[Pagina precedente]... volte! - Ah quelle belle volte, che perla! - Grazie! Ho mangiato il mio bisogno. Un signore che mangia il suo bisogno! - No, l'assicella va messa per così. Per così parli la lingua, Ostrogoto? - Dove sta il tale? Deve star per qui (qui vicino). Dio di misericordia! - Svelto come sei, fai un momento a arrivare a casa. - O come si fa a fare un momento, citrullo? - Dopo la Norma, andrà su l'Ernani. L'Ernani che va su! A quale altezza? - Se non c'è appunto sei miglia, siamo lì. Dove lì? - Ah, povera Italia! Dimmi ancora: c'è qualche cosa che offenda la tua purità in tutto quello che ho detto?
L. - Nulla, fratello. Son tutte forme della lingua parlata, usatissime da chi più mi conosce e mi rispetta.
D. - Deo gratias. Se tu sentissi, in certe case, dove si parla l'italiano per istituto, che rabbuffi toccano a dei poveri ragazzi quando si lasciano scappare di bocca spasseggiare, slargare, sgraffignare, disgruppare, ciaramellare, tambussare, ciucciare, impappinarsi! - Questo è italiano di Porta Palazzo: bene spesi i denari per mandarti a scuola! - A un ragazzo che diceva piangendo: - M'hanno dato! (delle busse, era sottinteso), udii rispondere: - E te lo meriti, se parli italiano in codesta maniera. - E: - berrai quando parlerai meglio - a un altro, che chiedeva dell'acqua dicendo che aveva una sete del diavolo. E non parlo delle correzioni che fanno molti insegnanti ai componimenti scolareschi; nei quali, [170] oltre agli errori inevitabili nella prima età , bollano come strafalcioni, per la sola ragione che sono dialettali, una quantità di modi correttissimi, che i piccoli scolari, poveretti, non sono in grado di giustificare. Se ne vuoi sentire....
L. - Ne son curiosa.
D. - E io ti contento. Ho appunto sott'occhio i componimenti d'una quarta classe elementare, corretti da una maestrina, della quale non si può dire che non conosca la lingua, chè anzi scrive benino. Ebbene, ci trovo segnati come piemontesismi, con la matita rossa, una decina almeno di modi, che tu certamente non ripudii. - Torino fa 350 000 abitanti. C'è un frego rosso sul fa. - La famiglia costumava festeggiare il natalizio del babbo. Condannato costumava. - La mamma si tapinava tutto il giorno. Bollato il tapinava. - Doman da sera. Tre punti d'esclamazione. - Un dopo desinare verrò da te. Un frego rosso all'un dopo desinare e al verrò, chè s'ha da dire andrò, si capisce. Passò da Torino, invece di per, sottolineato. - Disse che non ci sarei riuscito; ma io l'ho fatto bugiardo. Un punto interrogativo rosso accanto a questo modo. - Son nato del 1891. Riprovato il del. Figurava di non volere; ma non aspettava altro. Sostituito fingeva. - E tu non vieni? fa la sorella. Crociato il fa. - Una cosa fatta come va. Un tratto rosso anche a questo. E se ne vuoi dell'altre, che ho pescate altrove, ce n'ho un cestone....
L. - Codeste mi bastano, chè ne so molte anch'io. Quanto rosso sciupato, dio buono! E questo è risibile, che i più di coloro che si dà nno tanta cura per iscansar codesti pretesi errori [171] dialettali, si lasciano sfuggire a ogni tratto dialettismi veri e bruttissimi, per isbadataggine, o perchè non li conoscon per tali. Ed è naturale: non si può badare insieme a ogni cosa: mentre si guardan dagli uni, inciampano negli altri.
D. - E così dagli altri italiani mi fanno dar del barbaro coi dialettismi veri, e mi trattano di barbaro essi medesimi dando la caccia ai dialettismi falsi. E mi son ristretto a citare vocaboli. Lascio da parte un gran numero di forme sintattiche, di legature, di giri di frase svelti e efficaci, che sono cosa mia e tua ad un tempo, di cui potrei cavare esempi dai tuoi più grandi e puri scrittori, e da cui si guardano parlando e scrivendo italiano, come da azioni disoneste, per usare invece forme scontorte, giunture che stridono, costrutti forzati e pesanti; che sono nel concetto loro i soli corretti. E m'hanno l'aria di gente che fabbrichi dei ponti per passare un fil d'acqua...
