[Pagina precedente]...omento ingannare. Ti parrà dopo un mese di non aver cavato da quella lettura che un profitto di poco conto, o anche nullo. Ma se, dopo aver letto e pensato qualche centinaio di quelle pagine, dove lo scrittore, esercitando le facoltà più delicate della mente, affronta e vince a ogni periodo le più terribili difficoltà del linguaggio, [204] che son quelle dell'analisi, della distinzione, della definizione, ti proverai a scrivere sopra un argomento comune, tu esperimenterai nel raccontare, nel descrivere, nel ragionare, una facilità nuova, un senso di scioltezza, di sicurezza, di padronanza delle tue facoltà e delle tue mosse, simile a quello che prova a camminare sur una via larga, piana e libera chi sia andato un pezzo per un sentiero erto e stretto e pieno d'inciampi, con un precipizio da lato. La tua mente si sarà addestrata a veder le varie sembianze d'ogni idea con uno sguardo rapido e avvolgente, a penetrarvi in fondo, a passare in rassegna alla lesta i diversi modi di significarla, e a cogliere sull'atto il migliore; e non soltanto nel maneggio della lingua risentirai il vantaggio, e nella cresciuta attitudine ad analizzarla, e nel più forte amore che avrai per essa; ma alla scuola dell'autore che insieme con le parole analizza passioni, azioni, usi, costumi, caratteri, ti sarai avvezzato a meditar sopra ogni cosa, e studierai nella lingua l'anima umana, la vita, la natura, e qualche volta dirai tu pure col maestro che ti par di sentire in questo studio il verbo di Dio.
Libro preziosissimo; leggendo il quale ti sentirai prima compreso d'ammirazione, e poi di reverenza e di gratitudine per lo scrittore che fece della lingua della tua patria uno studio così amoroso e profondo, e per trasmetterne ai giovani la cognizione e l'amore, un lavoro così poderoso e variamente utile e bello; e di pagina in pagina ingrandirà davanti ai tuoi occhi e ti sarà eccitamento via via più forte e più caro a perseverar nello studio, l'immagine del vecchio venerabile,
d'occhi cieco e divin raggio di mente.
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SCRUPOLINO.
I sinonimi erano una delle molte afflizioni della sua vita.
Lo conobbi a Firenze. Era un impiegato della Prefettura, nato e cresciuto
LÃ dove Italia boreal diventa,
già vicino alla trentina; ma così smilzo, e sprovvisto d'ogni onor del mento, e d'indole così timida, che pareva ancora un adolescente. Si dilettava di letteratura, leggeva molto e non mancava d'ingegno; ma era affetto d'una malattia incurabile: il terrore della lingua italiana. Aveva della difficoltà dell'idioma gentile un concetto così smisurato, gl'incuteva un così grande sgomento il fantasma della Grammatica, che, parlando, impuntava a ogni tratto, e balbettava come uno scolaretto agli esami, assalito da mille dubbi, turbato da mille scrupoli; dai quali non riusciva a liberarsi nè sull'atto nè poi, e se ne disperava. Anche nel crocchio degli amici soliti, ma tanto più se c'era qualche toscano colto, o chiunque altro, che avesse reputazione di parlar bene, e [206] non gli fosse famigliare, gli si vedeva in viso la preparazione mentale faticosa e piena d'incertezze ch'egli faceva d'ogni periodo o frase che volesse dire; e quando poi si risolveva a parlare, usava ogni specie di cautele e di formole attenuanti, come: - sto per dire, direi quasi, la parola non sarà di Crusca, mi si passi l'espressione; - e qualche volta arrossiva a un tratto, e restava in tronco. Con questo o con quell'amico, poi, a quattr'occhi, sfogava il suo dispetto contro la lingua e contro sè stesso, e gli confidava i dubbi e i timori che lo perseguitavano di continuo come un nuvolo di vespe. Si doveva dire a un uomo lei è buono o lei è buona? Vacci o vavvi? Credo che tu sii o che tu sia? Lo trattò come se fosse uno sconosciuto o come se fosse stato? Ha fatto la tal cosa di nascosto di o da o al tale? Ho antipatia per o con o verso o contro una persona? Come Dio benedetto s'ha da dire?
