggio mercatino per non cascare nel linguaggio accademico; che, infine, perchè s'è buttata via la parrucca e la cipria, non si creda un dovere il mettersi anche in maniche di camicia e l'andare attorno con la faccia sporca.
Ho detto, signorino.
[314]
QUELLO CHE SI PUÃ’ IMPARARE DAI TOSCANI.
Se t'accadrà , fin che sei giovane, di fare, un soggiorno breve o lungo in Toscana, sarà per te una buona fortuna, perchè, volendo, imparerai là in un mese dalla voce della gente più che in un anno altrove dallo studio dei libri. Se questa fortuna non avrai, t'occorrerà senza dubbio, nella tua o in altre città d'Italia, di conoscere e di frequentare toscani. Ebbene, ti raccomando fin d'ora d'ascoltarli sempre con gli orecchi bene aperti, e di studiare attentamente il loro linguaggio, in special modo se saranno fiorentini. Non soltanto molto materiale di lingua potrai imparare da loro, essendo gran parte dell'uso fiorentino presente, come tutti sanno, l'uso fiorentino antico, che diventò lingua letteraria comune a tutta Italia; ma, quello che più importa, la proprietà , la spontaneità , la prontezza dell'espressione, che son quello che manca a noi principalmente. Perchè corre fra noi e loro questa gran differenza, come osservò giustamente un linguista illustre: che a noi, parlando, per dire una data cosa, vengono quasi [315] sempre sulla bocca due modi: il dialettale e uno o più modi italiani, fra i quali dobbiamo scegliere; e a loro viene un modo solo, quello che dice per l'appunto quella data cosa, quello che è il più proprio, e che tutti i loro concittadini usano in quello stesso caso; donde la facilità , la sicurezza, la precisione del loro parlare, dove il nostro è quasi sempre opera di stento e d'artifizio. Possono qualche volta anche i toscani stentare e riuscire artifiziosi, quando hanno da esprimere un pensiero nuovo o insolito o complesso, perchè in tal caso cercano essi pure, se non la parola, la frase, e il modo di collegare le frasi; ma nel dire le infinite cose comuni, che sono argomento quotidiano di discorso, tutti sono sempre pronti, spontanei e semplici; non tentennano perchè non hanno dubbî; non sbagliano perchè non possono sbagliare. Fa' bene attenzione. Vedrai quanti modi piani e agili hanno d'esprimere pensieri che noi esprimiamo di solito in forma ricercata e pesante; in quanti casi fanno un salto con la frase dove noi facciamo più passi; in quant'altri scansano con una mossa snella e garbata l'intoppo che noi urtiamo, o arrivano con la parola un tratto di là dal punto dove noi crediamo che la sua potenza si arresti. E anche nel parlare di quelli che non hanno cultura nessuna, osserverai certi modi di legar le proposizioni, certe forme armoniche di sintassi, certe abbreviature di frase efficacissime, che negli scrittori ti parrebbero effetti di arte meditati, e sono pregi naturali del loro linguaggio. E sentirai da loro a ogni tratto una parola inaspettata, che è come un tocco di pennello dato all'idea, che tu non sapresti dare con [316] altra parola; espressioni ingegnose, graziose e comiche, eleganze e arguzie felici, che non sono proprie di chi parla, ma di tutta la sua gente, e tanto più efficaci per questo, che gli vengon via come da sè, e l'una incalza l'altra, e nessuna ti fa pensare che sarebbe più calzante un'altra al pensiero. E bada bene a loro anche quando parli tu, ed essi t'ascoltano: uno schiarimento che ti chiederanno, un'ombra leggiera di stupore o di dubbio, che passerà sul loro viso, o un sorriso leggerissimo, o una ripetizione emendata, che faranno quasi senza volerlo, dell'espressione d'un tuo pensiero, t'avvertiranno che t'è sfuggita una parola impropria, e perciò non chiara, invece della propria, un'espressione letteraria in luogo della famigliare, una frase affettata in cambio di quella semplice, ch'essi avrebbero usata in quel caso. Che sono mai i pochi idiotismi che ai toscani si rinfacciano per rincalzar la stramba affermazione che essi parlino un dialetto come gli altri, di fronte alla ricchezza, alla finezza, alla grazia, alla mirabile armonia pittrice del loro linguaggio? E che stupido orgoglio è quello che non vuol riconoscere in loro una superiorità , della quale ci avvantaggiamo tutti, poichè tutti attingiamo alla loro lingua quando non ci basta la fonte degli scrittori e dei dizionari, e che cocciutaggine il non voler riconoscere che si parli meglio l'italiano in quella regione, che fu la culla della lingua, ed è la sola in cui la lingua si parli da tutti? Ma tu non sarai di questi, certamente. Se andrai in Toscana, tu t'immergerai, nuoterai con piacere infinito in quell'onda di lingua viva e pura, alla cui armonia ti parrà che consuoni [317] quella che spira nelle linee dei monumenti di arte maravigliosi, che ti sorgeranno d'intorno; e ti parranno dolci anche quegl'idiotismi di pronunzia, che prima deridevi, quando penserai che sonarono pure sulle labbra degli scrittori e degli artisti immortali che il mondo venera; e con l'amore della lingua e con l'ammirazione dell'arte nascerà nel tuo cuore un sentimento di gratitudine affettuosa e profonda per quel popolo, primo custode del tesoro della nostra parola, dotato d'ogni facoltà più gentile e del più squisito senso della bellezza; di quel popolo al quale dobbiamo tanta parte della nostra gloria, che, a immaginarlo assente dalla storia italiana, non ci appare più la immagine della patria che con la corona smezzata sulla fronte.
