[Pagina precedente]... ha pure un nome che non sai: capifosso. Non ti domando neppure se sai che si chiama capezza quell'ultimo solco che fa vivagno al lato del campo, e callaia quell'apertura fatta nella siepe per entrar nel campo vicino, e macereto quell'ammasso di macerie d'una vecchia casa che è in riva al torrente, dove vedi quel ragazzo che bada alle vacche. E a proposito, qual è il nome proprio della campanella che hanno al collo le vacche? E quello del tempo nel quale l'erba suol nascere? E quello della rena raccolta sulle rive del torrente, dove passa ora quel contadino che v'affonda i piedi?... Cam-pá-no, er-ba-tu-ra, re-nic-cio. E quei punti del torrente dove l'acqua è [178] profonda, e una pietra che vi si getti fa un tonfo, si chiaman tónfani, una bella parola onomatopeica; e quello dove il torrente fa una gran voltata si chiama girone; e dove l'acqua fa un rigiro vorticoso si dice che fa un mulinello.... Che cosa ne dici? C'è ancora qualche lacunetta, pare, nella tua dottrina linguistica.
Mentre egli parlava, io mi tenni sempre in un silenzio cocciuto, sorridendo un po' ironicamente, per fargli supporre che molte di quelle parole le sapessi, e non le volessi dire per dispetto; ma in realtà mi riuscivan nuove quasi tutte. E seguitai a tacere mentre le notavo sur un foglio di carta, a sua dettatura. Ma mi rodevo dal dispetto davvero, e in cuor mio lo trattavo di pedante fradicio e di spazzaturaio di vocaboli, e dicevo che aver nel capo un magazzino di parole non era saper la lingua. La lezione fece frutto, non di meno. Quando fui a casa, pensai che in cento altri luoghi, in mezzo a cose affatto diverse da quelle che mio zio m'aveva indicate, io avrei dovuto rispondere altrettante volte: - non so - a chi m'avesse interrogato com'egli aveva fatto, e compresi per la prima volta il vuoto enorme che mi restava a riempire nella mente prima di potermi vantare di saper la lingua. Mi posi allora sul serio allo studio della nomenclatura. Ma non ebbi la costanza di proseguirlo come avrei dovuto. E dell'averlo trasandato risento e lamento il danno spessissimo, perchè son costretto a ogni tratto, scrivendo, a posar la penna per cercare come si chiama questa o quella cosa, e non sempre trovando subito, perdo la pazienza e il filo delle idee e il calore dell'ispirazione; e spesso non [179] trovo, e mi tocca a interrogare amici, a voce e anche per lettera; e qualche volta son ridotto a non scrivere una cosa che vorrei scrivere perchè mi manca la parola e il tempo di cercarla. E non dico della vergogna di dover rispondere molte volte: - non lo so - a chi mi domanda il nome di questo o di quell'oggetto, che tutti i ragazzi toscani sanno nominare; vergogna, dico, perchè nel sorriso degl'interrogatori non sodisfatti leggo bene il pensiero che non m'esprimono: - E son cinquant'anni che studia la lingua!
[180]
LA LINGUA CHE NON SI PARLA.
Via via che procederai nello studio, sempre più sarai maravigliato del gran numero di parole e di locuzioni vive, che, pure essendo usate da scrittori d'ogni regione d'Italia, non si sentono mai, o di radissimo, nella conversazione della gente colta fuor della Toscana, come se non appartenessero alla lingua parlata; e dalla considerazione di questa povertà della lingua che si parla intorno a te, sempre più sarai eccitato a studiare.
