[Pagina precedente]...uogo, chi in un altro; - e quest'altra: - dubbiosi, mutoli, attratti, ciechi ed OGNI ALTRA INFERMITÀ VENNERO dal re -; ma (scrollando il [304] capo, con un sorriso ironico) mi farei levar la pelle prima di metter sulla carta quelle bellezze. So bene che "una parte della Grammatica è costituita dalla somma degl'idiotismi d'una lingua, diventati un fatto", so che "la scienza della lingua consiste nel sapere e l'arte dello scrivere nell'adoperare quelle variazioni idiomatiche" che sono innumerevoli, e tutte opportunamente usabili, anche quelle di cui non c'è esempio negli scrittori; so tutto questo.... e scrivo come scrivo!
R: - Ma me lo dici una volta di che, di chi, per che ragione hai paura!
L. (scoppiando). - Ho paura dell'ignoranza del maggior numero, ho paura della pedanteria degli asini, ho paura di Giuseppe Prudhomme! Ecco di che ho paura.
R. - Di Giuseppe Prudhomme? Ah, capisco finalmente!
L. - Sì. Tu conosci il Prudhomme, quel personaggio maraviglioso in cui Enrico Monnier ha rappresentato la scioccheria, l'ignoranza saccente, la meschinità e la pecoraggine intellettuale, inconsapevole e presuntuosa di una grande famiglia d'esseri, non soltanto della sua Francia, ma d'ogni paese del mondo. Ebbene, io, nello scrivere, ho paura del Prudhomme italiano, e della signora Prudhomme, e dei suoi figliuoli e delle sue figliuole, e di tutti i suoi congiunti ed amici, e di tutti coloro che poco o molto rassomigliano a lui. Quando sto per mettere sul foglio uno di quei tanti modi che abbiamo visti, e degli altri moltissimi, che ho notati, mi si leva davanti tutta quella gente, li vedo col mio libro o col mio articolo fra le mani, e li sento esclamare: - Oh che ciuco! Ma che italiano è [305] questo? Ma costui non sa la grammatica! - perchè tutte quelle licenze e arditezze che per te e per me sono bellezza e forza della lingua, per il Prudhomme e per i suoi simili sono offese alla grammatica, alla logica, al senso comune; poichè Prudhomme, liberale in politica, è in letteratura un tiranno superbo e stupido, che sputa sull'idiotismo, e calpesta ogni libertà di parola. È il suo fantasma che mi fa geometrizzare la lingua: io faccio l'asino per paura degli asini. Sono di coloro, di cui dice il Carducci che, per scrivere, si mettono i guanti, per parer gentiluomini ai borghesucci. Se non che egli parla di chi ha le mani grosse e nocchiute, piene di porri, di verruche e di schianze, che i guanti non bastano a mascherare. Ed io no: io avrei una mano ben fatta, leggera, una mano da signore; e sono i guanti che me la sformano: i grossi guanti grammaticali, tutti sgonfi e grinze e frinzelli. E dire che m'inguanto per il Prudhomme! Che abbominio!
R. - Eh via, tu esageri. Il Prudhomme è una testa piccola; ma non un cretino addirittura. Mi pare che tu lo calunni per iscusarti.
L. - E tu lo difendi per farmi coraggio, capisco. Ma fors'anche non lo conosci quanto me. Io non lo conosco soltanto per i giudizi suoi che mondo ripete; ma anche per esperimento diretto che feci di lui in varie occasioni. Ecco qua un foglio col quale lo misi alla prova. Son tutti periodi, frasi di scrittori magistrali, che sottoposi al suo giudizio, dandoglieli per roba di sconosciuti; di quei costrutti, frequentissimi negli scrittori classici, dei quali noi ammiriamo la naturalezza e l'efficacia. - E tutte quelle cose delle quali non è ragione naturale perchè così debba [306] essere o intervenire, non si debbono osservare nè credere. - Ma che pasticcio è questo? - domandò il Prudhomrne. - Costui non deve aver fatto le elementari! - Questo Castruccio, guerreggiando, e dando assai che fare ai Francesi, fra le altre nobili cose che fece fu questa. - Oh che bella sintassi! - esclamò il Prudhomme.- Rilegga un po', tanto per ridere. - Perchè il Prudhomme, lo devi sapere, va in estasi davanti alle inversioni latine più forzate e contorte, che gli paiono eleganze aristocratiche; ma a quelle naturali e necessarie alla lingua viva, che sono, come dice un filologo, una parte di stile diventato lingua, arriccia il naso come a volgarità di scrittori incolti. E senti quest'altre, che sono anche più amene. - Io so che la cagione che tanta moltitudine è qui, è solo per udire quello che più volte v'ho detto. - A questa il Prudhomme fece una risata. - Non c'è materia da farne proverbio, i quali generalmente si fondano sulla ragione e sull'esperienza. - Proverbio, i quali - disse -; e chi è questo pazzo? - Era scritto che egli portato su dai tumulti di Livorno, un tumulto di Livornesi dovesse farlo precipitare. - Commento: - Che egli.... lo dovesse.... Una grammatica da serve. - I dodici capitani del Cairo è come se tu dicessi i dodici capitani di guerra. - I dodici capitani è.... E chi è quest'asino? - È Daniello Bartoli, - risposi.
