[Pagina precedente]...i tantino nel paese tuo, dove mi pare d'esser tenuto anche in minor conto che altrove. Ricordati di me, e fa' spallucce ai tangheri che mi vorrebbero bandire dalla lingua: fratelli nati di quei padroni di casa villani, che in casa loro non vogliono nè bambini nè fiori.
[221]
LA LINGUA FAMIGLIARE.
Ho ricevuto in questi giorni....
Non è vero; non ho ricevuto niente. Perchè fare una delle solite finzioni letterarie, che non ingannano nessuno? Ho scritto io a me medesimo, in nome d'una signora immaginaria, la lettera seguente, e confesso che l'ho scritta perchè mi faceva comodo, come riconoscerai dalla mia risposta, per la quale ti domando, in cambio della mia sincerità , un po' d'attenzione.
Al Signor tal dei tali,
M'hanno detto ch'Ella sta scrivendo un libro sul modo di studiar la lingua italiana. Mi permetta di rivolgerle una preghiera. Ella ebbe un giorno la cortesia di farmi una lode, la quale, spogliata del complimento dove era chiusa, voleva dire che delle signore di sua conoscenza non ero io quella che parlasse peggio. Ebbene, poichè io mostro buone disposizioni, m'aiuti un poco. Veda il caso mio. Ho un'amica toscana, che è come una mia sorella. Quando parlo italiano con l'altre mie amiche subalpine, son [222] sodisfatta di me, dal più al meno; ma da ogni conversazione con quella esco malcontenta del fatto mio, e anche un po' umiliata. Mi dirà che la cosa è naturalissima. Ma badi: non è ch'io m'accorga, parlando con quella signora, di mancar di parole e di frasi per esprimere il mio pensiero; chè, per esempio, quando tutt'e due parliamo d'arte o di letteratura con altri, non avverto quasi differenza fra me e lei, fuorchè nella pronunzia. La differenza grande che ferisce il mio amor proprio è quella ch'io riconosco quando discorriamo a quattr'occhi liberamente, di cose comuni o intime, scherzando e facendoci confidenze a vicenda. Io sento, allora, che non riesco a dare al mio discorso il colore di famigliarità , la vivezza, e, non so come dire altrimenti, la libera giocondità che è nel suo; e non capisco bene perchè non ci riesca. Forse me lo saprà dir lei, e se mi facesse questo favore, gliene sarei grata, e se della risposta che darà a me facesse un capitolo per il suo libro, credo che renderebbe un servizio anche ad altri. Mi perdoni....
È inutile far la chiusa a una lettera apocrifa, che è un semplice pretesto per far la
RISPOSTA.
Stimatissima Signora Subalpina,
Quello che segue a lei con la sua amica, segue a me coi miei amici toscani. La nostra inferiorità nel parlar famigliare non sta che in minima parte nel giro diverso che si dà all'espressione del pensiero e nella minor ricchezza di vocaboli [223] che noi possediamo; perchè in questo non può esser grande la differenza fra un toscano e uno di noi, che abbia studiato la lingua; nella conversazione ordinaria in ispecie, la quale s'aggira quasi sempre sugli stessi argomenti, non molti, nè molto vari. Consiste principalmente la loro superiorità in un gran numero di modi, non assolutamente necessari, ma propri più che altro del linguaggio parlato, comunissimi fra di loro, e da noi non conosciuti o non usati; che son quelli appunto che dà nno al discorso quel colore di famigliarità , quella vivezza, quella libera giocondità , alla quale ella accenna. Le citerò una serie di questi modi, attenendomi nella scelta alla mia esperienza, voglio dire a quelli ch'io sento spessissimo dai miei amici toscani, e che non uso mai, o quasi mai, nè parlando con loro, nè con altri, non perchè non li sappia, ma perchè ho più alla mano altri modi, di significato equivalente, ma meno famigliari e meno vivi, meno genuinamente italiani.
