[Pagina precedente]...e più facilmente farai ridere se invece di "scappare, indebitarsi, dire l'opposto di quello che s'è detto, far le occorrenze sue, tirar calci, andar tutto d'un pezzo e impettito" dirai: - spronar le scarpe, inchiodarsi, rivoltar la frittata, far gli offici di sotto, lavorar di pedate, aver mangiato la minestra o lo stufato di fusi. - E non c'è bisogno di farti notare che diversità d'effetto comico corra fra le espressioni: un abito che "si comincia a scucire" e che comincia a fischiare; fra "abito lungo e largo o logoro o scarso o mal fatto" e palandrana, biracchio, paraguai, saltamindosso; [230] fra "brodo allungato" e brodo di carrucola, fra "cattiva minestra" e sbroscia o basoffia, fra "miseria" e trucia, "paura" e battisoffia, "cattivo quadro" e cerotto; "persona acciaccosa e di malumore" e deposito: - Andiamo a far visita a quel deposito del signor Gaudenzio! - Molte di queste parole e locuzioni sono ridicole per sè medesime, e bastano da sè in molti casi a destar l'ilarità , dove non gioverebbe a destarla un particolare o un'osservazione arguta aggiunta alla frase o alla descrizione e all'aneddoto.
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Per dimostrarti quant'è ricca in questo campo la nostra lingua, ti cito ancora una serie di modi d'uso comune in Toscana, che noi non usiamo se non raramente; di alcuni dei quali è evidente il significato; e d'una parte degli altri lascerò che cerchi il significato tu stesso, perchè ti resti meglio impresso nella memoria.
- Affogare nel cappello, nelle scarpe, nel soprabito - Aver roba in corpo o in manica - Aver paglia in becco - Avere il baco (con qualcuno; avercela, senza dimostrarlo, o volerlo dimostrare) - Avere i bachi (essere inquieto o di malumore) - Aver famiglia in capo - Aver la fregola (di fare una cosa) - Aver messo il tetto - Alzare i mazzi - Andare, darsi ai cani - Andare in dolcitudine - Attaccare il lucignolo - Bastonare la messa (dirla in furia), una cosa qualunque (abborracciarla e venderla a vil prezzo) - Batter la solfa - Battere il trentuno - Campare con uno stecco unto - Dar le pere - Dare fune o spago - Dare una lunga a uno [231] (intrattenerlo, senza spedirlo) - Dare un'untatina - Dar nelle girelle o nelle girandole - Essere al lumicino, al moccolino, al moccoletto - Essere uno spianto (una rovina: quell'affare è stato un vero spianto per il tale) - Essere in pernecche - Fare un bollo (vuol prender moglie quello spiantato? Farebbe un bel bollo!) - Far polvere (sollevare scompigli: non faccia tanta polvere: abbia un po' più di prudenza) - Fare una buca (un cassiere nella cassa) - Fare un passio (una cosa lunga di cosa che dovrebbe esser breve) - Far baciabasso (per umiliazione, per adulazione, sottomettersi) - Girare a uno la cuccuma, la còccola, il boccino - Grattar gli orecchi - Levar le repliche - Mangiare a macca - Macinarsi il patrimonio - Mettere in purgo (una notizia non sicura) - Non mondar nespole (S'egli lavora, l'altro non monda nespole) - Pagar con le gomita - Piantare un melo - Piantare un porro - Prendere al bacchio (alla cieca, alla ventura) - Prender pelo - Prendere una lùcia, una briaca, una bertuccia - Ridursi all'accattolica - Spianare il gobbo, le costure - Scuotere la polvere - Sonarla a uno - Sonare a mattana - Sbarbare (Non riuscire in una cosa: s'è messo a tradurre Orazio; ma non ce la sbarba) - Tagliare le calze - Venir le cascaggini (d'una cosa che ci annoia: mi fa venir le cascaggini). E soltanto per esprimere facetamente l'idea del mangiare con avidità , o molto, o soverchio: diluviare, digrumare, dipanare, scuffiare, sgranocchiare, dimenare le ganasce, ungere, sbattere, far ballare il dente, far ballare il mento, ingubbiarsi, rimpippiarsi, rimbuzzarsi, spolverare, dar ripiego a quant'è in [232] tavola, mangiare a scoppiacorpo, macinare a due palmenti, mangiar con l'imbuto, divorare a quattro ganasce. E fermiamoci qui, per non fare un'indigestione.
