[Pagina precedente]...che parla o che scrive male per il fatto che a quando a quando usi una parola non italiana per dire una cosa che nella nostra lingua non ha ancora la parola che la esprima. So bene che ad alcune delle parole straniere già divulgate c'è chi propone di sostituire altre parole nostre, e che, se queste calzano, e se hanno da prevalere, ciò che è desiderabile, bisogna pure che qualcuno le cominci a usare. Ma in questo io m'attengo a una regola che mi è suggerita da un sentimento più forte di quello [262] della lingua. Delle parole italiane che si vorrebbero sostituire alle straniere ce n'è che si posson dire senza che ne scapiti la naturalezza del discorso, e quelle le dico. Ce n'è altre che non si possono dire senza far maravigliare e sorridere chi ascolta e senza passar per saccenti che si voglia in materia di lingua dettar la legge, e queste non le dico e non le scrivo, perchè preferisco usare un barbarismo al far ridere e all'esser tacciata di saputella. Così non voglio e non posso dire teletta invece di toeletta, nè posa invece di consolle, nè rinfresco invece di buffé, e con buona pace del nostro buon B., dirò cupè, finchè lui od altri non abbiano trovato in luogo di quella parola qualcosa di più spiccio di scompartimento anteriore della diligenza, che quando è detto per non dire la parola barbara, è ridicolo. Questa è la mia regola riguardo alle parole nuove: parlare e scrivere italiano quanto più puramente si può, senza far ridere; perchè nell'uso delle parole ciascuno ha un suo sentimento proprio della convenienza, al quale nessun'autorità linguistica può comandare. Ma già dev'esser pure l'opinione sua, com'è di quasi tutti, e lei non m'ha interrogata che perchè gliela confermassi; e se le avessi espresso un'opinione contraria, non ne avrebbe tenuto nessun conto. Stia dunque col Giusti. L'importante è che lo stile rimanga paesano.
UN INGEGNERE INDUSTRIALE.
Sono ameni i puristi sine labe che non vogliono le parole nuove. È perchè non vivono nel nuovo mondo. Se ci vivessero, se sapessero il [263] numero enorme di nuove parole che hanno portato con sè e rese necessarie i progressi delle industrie minerarie e metallurgiche, il telegrafo, il telefono, l'elettricità , le macchine tessili, la stampa, e cento altre cose; se toccassero con mano che non passa quasi giorno senza che si scopra o s'inventi qualche nuovo strumento, o procedimento, o particolare di congegno o di tecnica, che non può aver altro nome fuor di quello che gli dà chi lo inventa, si sdarebbero dall'impresa per disperati. Per ogni dieci o cento parole che occorrono, e che son prese da una lingua straniera o coniate alla meglio fra noi dalla gente che n'ha bisogno, essi ne propongono una, che dicono italiana, o meno barbara. Ma a che pro? Chi la mette in corso? E quale scrittore ha mai fabbricato nuove parole, che sian diventate d'uso comune? D'uno dei più fecondi e popolari scrittori francesi del settecento, si dice che n'abbia coniate di suo e mandate in giro due sole; delle quali una è morta. E, infatti, l'azione d'uno scrittore, per quanto autorevole, non è che pochissima cosa, per non dire nulla affatto, rispetto all'azione collettiva del popolo, che di certe parole nuove ha bisogno subito, e le piglia dove sono e come le trova, o se le fabbrica da sè, nel modo che gli comoda e gli garba. Conosco una sola nuova parola italiana che in quest'ultimi anni sia stata coniata da un pubblicista, e abbia avuto una certa fortuna: ed è tramvia, che entrò nei regolamenti e nelle leggi. Ma moltissimi che scrivono tramvia, dicono parlando tranvai, e tranvai o tram si dice dalla grande maggioranza in Toscana e altrove; e anche di quelli che usano [264] la parola ufficiale, chi la fa femminile e chi maschile, e chi pronunzia tramvia e chi tranvia, poichè il suono amv non è della lingua italiana; e non è ancor certo che a tramvia debba restar la vittoria. Dunque? Io lascerei gridare i linguisti, e farei il comodo mio, come tutti fanno, senza il loro permesso, e come s'è sempre fatto da per tutto, da che mondo è mondo e le lingue vanno da sè, come i fiumi.