Essi sogliono dire, per esempio, e io non dico: - Niente niente ch'io parli, mi dà subito sulla voce. - Di nulla nulla borbotta per un'ora. - Punto punto ch'egli tardasse, non arrivava a tempo. - Mi promise di non dir nulla; ma sotto sotto andò a dire.... - Alto alto mi toccò di quell'affare. - A andar bene bene, ci guadagnerà cento lire. - A andarmi male male, mi cacceranno di casa. - Tanto tanto sarà costretto a dir di sì. - Tant'è fermarsi qui che in un'altra parte. - Quella pietra non è molto grande; ma per il suo tanto, è bella assai. - Una rendituccia pur che sia, tanto quant'è nulla. - Non mi piace più che tanto. - Sciocco quanto ce n'entra. - [224] Non lo guardo quant'è lungo. - Tutt'a un tratto, per la strada, me lo trovai quanto di qui a lì.... Vedo che scrolla il capo. Capisco. Forse ella non si ricorda d'aver mai inteso dalla sua amica nessuno di quei modi. Ma proseguiamo. Può essere che le abbia inteso dire quest'altri, che nè lei nè io non usiamo: - Scambio di far questo, faccia quest'altro. - Quest'accorciatura del vestito non basta; l'accorcerei dell'altro. - Gli dissi, perchè non mi stèsse a seccar altro.... - Al vedere, non par che sia molto pentito. - A come si mette la cosa, non c'è molto da sperare. - A sprofondare (questo la sua amica non lo dirà , ma i miei toscani lo dicono), a farla grossa, a fare i conti grassi, è grassa se si guadagna le spese del viaggio. - Come si fa a vedere un pezzo di giovine a quel modo a chieder l'elemosina? - Quando avete fatto bene, egli è il miglior medico della giornata. - Oh, c'è che fare! (ci vuol ancora molto tempo). - Voglio (riconosco, ammetto) che sia un lavoro difficile; ma egli va troppo per le lunghe. - Fa delle grandi promesse; ma voltati in là , non si ricorda di nulla. - Gran poco giudizio che tu sei a confonderti col tal dei tali! - Quando si dice! - È un gran dire ch'io non possa liberarmi da quel seccatore. - So di molto io, m'importa di molto! - Non me ne importa il gran nulla, il bellissimo nulla. - All'ultimo degli ultimi, al tempo dei tempi, al peggio dei peggi, in caso dei casi. - Non sarebbe mica delle peggio andare a fare una gita a Superga. - Non è dell'erba d'oggi (d'una persona non più giovane). - Non è più d'oggi nè di ieri. - Siamo a tocco e non tocco. - Sono stato tutto il giorno col pover' a me.... - O cavaci un [225] numero, via! (Quando ci stizziamo di non capir di che umore uno sia)....
Credo ch'ella cominci a trovarsi d'accordo con me. Ma andiamo innanzi. Scommetterei che la sua amica dice qualche volta, e che lei non dice, com'io non dico mai: - Un bambino che mai il più bello. - Una ragazza bella che mai. - Si vogliono un bene che mai. - I danari li ha bell'e bene, ma non li vuol spendere. - Non ci si discorre (non si può parlare con quella tal persona). - Qui che cosa ci dice? (Che cosa c'è scritto in questo punto?) - Ce lo divezzerò io (lo divezzerò io dal far questo o quell'altro). - Vuol fare una bella nevata. - È capace che piova. - Quando il tempo è fatto bene, ha tempo a piovere! - Levandomi da letto, la prima cosa prendo il caffè. - S'è montato il capo di diventare un gran che. - Non me lo posso levare di torno. - È lui, luissimo. - L'hai veduto mai? Maissimo. - E "perdoni" qui, e "mi scusi là " non fa altro che far cerimonie dalla mattina alla sera. - E gonfia gonfia, non ci potei più stare. - Neanche questo non lo dirà una signora; ma lo cito come un modo tipico d'altri molti famigliarissimi, che i toscani usano, e noi no; donde il nostro italiano meno famigliare del loro.