E non serviva dirgli i modi che i "buoni parlanti" usavano, e consigliargli di fissarseli una volta per sempre nel cervello, e d'attenersi a quelli immutabilmente; senza di che non sarebbe guarito mai della sua malattia. Se in un libro di scrittore autorevole gli accadeva di leggere un modo diverso da quello generalmente usato (cosa troppo facile in Italia, pur troppo), il dubbio gli rampollava da capo. - Questa maledetta lingua italiana - diceva - è una disperazione. Preferirei di studiare il cinese. - Ogni giorno gli saltava su un dubbio nuovo, anzi un nuovo ordine di dubbi e di scrupoli: sul fra o tra, sul lì o là , qui o qua, costì o costà ; sull'uso degli ausiliari essere o avere con certi verbi; [207] sulla collocazione dei pronomi personali che non sapeva mai dove mettere, e che spesso gli restavano in mano. A volte fermava un amico per la strada, e gli domandava di punto in bianco: - Si dice: lo dissi loro o loro lo dissi? - E quando un amico, del quale avesse stima in materia di lingua, a uno dei suoi quesiti si mostrava perplesso: - Ah! vedi - esclamava in tono di trionfo - vedi se non ho ragione! È una lingua terribile, terribile, terribile.
Per questo suo perpetuo "scrupoleggiare" gli s'era affibbiato il soprannome di Scrupolino, di cui non s'aveva per male; ma nemmeno ne rideva, perchè la parola designava un'infermità mentale, della quale egli aveva coscienza e vergogna.
A furia di porre quesiti a sè stesso finiva con dubitare anche della legittimità delle parole e delle locuzioni più usuali, e in certi momenti di sconforto esclamava: - Io non so più parlare! Io finirò col non più parlare!
Qualche volta cercavamo di persuaderlo, sul serio. - Vedi - gli si diceva - tu hai tanta difficoltà di parlare perchè non parli, componi. Non devi comporre. Ti devi gettare a nuoto nel discorso, arditamente; lasciarti andare all'ispirazione, alla dettatura dell'orecchio, non badando a regole, dimenticando ogni studio. Volendo esaminare e scegliere le parole, come fai, così con la fretta, per non far aspettare, e col timore di seccare chi ascolta, ti confondi, e scegli quasi sempre male, o non trovi, e resti lì, impaniato. Prova un po' a parlare come vien viene. - Ma egli stava un po' pensando, e poi rispondeva, scrollando il capo: - È inutile, non [208] posso; le parole e le regole battagliano nel mio capo come i Deputati nel Parlamento. - Ed era vero. A quando a quando si provava a parlar libero; ma subito gli spettri dell'Improprietà , dell'Impurità , dell'Idiotismo, il fantasma formidabile della Lingua Italiana gli si rizzavano dinanzi, ed egli era perduto.
A poco a poco il tarlo del dubbio gli era risalito, come sempre avviene, dalla lingua alla radice del pensiero, per modo che anche lo scrivere la più semplice lettera diventava per lui un affare di Stato. Egli mi fece la confessione d'uno di questi casi, al quale tutti gli altri rassomigliavano, e che è un esempio dell'impotenza intellettuale a cui può condurre l'esercizio della critica sopra sè stessi, quando non è tenuta nella giusta misura. Si trattava d'una breve lettera di condoglianza. - Stimatissimo signore, gradisca le mie condoglianze. - No. Come si fa ad associare l'idea del gradimento con quella d'una sventura? - Le mando le mie condoglianze. - Come si manda un pacco! E poi è troppo famigliare. - Le faccio.... - Ma non è troppo materiale per l'espressione d'un sentimento? E si dice faccio una condoglianza, o non confondo col modo fare un complimento, che dei due è il solo corretto? - Riceva le mie.... - Oh bella! Se glie le mando, bisogna ben che le riceva: è ridicolo. - Abbia, dunque.... Ma quest'imperativo è sgarbato. E via così per tutto il resto. Sette righe gli costavano i sette dolori. E finiva sempre col ritornello: - È terribile! - Un giorno mi venne incontro in via Calzaioli agitando un giornale, e me lo mise sotto gli occhi, dicendo: - Leggi qua. - Era [209] una Conversazione del giovedì, nella quale Giuseppe Civinini, che per lui era il principe dei giornalisti e dei critici, diceva che la lingua italiana era una delle meno parlate e delle più difficili lingue d'Europa. - Hai inteso? - quasi gridò - e lo dice uno scrittore di quella forza! Non c'è da dar l'anima al diavolo? Io vorrei esser nato in Lapponia!