Per dimostrarti la verità di quanto affermo, ti cito alcuni modi notati da me, fra i moltissimi ch'io non sento mai dire nè da piemontesi, nè da lombardi, nè da liguri, nè da veneti, che anche parlino e scrivano decorosamente la lingua. Pensa un poco tu pure se t'occorse mai d'udir le parole malmenìo, rigirìo, rodìo, rosicchÃo, pigÃo, friggÃo, brusÃo, sbatacchÃo, fulminÃo, almanacchÃo, battÃo (battÃo di mani), delle quali si comprende alla prima il significato anche da chi non le abbia mai udite nè lette. Così intesi mille volte accennare, per esempio, quelle pieghe graziose che fanno per grassezza il collo e le gambe dei bambini; ma mai, posso dir mai in vita mia, con la parola più propria, che è riseghinetta, o riségolo. [181] Occorre spessissimo di dir le cose seguenti: la fanghiglia, che rimane nelle strade dopo la pioggia; una quantità di roba vegetale, guasta o non adoperabile, che fa impaccio e lordura; un laidume invecchiato sulla persona o sur un muro; una macchia di sudiciume vistosa; un'operazione lunga e noiosa da non cavarne costrutto nessuno; una stanzuccia misera e stretta; un segreto intrigo amoroso; un aiuto o guadagno o risorsa inaspettata; un soffio di vento che vien da una fessura o apertura; un minuzzolo di che che sia, in senso spregevole; l'irritamento che fanno alla gola certe vivande fritte nell'olio o nel burro non più fresco; la bella mostra che fanno di sè cose o persone, o il crescere, cuocendo, di certe pietanze, che riescono più abbondanti che non paressero; e inquietarsi, arrabbiarsi a trattar con qualcuno o a far qualche cosa. Ebbene, io non sento mai, o quasi mai dir queste cose con le parole usatissime in Toscana e dagli scrittori: belletta, pattume o pacciame, loia, struggibuco, sgabuzzino, ripesco, rincalzo, spiffero, trìtolo, rancico, compariscenza, appariscenza, compà rita, assaettamento. Così non mi ricordo d'aver mai inteso da un mio corregionale i verbi anfanare (andar qua e là senza saper dove), frucchiare (metter le mani, per smania di darsi faccenda, in più e diverse cose), frizzare (vuol far lo spiritoso, ma non frizza), frullare (mi sentii frullare un sasso accanto all'orecchio), rigirare (rigirarsela bene), raccenciarsi, rinquattrinarsi, spappolare (di cosa morbida che, toccandola, si disfà fra le dita); nè i modi: aver entratura con uno, trovar l'inchiodatura (trovar modo o argomento certo di far che che sia), avere il restÃo, [182] avere il suo ripieno (in una cosa, vale a dire il fatto suo), averla graziata, far monte, farla bassa, baciar basso, lavorar di fine, gettarsi in grembo a uno, levarla del pari, fare una cosa a saetta, dare un'indossata a un abito, stare a uscio e bottega; e potrei seguitare per decine di pagine.
Non è a dire che queste e altre parole e maniere siano sconosciute: molti le sapranno o le sanno; ma non le usano parlando perchè non le hanno alla mano, perchè esse non fanno parte del loro vocabolario orale, di quella provvisione di lingua che si porta con sè, e che si spende giornalmente, nella conversazione ordinaria; e però, quanto all'uso, è come se non le sapessero.
Dunque, se non ti vuoi ridurre a parlar la lingua povera che generalmente si parla, bada bene, leggendo, a tutti quei modi che intorno a te non senti mai dire, e cerca quali sono i modi che s'usano di solito in luogo di quelli, e raffronta gli uni con gli altri; e per stamparti nella mente quelli insoliti, e perchè non vadano dentro gli armadi chiusi, ma restino sugli scaffali aperti della memoria, dove ti s'offrano alla vista e alla mano a ogni occorrenza, lega ciascun d'essi a un tuo pensiero, immaginando un fatto, un luogo, un'occasione, in cui tu lo possa usare, e anche una persona nota a cui tu lo abbia a dire, e anche l'accento e il gesto con cui lo diresti. Se non farai questo, sfuggiranno di mente anche a te come agli altri, e ti troverai, parlando la lingua, nella condizione di quei moltissimi sfortunati ai quali, nelle discussioni e nell'opera, l'arguzia vittoriosa, l'argomento convincente, lo spediente utile si presentano sempre troppo tardi, quando il momento di servirsene è passato.
[183]
LA LINGUA APPROSSIMATIVA.
Perchè non possediamo che uno scarso materiale di lingua, noi parliamo una lingua che si potrebbe chiamare approssimativa, con la quale non esprimiamo quasi mai esattamente, ma soltanto press'a poco, il nostro pensiero; e perchè dell'improprietà del nostro linguaggio non abbiamo coscienza, una gran parte dei modi, che ci sono abituali, ci paiono i più propri a dire quello che pensiamo; e solo quando vengono a nostra cognizione quelli che sarebbero propri veramente, riconosciamo che quegli altri non dicevano per l'appunto le cose che volevamo dire. Non soltanto; ma ricominciamo assai spesso, imparando i nuovi modi, che non erano nella nostra mente certe gradazioni d'idee, sfumature di sentimento e particolarità di cose, che essi esprimono; e son essi che ce ne dà nno il concetto; ciò che disse benissimo un grande scrittore, affermando che certe idee non ci vengono neppure in mente perchè non abbiamo le parole con le quali potrebbero venire.