L. - Ed è vero anche questo, fratello. E hanno ragione al par di te i fratelli tuoi, che un fanno le stesse lagnanze. Ma il tempo vi renderà giustizia, non dubitare. Via via ch'io sarò conosciuta e parlata da un numero sempre maggiore d'italiani, scoprendo questi da sè quante voci e forme son comuni a me e ai loro vernacoli, e gli scrittori mettendole in mostra e in commercio, sempre più si farà manifesta la vanità di gran parte della fatica che ora si dura a scansare errori immaginari, e una sempre più larga parte dell'esser tuo si confonderà col mio nelle lettere, e ti sarà reso l'onore che meriti, e saranno lamentati gli oltraggi che ora ti si recano, e si [172] trarrà da te forza, vita, colore, varietà , comicità , naturalezza, per parlare e per scrivere italianamente. Mi credi?
D. - M'hai racconsolato. Ti ringrazio.... e ti riverisco, Signora.
L. - Chiamami sorella.
D. - Sorella ti posso chiamare nel corso dei nostri colloqui; ma non presentandomi a te, nè accomiatandomi. Nell'atto di salutarti, il mio amor fraterno è sovrappreso da un senso di riverenza. Dietro di te, vedo Dante.
[173]
LA LINGUA CHE NON SI SA.
Ne abbiamo già detto qualche cosa; ma di passata, ed è bene riparlarne.
Intendo dire principalmente di quel gran numero di nomi di cose, che noi non sappiamo e che non ci curiamo di sapere, perchè di quelle date cose non abbiamo mai occasione o bisogno di parlare se non nel dialetto; ma che deve imparare chi studia davvero la lingua, perchè questa non si saprà mai che malamente se non se ne studia più di quanto occorre a parlarla alla meglio fra di noi, dove non se ne parla che mezza. Noi la dobbiamo studiare, non in relazione coi nostri bisogni immediati e abituali, ma come se fossimo certi di dover quando che sia andar a vivere in una regione d'Italia dove neanche una parola del nostro dialetto sia intesa, e dove, per conseguenza, ci sia necessario parlare sempre e d'ogni cosa in lingua italiana. Ora le cose delle quali ignoriamo il nome italiano sono innumerevoli, e noi non c'illudiamo che sian poche se non perchè, parlando la lingua, ci siamo assuefatti per modo a scansare di [174] nominarle, che quasi non ci accorgiamo più del nostro gioco. E questa illusione è anche maggiore nei giovinetti che, vivendo in un giro più ristretto d'idee e di faccende, hanno di solito meno cose da dire che gli uomini, e con minori particolari, e con minor necessità d'essere esatti. Ma se potessero i giovanetti immaginare in quanti impicci si troverebbero parlando la lingua, quando fossero trasportati di sbalzo in un'altra regione d'Italia, fuor del piccolo mondo della famiglia e della scuola in cui è circoscritta la loro vita, quanta parte di lingua s'accorgerebbero d'ignorare, assolutamente necessaria, e soprattutto quante cose si troverebbero costretti ogni momento a descrivere, invece di nominarle, con molto stento e non senza vergogna, se questo potessero immaginare, credo che non occorrerebbe loro altro eccitamento per indursi allo studio.
A questo proposito ebbi da ragazzo una lezione che mi riuscì utilissima.
Da qualche tempo studiavo la lingua, e mi illudevo che fosse un gran che quel poco patrimonio di parole e di frasi letterarie, che m'ero ammucchiato nel capo; e ne menavo gran vanto. Un giorno fui invitato a colazione da un mio vecchio zio, che stava in una villetta, sulla riva d'un torrente, a qualche miglio dalla piccola città piemontese, dov'era stabilita allora la mia famiglia. Era uno spirito mordace, benchè buono d'indole, dotto di storia, e conoscitore profondo della lingua, della quale s'occupava ancora con amore. Eravamo alle frutte, quando il discorso cadde su quest'argomento, ed io vantai i miei studi di lingua col tono d'un filologo, che [175] potesse parlare in cattedra della materia. Spiacque la mia sicumera al buon vecchio; il quale sorrise con aria maliziosa, e mi disse: - Vediamo dunque un poco, signor linguista, se la dottrina corrisponde al vanto. Vuol ella scommettere che senza uscire dal giro delle cose che abbiamo sotto gli occhi, di nove su dieci che glie ne accenno ella non sa il nome, e neppure delle operazioni usualissime che vi si riferiscono? - E cominciò la prova, che m'è rimasta bene impressa nella mente, perchè egli mi fece notar le parole con la matita.