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Certo che le parole non hanno per tutti la stessa faccia. Molte che hanno effetto comico per alcuni, per altri non l'hanno, e questo non è soltanto delle parole di tal genere, ma, in generale, di tutte; e deriva dall'aver ciascuno un suo particolare sentimento della lingua, che è la ragione per cui della lingua stessa ciascuno tende ad appropriarsi certe forme a preferenza d'altre, o ad usarle in un significato più o men lievemente diverso da quello in che altri le usano. Ma il senso comico delle parole, in special modo, è un senso che si affina grandemente con l'osservazione, coi raffronti, e via via che, avanzando con gli anni, si scoprono negli uomini, e nelle cose, nuove e più intime sorgenti di ridicolo; e quand'è affinato, dà nello studio della lingua mille diletti. Sono ben lontano dal credermi in questo più fine di Caio o di Tizio; e non di meno, m'accade di ridere o sorridere di molte parole, ogni volta che le leggo o le sento, come di certe forme e di certi atteggiamenti del viso umano, versi buffi o mosse allegre o burattinesche. Per esempio: - Briachite - Briachella (uno che piglia spesso piccole sbornie). - Non è briaco: ha soltanto un po' d'accollo (l'inclinazione del collo come sotto un peso) - Sbiobbo (d'uno rachitinoso e con gran bazza) - Musceppia (bambina o ragazzetta saputella) - Patìto (l'innamorato) - Pateracchio (per [233] conclusione spiccia, specialmente di matrimonio: si videro, si piacquero e fecero subito il pateracchio) - Un tient'a mente (uno scapaccione) - Stanga, stangato (per bulletta, un uomo in bulletta) - Pispilloria (discorso a carico di qualcuno, o lungo e noioso) - Scarpata (pedata) - Ciucata (cavalcata con gli asini) - Cacheroso (svenevole) - Bacherozzolo (per bambino) - Frittura (di molti bambini) - Sguerguente (uno che fa atti strani o sgarbati) - Squarquoio (di vecchio cascante) - Rubapianete (ladro di chiesa) - Spulcialetti - Squarciavento - Spiantamondi - Strizzalimoni - Picchiapetto - Frustamattoni - Sottaniere - Religionaio - Miracolaio - Pretaio (uno che bazzica preti) - Mogliaio (che non esce mai d'attorno a sua moglie) - Fantajo (dilettante d'ancelle, direbbe la signora Piesospinto); e di verbi non cito che pissipissare, indragonire, rinfichisecchire, insatanassare, sfanfanare (struggersi d'amore), cicisbeare, matrimoniarsi, rivogare.... Giusto, mi vengono in mente due versi di Neri Tanfucio:
Povera truppa, quanti serviziali
T'ho visto rivoga' nel deretano!
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Ho citato quasi tutti modi dell'uso vivo toscano. Ma il linguaggio del ridicolo non può essere circoscritto dall'uso, perchè a chi scherza e vuol far ridere tutto è lecito, pur che rimanga nei confini più vasti della lingua. Nascendo anche il ridicolo da contrasti e dissonanze tra la parola e l'idea, da parole usate in senso insolito, inaspettate, strane o anche fuor d'ogni [234] proposito ragionevole, e dalla stessa affettazione o pedanteria voluta del vocabolo o della frase, ne segue che qualsiasi modo vieto o tronfio o poetico o arcaico, il quale, usato sul serio, stonerebbe intollerabilmente, e farebbe ridere alle spese di chi lo dice, ottiene invece l'effetto che si propone chi scherza, ed è quindi legittimo se a quest'effetto è adoperato opportunamente e con garbo. È come di certi gesti e impostature e alterazioni del viso e dell'accento, che riescono leziosi, sconvenienti e anche odiosi quando in una persona sono abituali e inconsapevoli o affettazioni di dignità e d'eleganza; ma che all'opposto riescono piacevoli quando son fatti con l'intenzione di far ridere, contraffacendo qualcuno, per esempio. Gli esempi sono così frequenti negli scrittori, che non mette conto di citarne; e sono frequentissimi anche nelle conversazioni della gente colta. Noi tutti abbiamo conosciuto o conosciamo certi belli umori che hanno la consuetudine di rallegrar la gente dicendo cose comunissime o lepide con parole gravi e lambiccate e in stile magniloquente. Io ebbi un amico, professore di lettere, il quale faceva sbellicar dalle risa gli amici raccontando aneddoti faceti, e parlando anche delle cose più ovvie con parole e giri di frase del Decamerone, ch'egli sapeva quasi a memoria. Seriamente diceva d'esser rimasto in una trattoria attirato dalla piacevolezza del beveraggio; descriveva un desinare suntuoso a cui era stato invitato, con grandissimo e bello e riposato ordine servito, dove lui, vago di vini solenni, aveva trovato il fatto suo bevendo del Caluso e del Barolo in certi graziosi bicchieri, che d'ariento pareano; [235] e chiamava un avvocato: armario di ragione civile, e una ragazza afflitta da pene amorose: - sventurata in amadore; e diceva d'un farabutto: - Testimonianze false con sommo diletto dice, chiesto e non richiesto -, e a un amico incontrato per la strada: - Dammi un fiammifero, se tu hai in te alcuna favilluzza di gentilezza; e: - Grazie, cuore del corpo mio! - e adoperava il con ciò sia cosa che con tanto garbo, e qualche volta così all'impensata, e con un così forte contrasto col significato e con l'intonazione del discorso, che strappava risate da mandarsi a male.