R. - Codesta è incredibile.
L. - Ma vera. Te ne cito ancor una, che sarà l'ultima. Lessi a un Prudhomme questa frase del Carducci: - Leggendo sì fatte cose, chi conosce discretamente la letteratura nazionale, la prima cosa che pensi è.... - Ma questa - mi disse - [307] è una costruzione da scolaretto di terza elementare. - Capisci: secondo lui, il periodo doveva esser rovesciato!
R. (ridendo). - Andiamo, te lo confesso ora: avevi ragione: non ho difeso il Prudhomme che per farti coraggio.
L. - A un vigliaccone par mio? Ma è fatica sprecata, caro amico. E lascia ch'io finisca la mia confessione perchè voglio che tu mi disprezzi nella misura che mi spetta. Tu non puoi immaginare fino a che segno io arrivi. Nel racconto che t'ho letto, nel primo dialogo, avevo scritto: - Ma bada, me, tu m'hai a risparmiare. - Vedi qua: ho cancellato il me. - Avevo scritto: - Era un luogo destinato ad ammazzarvisi le bestie. - Ho sostituito: - Dov'era destinato che s'ammazzassero le bestie. - Un orrore. Qui, dov'era scritto: - Quel ragazzaccio non gli si può dir nulla che si rivolta come un aspide -, ho corretto: - A quel ragazzaccio non si può dir nulla.... - Sì, ridi pure. Dove avevo detto: - Mi diede che m'accompagnasse per la città il suo segretario - ... come abbia corretto non oso dirtelo. E nota che per ciascuno di quei modi ho i miei bravi esempi classici. Ah, faccio stomaco a me stesso! A questa miseria son ridotto!
R. - Amico, sei gravemente malato, lo riconosco. Ma i malati della tua malattia, consòlati, sono molti più che non credi fra gli scrittori. La conclusione è questa: che hai bisogno d'una cura rigorosa.
L. - Eh, tu puoi celiare, tu che sei intrepido. Leggendo le cose tue, non sai come t'invidio!
R. - E dunque segui la mia via, che è assai [308] più comodo che continuar per la tua. Io ero come te, un tempo. E guarii senza cura. Fu una parola di Gino Capponi il mio toccasana. Ci sono certi motti di scrittori che operano di questi miracoli. Egli dice in una lettera: - Io, quando piglio la penna in mano, ho sempre la voglia di farmi bastonare. - Fu un lampo per me. Dopo d'allora, ogni volta che pigliai la penna, saltò addosso a me pure quella voglia, ma doppia: di buscarne e di darne ad un tempo. L'immagine del Prudhomme italiano, critico di lingua, che a te fa tanto spavento, a me mette il diavolo in corpo. Io ci ho un gusto matto a provocarlo con la penna, a irritarlo, a farlo strillare, e mentre me lo immagino fuor della grazia di Dio, rido di lui, e batto più forte. Dar delle urtonate al buon gusto del Prudhomme, schiaffeggiare la sua pedanteria, sfondare a pugni e a calci la sua grammatica tarlata, è per me una sodisfazione indicibile. Pròvatici, e vedrai che piacere ci troverai tu pure. Eccoti la cura della tua malattia: la lotta. Rimbòccati le maniche, e picchia.
L. (guardandolo). - Ti ammiro. Io, invece, rassomiglio a quel pittore che passava delle giornate davanti al suo quadro, esclamando: - Ah, se osassi! Se osassi! - Ma a che serve? Come dice don Abbondio, il coraggio uno non se lo può dare. E sì che per darmelo ho tentato ogni mezzo; perfino.... (dopo un momento d'esitazione) quello di bere del cognac prima di mettermi a scrivere.
