[Pagina precedente]... largo e forte, che gli riempie la bocca e gli fa stringere i denti, non è vero? il suono come d'una palmata vigorosa, che pianti ben salda e ribadisca l'idea.
O perchè non si serve qualche volta di me quando vuol dire, per esempio: una trista idea, una mala giornata, una mossa o un'entrata o un'uscita villana, una cattiva ragione, un cattivo partito, una cattiva pratica, una brutta cera o un brutto momento? Perchè, invece di usare due parole o una perifrasi, non dice invece: - Questa è un'ideaccia - Oggi è una giornataccia - Il tale m'ha fatto una mossaccia, un'entrataccia, un'uscitaccia - Codesta che tu adduci è una ragionaccia - Ha trovato marito; ma è un partitaccio - Quel giovane si mette male; ha delle praticacce - Il tale oggi si deve sentir male; ha una ceraccia - Se cà pita ora quel poco di buono, mi piglia in un momentaccio -? Non esprimerebbe la sua idea con maggior brevità e con po' più forza? E se per dire che un tale d'una cert'arte, ufficio o mestiere ha una certa pratica, ma affatto materiale, senza alcun lume di scienza, o che un impertinente l'ha messo al punto di fare uno sproposito, o che un trivialone di sua conoscenza ha mangiato come un bufalo, dormito come un ghiro e tenuto dei discorsi indecenti, ella dicesse: - Non [213] ha che una certa praticaccia - m'ha messo a un puntaccio - ha fatto una mangiataccia, una dormitaccia, dei discorsacci, - non direbbe la cosa più alla svelta e con più vigore d'espressione?
E non son mica grossolano come posso parere a primo aspetto, chè nel graduare o colorire il significato delle parole ho io pure le mie industrie e le mie finezze. Fare una levataccia, per esempio, non significa soltanto: levarsi più presto del solito; ma dice anche la violenza che si fa alla propria pigrizia, e il rincrescimento del farla. Fare una partaccia a uno non vuol dir solo fargli un rimprovero acerbo, o, famigliarmente, una lavata di testa, ma anche usare, facendogliela, aspre parole. Dicendo che uno ha un talentaccio, un ingegnaccio, si dice che ha molto talento, molto ingegno, ma in qualche lato manchevole, o poco ordinato, o non usato sempre degnamente: non si direbbe del Manzoni o del Carducci. Poveraccio! esprime una sfumatura di compassione o di pietà , che non si può sentire od esprimere riguardo a persone che ispirano reverenza: ella può dire poverino o poveretto, ma non poveraccio, di suo padre. Nell'espressione: un uomo fatto all'anticaccia, v'è una leggiera intenzione di canzonatura che non è in fatto all'antica. E con librucciaccio ella dice un libro non soltanto meschino nella forma (chè libruccio significa meschino nella forma più che nella sostanza) e non solo di poco pregio nella sostanza, ma anche in questa rozzo e cattivo. E s'ella dice che un tale fa il comodaccio suo, dice che fa il suo comodo con particolare indiscrezione e noncuranza del comodo altrui e del dovere proprio. Vede quante piccole cose, quante [214] minute diversità e graduazioni di idee io servo a dire e determinare!
E poi, ho stampato tante parole di forte rilievo e di color vivo e gaio, a cui nessun'altra equivale! Veda un po' queste. Di un lavoro duro e misero, che dia appena da vivere: - È un panaccio. - Mangiare un panaccio arrabbiato. - Non t'immischiare con colui: è un arnesaccio, è robaccia. - S'è preso un cosaccio d'avvocato, che gli mangerà fin l'ultimo soldo. - Mi tocca a far certe facciacce per cagion sua! - S'è presentato con un pajaccio di scarpe rotte. - O figliaccio e po' d'un cane! - E veda come servo anche a dare il fatto suo a un indegno, così di sbieco, senza parere: - L'hanno fatto cavaliere l'altro giornaccio, o uno di questi giornacci lo faranno. - Non è una bellezza? E non finirei più! Ma le dico ancor questa: che servo io solo, in Toscana, senz'essere appiccicato ad altra parola, a definire una persona: - È un ragazzo accio, ma accio bene; è un farabutto, ma di quegli acci; - o sono adoperato tre volte per rincarare la dose: - È un malandrinaccio.... accio, accio, accio. - E, in fine, m'accecherà l'orgoglio; ma io penso che uno scrittore che non sa giovarsi del fatto mio, o che mi trascura o mi disprezza, non può essere che uno scrittore da un tanto il mazzo. E me ne scappo, perchè vedo avvicinarsi un tale, un giovincello sdolcinato, con cui non me la dico, e non mi posso trovare insieme. La lascio con lui, che cercherà di rivogarle la sua mercanzia. Ma ritornerò. A rivederci a presto, e si guardi da un'indigestione di zuccherini.