Non trascurare dunque, leggendo gli scrittori e i dizionari, neppure quella parte della lingua che è fuori d'uso, perchè certe voci e locuzioni muffite, che tu quasi ributti dalla tua mente, ti possono servire in certi casi a dare un vivo effetto comico a uno scherzo, il quale altrimenti riuscirebbe sciapito, a far ridere con un gioco di parole semplicissimo, con una sola parola, con un nonnulla. Nulla nella lingua è disprezzabile, tutto può giovare. La lingua giocosa è infinita come le sorgenti del riso.
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PER VARIARE IL PROPRIO VOCABOLARIO.
Più di trent'anni fa, in un tempo che sfornavo prosa a gran furia, un mio amico un fermò una mattina per la strada, e con un viso grave, che a tutta prima mi fece temere una cattiva notizia, mi disse: - Ho letto il tuo ultimo articolo. Dimmi un po': quando intendi di finirla col tuo in un battibaleno? La prima volta che scriverai invece: in un momento, in un attimo, in un lampo, o anche semplicemente in un baleno, t'inviterò a desinare.
Aveva ragione. C'era anche nel mio ultimo articolo quel maledetto battibaleno, che avevo cacciato non so quante volte in altri miei scritti, senz'avvedermi della ripetizione, e che doveva esser venuto a noia, oltre che al mio amico, a molt'altri.
Tutti gli scrittori hanno certi modi dei quali fanno un uso indiscreto, come gli attori drammatici di certe intonazioni di voce. Non parlo di quelle parole (per lo più verbi e aggettivi) ch'essi usano frequentemente per necessità , perchè sono la espressione di qualche cosa che è [237] nell'indole del loro ingegno e del loro animo. Parlo di quei modi che non esprimono alcun sentimento o maniera particolare di veder le cose, e che son ripetuti quasi inconsciamente, senza bisogno, per forza di consuetudine, in luogo d'altri modi, i quali direbbero lo stesso per l'appunto. I più degli scrittori non n'hanno soltanto uno o due, ma parecchi, e alcuni un buon numero; e non solo gli scrittori, ma quasi tutti, parlando, n'hanno più o meno. Sono parole che s'attaccano alla lingua, come vizi di pronunzia, e ci restano attaccati per tutta la vita. C'è, per esempio, chi dice e scrive fin che campa: - Quindici giorni, tre anni, due ore or sono -, e mai, neanche una volta per isbaglio: - quindici giorni, tre anni, due ore fa. - C'è chi ha preso il vezzo di dire: - Avere il tarlo con uno - per averci odio, ira, rancore, e questo tarlo gli vien fuori infallibilmente tutte le volte che ha da esprimere quell'idea, foss'anche dieci volte il giorno e migliaia l'anno. Altri s'è avvezzato a dir tratto tratto, e lo dice in ogni caso, invece di ogni tanto, ogni poco, di quando in quando, a quando a quando; e spesso impropriamente, perchè d'uno, per esempio, che faccia una tal cosa ogni due o tre mesi, non è proprio il dire che la fa tratto tratto, che significa intervalli di tempo più brevi. Perchè quasi sempre accade questo: che chi sposa, come suol dirsi, una data locuzione, finisce con adoperarla ad esprimere non solo l'idea alla quale essa è propria, ma tutte le idee affini a quella, e ch'essa ...
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