UN BELLO SPIRITO.
Quello che mi fa dispetto, in quest'affare delle parole nuove, di cui mi son molto occupato per pura curiosità , è l'ipocrisia dei pedanti: è che molti di loro condannano certe parole senza dire quali altre vi si hanno da sostituire, e qualche volta riconoscendo che non ce n'è altre; o ne propongono tre o quattro, che equivale a non proporne alcuna, perchè è un sostituire a una questione un'altra quistione; e che, in ogni caso, combattendo una parola in uso e proponendone un'altra, sono certi certissimi di fare un buco nell'acqua; ciò che vuol dire che seccano la gente sapendo di non ottenere altro effetto che quello di seccare. Mi fa anche più dispetto il vedere che molte delle parole nuove ch'essi non registrano o bollano di barbarismi nei dizionari e nelle dissertazioni o dispute filologiche, o cancellano con tanto di frego nei componimenti dei loro discepoli, le usano poi essi stessi a tutto pasto, parlando, perchè non possono farne di meno, perchè non si farebbero capire o si farebbero canzonare usando quelle che ci vogliono sostituire. Per esempio, io giocherei tutti [265] e due gli occhi che di tutti quanti i proscrittori del barbarismo consommé o consumé non ce n'è uno che abbia mai detto, non ci sarà mai uno che dirà in nessun luogo, in nessun caso, a nessun cameriere o cuoco o albergatore o serva d'Italia: - Mi dia un consumato o un brodo ristretto. - E l'esempio val per cento. O che razza di gioco a partita doppia è codesto? Se quelle parole le dicono, perchè non le scrivono? Se non osano di scriverle, perchè le dicono? Sono bene costretti a scriverne e a lasciarne scrivere tante altre che ai loro padri fecero orrore. Ma la lingua s'altera! Ma sono secoli che si va alterando; ma tutto s'altera col tempo: i costumi, le idee, la vita, il mondo: non s'ha da alterare la lingua? Ma la vanno alterando essi medesimi, che usano molte parole non usate dalla generazione antecedente, che ne usano da vecchi molte altre, che non usavano da giovani. Dicevano essi da ragazzi le parole: patinaggio, scatingring, fonografo, cinematografo, sport, automobile, motocicletta? E bisogna ben che le dicano ora per forza. Io vorrei che con la macchina maravigliosa del romanziere Wells ci potessimo trasportare tutti quanti nel venticinquesimo secolo, per veder che faccia farebbero a leggere il vocabolario della Crusca del 2400! E allora, a che serve questo dire e non scrivere, prescriver con la penna e accettar con la bocca, e pensar d'arrestare una moltitudine che corre agguantando Tizio e Caio per il colletto?
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Ma tu mi dirai che non t'ho riferito che giudizi anonimi. Ebbene, consultiamo insieme uno scrittore grande e purissimo. Ecco quello che ti direbbe Giacomo Leopardi, condensando in un breve discorso quanto è scritto sparsamente nei sette volumi dei Pensieri postumi.
- Conservare la purità della lingua è un sogno, un'immaginazione, un'ipotesi astratta, un'idea non mai riducibile ad atto, se non solamente nel caso d'una nazione che, sia riguardo alla letteratura e alla dottrina, sia riguardo alla vita, non abbia ricevuto e non riceva nulla da nessuna nazione straniera. Le cose vivendo sempre, e modificandosi sempre continuamente e moltiplicandosi le conosciute, e non potendo una lingua esser mai perfettamente fornita del necessario fin ch'ella non esprime perfettamente e convenientemente tutte le cose e tutte le possibili modificazioni delle cose di questo mondo, ne segue la necessità ch'ella s'accresca sempre di nuovi modi; i quali è ben naturale che a noi italiani vengano in gran parte di fuori, perchè la vita ci viene in gran parte d'altronde. Molte di queste parole e modi nuovi sono comuni a tutte le lingue colte d'Europa, e però sono europeismi, non barbarismi, perchè non è barbaro quello che è proprio di tutto il mondo civile e proprio per ragione appunto della civiltà , com'è l'uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d'Europa. E d'altra parte l'esempio dei nostri classici (quasi tutti) che hanno arricchito la [267] nostra lingua con derivar vocaboli e modi dal latino, dal greco, dallo spagnuolo o donde che sia, e li hanno resi italiani di fatto, ci ammonisce che la lingua italiana è capacissima d'appropriarsi voci e maniere d'altre lingue. E non solo può, ma lo deve fare, perchè quanto più la nostra lingua è diligente nel non voler perdere (cosa ottima), tanto più per necessaria conseguenza dev'essere industriosa nel guadagnare, per non somigliarsi al pazzo avaro che per amor del danaro non mette a frutto il danaro, ma si contenta di non perderlo e di guardarlo senza pericoli. Voler respingere le parole nuove è voler mettere l'Italia fuori del mondo.