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APOLOGIA DEL DIMINUTIVO.
Giovanettino, ti saluto. Io sono il diminutivo...
Comprendo il tuo sorriso; ma non mo ne risento, perchè sono un buon figliuolo. Da qualcuno tu avrai inteso dir corna di me, e sei mal prevenuto a mio riguardo. T'avranno detto che sono uno sdolcinato stucchevole, che stempero le parole e snervo la lingua, empiendola di lezi femminei e di vezzi bambineschi. Ma tu non devi dar retta a costoro: gente di grossa pasta, che non mi capisce e non mi sente. Io son modesto di natura, e non per vanagloria, lo puoi credere, ti affermo che chi mi maltratta o per ignoranza o per rozzezza d'animo, chi non ha famigliarità con le mie forme innumerevoli e le tiene in conto di vane frasche, non può saper quanto è ricca, quanto è flessibile, quant'è dolce la lingua della sua patria. Cascano nella leziosaggine e ristuccano, non c'è dubbio, tutti coloro che abusano di me, appiccicandomi a cinque parole su dieci, che dicono a un modo bellino e carino un fiore e un campanile, un bambino e una montagna, che non possono [216] esprimere un'idea senza rimpicciolirla alla misura della loro animetta, un sentimento senza indolcirlo fino alla nausea, col giulebbe che hanno nelle vene invece del sangue. Ma, usato con discernimento da chi ha intelletto e gusto fine, io compio nella lingua un ufficio nobile e utile; io do alla parola gentilezza e grazia e soavità di suono e sapore di scherzo garbato e cento significati delicatissimi d'affetto, di pietà , di simpatia, d'indulgenza; io attenuo e scuso colpe ed errori di persone care, velo infermità e deformità d'infelici, esprimo quanto vi è di più tenero nel cuore delle madri e degli amanti, rendo tutte le più delicate gradazioni della bellezza e delle virtù gentili e dei sensi ch'esse ispirano; e addolcisco il rimprovero, e spunto l'offesa, e accarezzo e compiango e conforto. E non vezzeggio alla cieca ogni cosa, come afferma chi non m'intende o mi calunnia; ma dico anche verità sgradite a chi in altra forma non le vorrebbe udire, e faccio atto di giustizia temperando la lode eccessiva, restringendo il concetto ingiustamente ingrandito di molte cose, mettendo un'ombra di rampogna, quando occorre, anche nell'espressione della pietà e dell'affetto. Non vezzeggio soltanto; ma definisco, distinguo, dipingo, scolpisco ed illumino. E non è la mia vanità , è la voce universale che mi chiama una bellezza e un privilegio della lingua italiana.
Imita dunque la gentilezza di chi, volendo designare un piccolo infelice, di cui non sa il nome, e sentendo che nel modo il piccolo storpiato non suona la pietà , dice - lo storpiatino -, come chiama loschina una ragazza losca, e [217] dicendo d'un'altra che ha la bazza, fa intendere insieme ch'ella ha qualche cosa di grazioso, che quasi fa piacere il difetto, chiamandola: - Una bazzina. - Ecco la bazzina. - È una bazzina, bionda, piena di vita. - E dicendo d'una giovinetta o d'una bimba: boriosina, invece di: un po' boriosa, farai comprender meglio che, pure avendo quel difetto, non ha animo cattivo. E se chiamerai un'altra: beatina, dirai, come non potresti meglio, ch'essa è devota alle pratiche del culto, ma non pinzochera, e che il sentimento religioso in lei è gentilezza. E quando vorrai dire che una donna ha un carattere alquanto astioso, tu potrai chiamarla astiosina, senz'offenderla; ciò che non ti riuscirebbe nè premettendo un po' all'aggettivo, nè con altra parola attenuante.