R. - E allora osavi?
L. - Sì, ma (vergognandosi) la mattina dopo.... cancellavo.
[309]
R. - Ma oggi tu devi farla finita. Tu devi giurar qui, in mia presenza, stendendo la mano sul tuo scartafaccio, guerra implacabile al Prudhomme!
L. (scrollando il capo). - Sarebbe un giuramento di marinaro. (A un tratto, tendendo il pugno). Ah, come l'odio!
R. - Chi odia teme. Fin che lo temerai, non lo affronterai. Fa' il giuramento.
L. - Ebbene, andiamo: giuro.
R. - Guerra a morte?
L. (con viso truce, ma con accento fiacco). - A morte.
R. (tra sè, guardandolo di sott'occhio). - Non si batterà . Non c'è altro. Requiescat in pace.
[310]
L'ALTO LÀ DELLA GRAMMATICA.
Alto là , signorino.
Le ho da parlare.
Non mi guardi bieco. Non le ho gridato che per celia l'alto là soldatesco. Non sono più la dura tiranna che molti credono; non considero più come offese mortali ogni rifiuto di cieco ossequio, ogni minima licenza o confidenza che si prenda la gente con me. Essendomi persuasa che, come tutte le cose di questo mondo, son destinata anch'io a mutare col tempo, mi vengo piegando man mano a transigere coi diritti dell'uso, con la ragione dell'armonia, con molte piccole convenienze dell'arte che una volta disconoscevo. Ma non vorrei che per queste ragioni ella si credesse lecito di buttarmi tra i ferravecchi, che sarebbe anche un gran male per lei, com'è per tutti quelli che gliene dà nno l'esempio; e però voglio che c'intendiamo bene, che ella sappia da me quanto posso concedere, e quanto credo d'avere ancora il diritto di vietare. Dirà lei che questo è il linguaggio d'una tiranna?
E veda, a provarle quanto sono arrendevole dovrebbe bastare quel lei; col quale entro in [311] materia. Io volevo una volta che nel caso retto s'usasse sempre egli, e ora lascio dire lui e lei in tutti i casi in cui il significato della frase s'appoggia sul pronome, che deve perciò far rilievo. Quindi: - È lui che l'ha detto. - Lo saprà lui, io non lo so. - S'impanca a filosofo, lui! - sta bene. Ma che bisogno c'è di dire: - Me lo dice lui stesso? - Andai senza che lui lo sapesse? - Mi valsi delle ragioni che lui addusse? - Questo non è più uso giustificato; ma profusione dell'idiotismo, inutile e ristucchevole. E così eglino ed elleno son pronomi diventati arcaici, ridicoli nel parlar famigliare e un po' pedanteschi anche nella prosa letteraria; ma non vi si può sostituire essi ed esse, che sono pur sempre dell'uso comune, invece di quello sfacciato loro, che molti vogliono in ogni caso, forse non per altro che per vilipendermi? E perchè bandire questi, quegli e altri al nominativo singolare, per sostituirvi questo, quello e un altro, sempre, anche quando non sono richiesti dal carattere famigliare del discorso? E perchè usare a tutto pasto lei invece di ella, quando ella è ancora vivo e comunissimo nell'uso dei Toscani, i quali dicono l'uno o l'altro secondo che vuole l'orecchio o il diverso grado di famigliarità che hanno con la persona a cui si rivolgono? E consento che si dica e scriva gli in luogo di loro e a loro, quando il loro dà impaccio, come nell'esempio: - Vuoi dare del vino ai ragazzi? Non voglio dargliene -, perchè: - non voglio darne loro o loro darne - sarebbe troppo duro all'orecchio; ma non che si dia lo sfratto a loro come a una parola intollerabile per sè, e che si scriva, ad esempio: - Fermò i suoi compagni [312] e gli disse -, dove il gli è una sgrammaticatura gratuita, più sgradevole a due doppi del loro. E non mi si dica che, ragionevolmente, dovrei essere inflessibile, e aver per massima: - O sempre o mai -, perchè, ammettendo questo, io mi dovrei disfare e rifare per metà : non dovrei permettere di dir come me e come te; nè glielo dissi riferito a femmina; nè consentire che s'usi il verbo nel plurale con un nome collettivo singolare, come nell'esempio: - La gente vanno -; nè tollerare che si riferisca un verbo in singolare ad un soggetto plurale, preceduto o no da un di partitivo, come nelle frasi: - Non c'è cristi. - C'è dei birboni. - Malati non ce n'era. - Può nascer di gran cose -; licenz...
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