Tutte sentenze d'oro, come dice il Giusti. Ma poichè potresti esser tentato d'abusarne, seguendo l'esempio dei molti barbari che dalle lingue straniere pigliano a prestito una parola ogni dieci, ti presento come antidoto un mio amico di gioventù; la cui immagine mi salta sempre davanti quando nel parlare italiano sto per dire una parola o una frase francese, non perchè manchi alla mia lingua il modo corrispondente, ma per iscansare la fatica di cercarlo.
Ho l'onore di presentarti il visconte La Nuance.
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IL VISCONTE LA NUANCE.
La famiglia dei visconti La Nuance è antica e numerosissima.
Il giovine italiano, al quale avevamo posto quel soprannome, era nobile veramente (del che non si boriava punto); ma povero come noi, figliuolo d'un esattore, e impiegato egli stesso, non ricordo in che amministrazione dello Stato. Essendo cresciuto in Savoia, dove suo padre era stato parecchi anni, aveva imparato il francese prima e meglio dell'italiano, e quella era rimasta la sua lingua preferita, e diventata il suo vanto, la sua gloria, il vero titolo di nobiltà , del quale egli andava superbo; affermando, naturalmente, ch'era la più bella d'ogni lingua antica e moderna, superiore senza confronto e per ogni rispetto alla nostra. Quindi le continue discussioni e battaglie che seguivano fra lui e gli amici, e le infinite canzonature che gli piovevano addosso; delle quali non si risentiva mai, poichè a un'ostinazione invincibile in quella sua idea, in quella soltanto, egli accoppiava una bonarietà inalterabile, che gli faceva tollerare anche gli scherzi più mordenti.
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Ci stizziva in particolar modo il suo continuo interpolare nel discorso italiano vocaboli e frasi francesi, come se la nostra fosse una mezza lingua, che non bastasse ad esprimere perfettamente nessun pensiero; e non men di questo la ostentazione ch'egli faceva di quell'italiano infranciosato, quasi compiacendosi di non avere della lingua propria che un'infarinatura, quanto gli occorreva appunto per i suoi ristretti bisogni di impiegato. E usava nella più parte dei casi il modo francese anche sapendo il modo italiano, poichè in ogni parola o frase di quella lingua egli sentiva o diceva di sentire una sfumatura di significato (una nuance, diceva sempre) che nella nostra lingua non si poteva rendere. Era quasi sempre un'immaginazione sua; ma non c'era verso di sconficcargliela dal capo. Citava un modo francese, e diceva in aria di sfida: - Sentiamo, come direste in italiano? - Noi gli citavamo un modo nostro che, per consenso di tutti, significava per l'appunto lo stesso. Ed egli no, s'incapava a negare. - Ci s'avvicina - rispondeva -; ma è un'altra nuance; no, ce n'est pas ça tout à fait. - No, far riscontro non voleva dire precisamente faire pendant, averne un ramo non significava tal quale être toqué, dire di uno roba da chiodi o ira di Dio non era propriamente lo stesso che pis que pendre. - Un'altra nuance, un'altra nuance, qualche cosa di sopraffino, l'idea d'un'idea, un nonnulla, ch'egli non sapeva dire, ma che sentiva. E quando poi si faceva la prova inversa, aveva la faccia fresca di tradurre disinvolto in dégagé, traccheggiarsi in se dandiner e vattelapesca in que sais-je! Noi gli coprivamo la voc...
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