Usano essi ancora nel parlar famigliare un gran numero di modi che si potrebbero chiamar duplici o geminati; nei quali l'espressione dell'idea è ripetuta con un vocabolo sinonimo o affine o antitetico, sia per ribadire l'idea stessa, sia per far un contrapposto che le dia maggiore evidenza, sia per tondeggiare la locuzione, che suoni meglio all'orecchio, o, come si direbbe elegantemente, per cura del numero. E questi modi [226] servono moltissimo a dar colore di famigliarità al discorso, quando non si confonda il famigliare col volgare; chè parecchi di essi cadono nella volgarità , o ci dà nno accanto, e non li avrà certo uditi mai dalla sua amica. - Cito alla rinfusa: - Essere d'accordo bene e meglio. - Essere un paio e una coppia. - Essere d'un pelo e d'una buccia, d'un pelo e d'una lana. - Fare una cosa spesso e volentieri. - Non aver nè garbo nè grazia. - Non aver modo nè maniera. - Averne da dare e da serbare. - Non far nè uno nè due. - Non aver nè colpa nè peccato. - Far calze e scarpe d'una cosa. - Esser fiori e baccelli con uno. - Non voler nè tenere nè scorticare. - Non dar nè in tinche nè in ceci. - Costare il cuore e gli occhi. - Mandar via uno segnato e benedetto. - Non saper nè grado nè grazia. - Una ne fa e una ne ficca. - Di politica non ne vuol sentire nè cotto nè bruciaticcio. - Non l'ho più visto nè cotto nè crudo. - È lui in petto e persona. - È una lingua che taglia e cuce, che taglia e fende, che taglia e fora. - Dà gli e picchia, dà gli e tocca, dà gli e martella. - In fine e in fatti. - Nè così nè cosà . - Non fa nè ficca. - Non cresce nè crepa. (Mi perdoni, signora). E mi par che basti per un saggio.
Tutti questi modi, e quelli citati più sopra (di cui molti appartengono a tutti i dialetti, alcuni tali e quali, altri in forma poco dissimile) corrispondono per l'appunto nella lingua a certi gesti, atteggiamenti, sorrisi e inflessioni di voce, che noi usiamo soltanto con persone domestiche, nei quali consiste particolarmente quello che si chiama modo, contegno, tratto famigliare. Certo, non sta in questo soltanto la superiorità che [227] hanno su noi i toscani nella conversazione ordinaria: sta in molt'altre cose che non è qui il luogo d'accennare; ma nel caso suo, signora, mi par che l'altre cose ci abbiano che fare assai meno di quella che mi sono ingegnato di dimostrarle. Si tratta d'una parte della lingua che noi non sappiamo, o possediamo male, non avendola imparata nelle scuole, dove si bada più che altro alla lingua letteraria; ma che è forse più necessaria, o più utile di questa, perchè sono le persone famigliari, gli amici intimi quelli coi quali abbiamo più occasione e bisogno, nel corso della vita, di parlare e anche di scrivere, e di trattare di più varie cose, e più liberamente, e penetrando più addentro alle cose stesse. E ora, signora mia....
Ma la signora ha fatto l'ufficio suo, e la possiamo accomiatare con una reverenza.
[228]
LA LINGUA FACETA.
Questa tu devi studiare in particolar modo se sei di natura tagliato al faceto, ossia inclinato a osservare e a rappresentare ad altri il lato ridicolo delle cose, e a esprimere molti dei tuoi pensieri, anche non lepidi in sè, in forma scherzosa; poichè per noi, che non abbiamo imparato la lingua dalla balia, non c'è cosa più difficile che scherzare con garbo e ottener con la parola l'effetto del riso.
Perchè sia difficile lo spiega con grande evidenza il Leopardi nei Pensieri che furono pubblicati dopo la sua morte; nei quali troverai un tesoro d'osservazioni acutissime sulla lingua italiana.
Egli dice che il ridicolo (per quanto si riferisce al linguaggio, non alla sostanza) "nasce da quella tal composizione di voci, da quell'equivoco, da quella tale allusione, da quel giocolino di parole, da quella tal parola appunto, di maniera che se sostituite una parola in cambio d'un'altra, il ridicolo svanisce".
Ora, per questa ragione appunto noi otteniamo [229] difficilmente il nostro intento nei discorsi faceti che facciamo in italiano: perchè ci manca la maggior parte di quelle parole e locuzioni, dalle quali nasce il ridicolo, e quasi sempre usiamo in luogo di quelle gli stessi modi che useremmo per dire sul serio le cose che diciamo per far ridere.
*
È una verità che non occorre di dimostrare. L'avrai osservata molte volte tu stesso nei discorsi tuoi e in quelli degli altri. Tu devi sentire alla prima qual maggior effetto comico si possa ottenere in certi casi dicendo invece di "tremar dal freddo": - batter la diana o pigliar le pispole; invece di "dar poco da mangiare a uno": tenergli alta la madia; invece di "ridurgli il vitto": alzargli la mangiatoia; invece di "non ha la testa a segno": gli va male l'oriolo; invece di "picchiare, dar lo busse a uno": pettinarlo, rosolarlo, tamburarlo, fargli una tamburata, dargli le croste o le paghe o le briscole. - E senti ch...
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