- Eccoti il fiasco -, mi disse. - Sai come si dice gettar via dal fiasco pieno un poco di vino per purgarlo da qualche cosa di poco netto? No? Sboccare il fiasco. Sai come si chiama l'operazione di riempire un fiasco scemo? No? Rabboccarlo. E come si dice con una sola parola vuotare un mezzo fiasco? Neppure. Si dice ammezzarlo, un fiasco ammezzato. Hai detto che questo vino è un po' infortito, ed è vero: comincia a prendere il fuoco; ma sai come si dice del vino infortito che pizzica la lingua e il palato? La parola propria? No. Si dice che ha l'appinzo. Guarda questo bicchiere: vedi questo spazietto interposto nella sostanza del vetro? Sai come si chiama? Púlica. E la parte più sottile della lama di questo coltello, che è fermata nel manico? Códolo. E il dente della forchetta? Rebbio. E questo? Reggifiasco. E quest'altro? Reggiposate. E ciascuna di queste ciocchette di chicchi che formano il grappolo, sai che si chiama racìmolo? E fiócine la buccia dell'acino? E vinacciuolo il granello sodo che v'è dentro? E il nome di questa buccia interiore della [176] castagna? Peluria, andiamo. E questa parte della lattuga, composta delle foglie più piccole e più tenere, che fanno cesto, come la chiami? Grùmolo. E il reticino per scoter l'insalata? Nemmen questo. Scotitoio. O veda un po', signor linguista!
Riprese fiato e tirò innanzi. - Ora ti servo le frutte. Son certo che non sai che si dicono sfarinate le pere come queste, che non reggono al dente, come le patate, che sfarinano; nè che si dicono maculate quelle che portano segni delle mani; nè che si chiamano nocchi queste specie d'osserelli dei frutti, che è lo stesso nome, nocchio, della parte del fusto dell'albero indurita e gonfiata per la pullulazione dei rami. E guarda questo baco della pera che s'attorce: tu non sai che con parola propria si dice che s'assérpola. Rifacciamoci un po' indietro. Tu hai rotto la punta a un ovo a bere: sai che si chiama scocciare l'ovo? Hai preso la parte superiore del gelato: sai che si dice scolmare il gelato? E a proposito dei tordi che hai mangiati, sai che si dice dare un fermo ai tordi la prima cottura che si da loro perchè non vadano a male? Ora senti: come dici del pan fresco che fa questo rumore, quando si preme? Che scroscia, signorino. E di questa crostata sotto il dente? Che scrógiola, da non confondersi con sgrigiolare, che è il rumore delle scarpe nuove. E dell'olio che bolle? Che grilla o grilletta; e sfriggolare del rumore che fa il pesce o altra cosa, posta a soffriggere nella padella. E agitar così il liquido nella bottiglia sai che si dice sciaguattare? E uscire a gorgo l'uscir dall'acqua così, dalla bottiglia capovolta? E l'uscire in quest'altro modo: venir giù filo filo? To', e come si chiama questa pozza che ha fatto [177] l'acqua buttata in terra? Stroscia. E a questa radura del tovagliolo che nome dà i? Ragnatura. E questo, dove infilerai il tovagliolo? Girello, signor linguista. E potrei seguitare, se ti garbasse.
Io m'alzai da tavola, stizzito, e per nascondere la stizza, m'andai a affacciare alla finestra. Ma il vocabolarista implacabile mi si venne a mettere accanto, e riattaccò. - Ti voglio regalare un'appendice - mi disse. - Supponi di dover andare di qua, partendo dall'orto, fino a quel ceppo di case che è là di faccia. Tu parti da quell'angolo dove son piantati i baccelli, e non sai che si chiama baccellaio, ci scommetto. Suppongo che tu inciampi nel ceppo di quel noce tagliato a fior di terra, e non sai che si chiama ceppaia. Passi all'ombra di quel filare d'alberi, e non sapresti dire che son potati a capitozza. E non sai neppure che si chiama cavaticcio quel mucchio di terra intorno al quale devi girare, e palancola il tavolone su cui passerai quella gora, dove si raccolgono tutti gli scoli del campo, e che...
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