[318]
IL DOTTOR RAGANELLA.
Era stato un pezzo in Toscana il dottor Raganella; ma dai toscani non aveva imparato nulla, perchè non li aveva mai lasciati parlare.
La parola, soleva egli dire, è il più bel dono di Dio. Noi dicevamo che il dono a lui era toccato un po' troppo abbondante. Ma per fortuna non era che dottore in legge, non esercitava l'avvocatura, non rintronava la testa che agli amici.
Si vantava d'avere una grande facilità di parola. Ed era vero: aveva una facilità spaventevole. E sarebbe riuscito eloquente se fosse stato persuaso della verità detta dal Bonghi: che gli uomini dotati di parola facile si debbono assoggettare più degli altri a una disciplina rigorosa per non cadere nella prolissità , con la quale non c'è eloquenza nè stile.
Non erano discorsi i suoi: erano cascate, frane, diluvi di parole. Non intaccava, non si posava mai, e parlava sempre più in fretta via via che il suo discorso s'allungava. Disse un poeta francese ad un giovane: Se tu riuscirai a parlare dieci ore di seguito senza sputare, sarai [319] padrone della Francia -: egli avrebbe dovuto esser padrone dell'Italia. Dopo averlo inteso discorrere per un quarto d'ora, restava a tutti una romba nell'orecchio come quando ci passa accanto a grande velocità un treno di strada ferrata. Egli aveva l'illusione, comune a tutti i parlatori troppo facili, che la rapidità vertiginosa del discorso impedisca la noia in chi ascolta; quando segue invece l'opposto, perchè in quella furia essi non hanno tempo nè modo di dar rilievo e colore a nessun concetto o parte di concetto, e riescono però necessariamente uniformi. E accadeva pure a lui, come a tutti gli altri suoi simili, che avendo coscienza di quella mancanza di rilievo e di colore, cercava di supplirvi ripetendo più volte l'espressione d'ogni pensiero, a modo di quel giornalista verboso d'uno scherzo comico del Ferrari, che incomincia un discorso col verso
So, conosco, m'è noto e non ignoro,
e va innanzi così fino alla fine. E pure la soverchia facilità di parola lo portava a non far grazia, raccontando un fatto qualsiasi, di nessuno anche minimo e più futile particolare, di modo che se aveva da dire, per esempio, ch'era stato a visitare un amico, diceva per quali strade era passato e che cosa gli era frullato pel capo camminando, e poi: - "Salgo le scale, suono il campanello, m'aprono, domando: - È in casa? - È in casa, - vado avanti, entro nel salotto...." e via su quest'andare. E come di ragione, non lasciandogli tempo di riflettere la troppa foga, parlava scorretto, come tutte le raganelle umane. Il suo eloquio era un torrente impetuoso che [320] travolgeva improprietà , sgrammaticature, riempitivi, cacofonie, contraddizioni e vesciche. Non di meno, la prima volta che l'udivano, alcuni l'ammiravano. - Che ammirabile facondia! - dicevano. Ma facondia non era la parola che facesse al caso. Si poteva dire di lui quello che uno scrittore disse d'un suo critico, il quale scriveva come il dottor Raganella parlava: - La buona educazione mi vieta di definire con la parola propria le fughe del suo stile.
Ciò non ostante egli ci divertiva, qualche volta; in special modo quando faceva uno sfogo di collera contro qualche suo nemico, quando si metteva a gridare, per esempio: - Gridi pure, strepiti, strilli, minacci, tempesti; non mi lascerò smovere: sono deciso, risoluto questa volta, irremovibile, inflessibile nel proposito di far quel passo, e vi accerto, v'affermo, vi giuro sul mio onore.... - Fèrmati! - gli dicevamo -, e bevi un sorso.... - o gli cantavamo l'aria del Matrimonio Segreto:
Prenda fiato, prenda fiato,
Seguitare poi potrà .
E come parlava nel calore della passione, così nello scherzo. Gli venivano spesso dei motti arguti; ma ne sciupava sempre l'effetto ripetendoli, parafrasandoli, commentandoli, fin che ce li faceva tornare a gola, come bocconi indigesti. E quale nel parlare era nello scrivere. Tirava via con la rapidità che usano gli attori quando fingono di scrivere sulla scena: letteroni d'otto pagine, in cui le proposizioni si succedevano senza legame grammaticale, e le ripetizioni cadevano l'una sull'altra come le fette di salame [321] accanto al coltello, e ad ogni pagina la lettera ricominciava.
Ma del più bel dono di Dio non abu...
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