[184]
Ti cito una serie d'esempi che ti persuaderanno.
Confondere. - Noi non usiamo questa parola nel significato che ha negli esempi seguenti: - Non si confonda con la politica. - Non si confonda con quel figuro. - Non si confonda a cercare codesto foglio. - Ebbene, nessuna delle espressioni che noi usiamo in quei casi in vece di confondere dice per l'appunto la stessa cosa, perchè affannarsi, tormentarsi, montarsi il capo dicon troppo, e darsi pensiero, perdere il tempo, occuparsi, impicciarsi non dicono abbastanza.
Infognare. - Infognarsi in un affare, in una impresa. Con che altra parola potresti dire così efficacemente che si tratta d'un affare, oltre che rischioso, disonorevole?
Ribruscolare. - Sono andati a ribruscolare tutte le scapataggini della sua gioventù. - Noi sogliamo dire rintracciare, rivangare. Ma ribruscolare, che significa propriamente raccogliere i minuti avanzi e bruscoli d'ogni cosa, come esprime meglio la minuziosità , quasi la malignità diligente e paziente con la quale i nemici d'una persona cercano il pelo nell'ovo per iscreditarla!
Rifrustare. - È un fannullone vizioso che rifrusta tutte le bettole. - Rifrustare, che, traslato, significa ricercare in ogni parte, in ogni angolo più segreto, esprime assai meglio del frequentare o bazzicare, che noi useremmo, l'idea del vizio infistolito e insaziabile.
Riportare. - Quel ragazzo mi riporta tutto suo padre nell'andare, nel gestire, nel parlare. - Riportare, in questo significato, dice più di rassomigliare e di ricordare, come noi diremmo; [185] significa: è tal quale, e presenta molto più vivamente l'immagine.
Rimaner male, nella sua indeterminatezza, esprime meglio d'ogni altro modo generalmente usato lo stato d'animo mal definibile di chi per un detto o un atto altrui rimane scontento, corbellato, disingannato, fra risentito e confuso.
Star su. - Credi ch'io stia sui cinquanta centesimi? Piglia una lira e vattene. - Noi diremmo che io badi o ch'io m'impunti; ma in badare non è espresso abbastanza il concetto dell'interesse; impuntarsi è troppo forte; star su esprime un'idea di mezzo tra il semplice concetto dell'interesse e quello dell'avarizia che lesina.
Stillare. - L'ha stillata bella! - Nove su dieci noi diremmo l'ha pensata o trovata. Ma stillare significa chiaramente la ricerca sottile e l'accortezza della trovata, che pensare e trovare non esprimono.
Stridere. - Bisogna striderci, per dire che di una tal cosa non ci possiamo esimere, benchè ci dispiaccia. Noi diremmo invece adattarsi, rassegnarsi o simili, che non dicono così bene il rincrescimento o il dispetto con cui c'induciamo a fare o a sopportare quella data cosa.
Storcere. - Non mi storcere le parole. - Non c'è altro modo, di quelli che noi useremmo, che esprima con un traslato così efficace l'interpretare malignamente le parole altrui in significato diverso dal vero. Pigliare in cattivo senso, per esempio, non dice, come la parola storcere, il proposito dell'interpretazione cattiva, e anche sostituendo voltare a pigliare si esprimerebbe con minore evidenza lo sforzo e il mal animo.
Stare in tentenna. - Tu diresti tentennare [186] senz'altro; ma tentennare dice una cosa che tentenni, barcolli o stia male in piedi momentaneamente; stare in tentenna dice la permanenza della cosa in quello stato. E così stare in tremolo.
Pigliare a frullo. - Vedi se l'idea di fermare una persona dove che sia e appena cà piti, o quella di cogliere rapidamente parole, idee, senza che altri ci pensi e per nostro giovamento, può essere espressa in altri modi con maggior proprietà ed evidenza. - Venirti a cercare a casa è tempo per...
[Pagina successiva]