Ma è l'affetto, è il sentimento della delicatezza che suggerisce a chi parla le mie forme più gentili; esse non si cercano, vengon via spontanee, come certe inflessioni carezzevoli della voce. Senti le mamme del popolo, in Toscana. Chiamano maggiorino il maggiore dei loro figliuoli piccoli. Dicono vergognosina una bimba timida, e magari anche un po' selvatica. Non chiameranno un loro bimbo: spersonito o malsano, ma stentino, e per non dir gracile, diranno: - È così minutino, ma sano, - e per non dire d'una ragazza che è di complessione delicata, diranno: gentilina; e capacino, per modestia, d'un ragazzino intelligente o bravo in qualunque cosa. - Ammodino, ragazzi! - dicono spesso, invece di: ammodo, per addolcire l'avvertimento. Tu potresti urtare il loro amor proprio dicendo che un loro [218] figliuoletto ha già le sue malizie; non l'urteresti dicendo che ha le sue malizine; che esprime l'idea d'un accorgimento fine meglio che quella dell'astuzia. E così, se vorranno dirti che un loro bimbo è schifiltoso nel mangiare, te lo diranno con un'espressione graziosissima: - È tanto boccuccia, che è capace di rifiutarmi un piatto se ci trova un bruscolo. - E dicono al pigretto che chiede una cosa: - Allunga il santo manino, e pìgliatela da te. - E quante altre espressioni graziose ti potrei citare, fatte col mio conio! Di una piccola donna o ragazza seducente: - È una cosolina simpaticissima - Ha un'ideina che piace - Una camera raccoltina: non è significata nel diminutivo anche la piccolezza e quasi la giocondità della camera? E se uno ti dice: - A tastar per terra nel buio c'è il casetto di raccattare qualche cosa di spiacevole - non senti in quel casetto un sapor comico che ti fa sorridere? E se ti dice un altro che: - bisognerà aspettare un paietto d'ore -, non senti in questo diminutivo l'intenzione cortese d'abbreviare il tempo nel tuo concetto e di esortarti ad aver pazienza? Ma chi può noverare la varietà degli effetti ch'io posso ottenere? Anche l'attenuazione del peggiorativo! Sentirai dire nella campagna toscana, in val d'Elsa: - Animaccina! - che è come dar dell'animaccia a uno e chiedergli scusa ad un tempo, riconoscendo d'aver detto troppo. Donnaccina! Dieci vocaboli ammontati, nota un filologo illustre, non saprebbero dire altrettanto. E di annatina che i contadini toscani dicono qualche volta per "annataccia affamata" dice lo stesso filologo che v'è in quel diminutivo una mirabile [219] disposizione d'animo, la quale attenua il dolore e quasi ingentilisce il bisogno; e si sottintende: un sentimento di rassegnazione cristiana, per cui si vuol dire la cosa senza lagnarsi, per timor di Dio, che l'ha mandata. Che potrei fare di più, mondo birbetta?
Sarai dunque persuaso, carino mio, che non è mia colpa se molti seccano il prossimo e mi fanno prendere in uggia con gl'ini, con gli etti, e con gli ucci; che è soltanto l'abuso e il mal uso che mi rendono indigesto; che il vizio non è in me, ma in chi mi violenta e mi snatura. E lascia ch'io batta ancora su questo chiodo, facendoti considerare, per esempio, che se è proprio e grazioso il dire d'un ragazzo: ravviatino, ravversatino, ricciutino, fa venire il latte ai gomiti l'udirlo dire d'un uomo tanto fatto; che se è gentile il dire che una bimba è tutta pensierini per la sua mamma, è sdolcinato davvero il dir lo stesso d'un padre per la sua figliuola; e che è ridicolo il dire d'un barbuto impiegato postale, cortese col pubblico, che ha una manierina amabilissima, e che stonerebbe un ufficiale con la sciabola in pugno, che gridasse ai suoi soldati, chiamandoli alle file: - Fate prestino!
Giovati dunque di me, giovinetto, e dirai molte cose propriamente e con garbo e con arguzia; ma non mi chiamare in ballo troppo spesso, e, sopra tutto, non m'usare che quando calzo appunto al sentimento e all'idea. Perchè io sono nella lingua come il sorriso sul volto umano. Che c'è di più gradevole d'un sorriso gentile? Ma chi sorride a tutti, ogni momento e a qualunque proposito, è uno smanceroso che [220] viene a noia. E qui fo punto. Parto per un viaggio di propaganda nell'Italia nordica; ma ritornerò ogn...
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