Uno dei più molesti argomenti di dubbio e di confusione era per lui l'uso del lei e dell'ella, fra cui si trovava ogni momento come tra il martello e l'incudine. Gli dicevano: - Di' come i fiorentini. - Ma questi scellerati - rispondeva - dicono un po' l'uno e un po' l'altro. Che regola ci si può cavare, che Dio li confonda! - E con gente ch'egli praticasse, tanto e tanto si lasciava andare al lei; ma con persone a cui parlasse la prima volta, e che gli mettessero un po' di suggezione, non c'era verso: il lei gli veniva sulle labbra, ma se lo rimangiava, e metteva fuori l'ella a proprio dispetto, e lo sosteneva nel discorso a prezzo di qualunque sforzo e sacrificio della naturalezza e dell'armonia, anche facendo rider gli amici, pur di salvare la Grammatica sacra.
Appunto per la gran paura di non parlar bene, gli toccò un giorno a inghiottire un boccone amaro, che gli restò sullo stomaco un pezzo. Andando insieme a Prato, ci trovammo nel vagone con un ragazzo e un giovinetto toscani, fratelli, di viso intelligente e vivo tutt'e due; i quali scherzavano argutamente a ogni proposito, e rammentavano spesso il babbo, che li doveva aspettare all'arrivo. Allettato dalla loro allegrezza, l'amico Scrupolino sentì desiderio [210] d'attaccar conversazione, e a un certo punto domandò cortesemente al maggiore: - E dove, se è lecito.... dove vanno...?
Stava per dir loro; ma m'accorsi che non osò, e ripetè: - Dove vanno.... elleno?
I due toscanelli fini si scambiarono un'occhiatina e un sorriso, e il maggiore, prendendo baldanza dalla timidità dell'interrogante, rispose con malizia: - Dove andiamo noi, ci domanda?... A Bologna.
E il mio amico, un po' confuso: - E.... a Bologna, mi par d'aver inteso, li aspetta il loro.... genitore?
Il giovinetto sbirciò un'altra volta il fratello, e poi rispose con un leggerissimo sorriso burlesco: - Sì, l'autore dei nostri giorni.
Scrupolino sentì la puntura, arrossì un poco, e non aggiunse altro. Quando scendemmo dal treno, scattò: - Hai sentito quell'impertinente? Avrebbe meritato una lezione. È inutile. Io non dovrei più parlare italiano. Mi darei degli schiaffi, come è vero Dio. Ebbene (e tirò un pugno nell'aria) non parlerò più, e ogni cosa è finita. Tu ridi!... Ma è terribile.
Ma fatti pochi passi pensandoci fermò, e mi domandò a mezza voce, timidamente: - Ogni cosa.... è neutro o femminino?
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APOLOGIA DEL PEGGIORATIVO.
Eccomi qua, signorino. Sono il sor Accio, peggiorativo di professione, vecchio come il primo topo; ma sempre sano e pien di vita come un ragazzo. Non si sgomenti della mia faccia burbera e della mia voce grossa, chè sono un buon diavolaccio in fondo, nonostante la mia reputazione di persona grossolana, e benchè di solito si pronunzi il mio nome sporgendo il labbro di sotto in atto di disprezzo. Vero è che io servo quasi sempre a esprimere sentimenti di disistima e d'avversione, a sparlare del prossimo e a definir cose brutte e sgradite; ma, insomma, sono utile, perchè avversione e disistima sono ben sovente sentimenti onesti, e dir male di certa gente è dovere di coscienza, e sono mai tante le cose brutte e sgradite che gli uomini sono costretti a rammentare! E appunto perchè ho coscienza d'esser utile, mi fo lecito di offrirle i miei servizi, e di farle, modestamente, una lezioncina di lingua.
Perchè, parlando e scrivendo, ella si serve così raramente di me? Eppure io servo a dir molte cose, che non si possono dir bene se non per mezzo mio. Di molte idee accorcio [212] l'espressione; di certi sentimenti significo io solo certe sfumature che altrimenti non si saprebbero rendere; a molte parole do un particolare senso comico che per sè sole esse non hanno; e a chi esprime un giusto sentimento di disprezzo o di sdegno, il mio suono stesso dà un certo qual senso di sodisfazione, che nessun'altra parola gli darebbe, poichè è un suono...
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