[Pagina precedente]... un cattivo uomo, serbava i suoi odi linguistici oltre il rogo. Udendo ch'era morto un tal letterato, una delle sue bestie nere: - Come uomo [158] - disse, - lo compiango; come scrittore.... è una pestilenza di meno.
È giusto dire che della purità assoluta che voleva dagli altri, egli dava l'esempio, non solo in quel pochissimo che scriveva, ma anche parlando; ciò che gli doveva costare una cura assidua e faticosissima, perchè, in somma, non viveva mica fuori del mondo presente, e le parole nuove, i francesismi correnti, gl'idiotismi d'uso universale e necessario dovevano penetrare e sonar di continuo anche nel cervello suo, come nei polmoni di tutti entrano i microbi dell'aria. Ma di lingua era dotto davvero, e non c'era caso che peccasse. Di certe cose, delle quali, senza peccare, non avrebbe potuto discorrere, non discorreva mai. Certe novità , a cui non si poteva dar altro che un nome nuovo e barbaro, non c'era verso di fargliele nominare. Altre le nominava con un vocabolo antico, o di conio proprio, risolutamente, non dandosi alcun pensiero di non essere capito, o d'esser franteso, o di far ridere gli uditori; il che seguiva sovente. Chiamava, per esempio, una dimostrazione popolare: una raunata di popolo; guardie del fuoco, i pompieri; traino, il treno della strada ferrata (partirò col traino diretto, diceva): un banchetto, non di trecento coperti, ma di trecento tovaglioli; negava la medesimezza della così detta casa di Dante in Firenze. E non diceva mai semplicemente il re, poichè era monarchico umilissimo, ma neanche Sua Maestà , che condannava come modo improprio: diceva la maestà del re: la maestà del re arriverà domani. Ma i due più belli esempi della sua audacia di purista, diventati famosi a Firenze, sono [159] le voci antiche con le quali s'ostinava a designare due imposte, ch'egli chiamava gravezze: l'imposta progressiva e quella della ricchezza mobile, già esistenti ai tempi della Repubblica: la decima scalata e l'arbitrio. E tutte queste parole, e le altre, pronunziava con aria di sfida fra i "neologizzanti" quasi gettandogliele in faccia (scrivo così perchè è morto) e dicendogli con gli occhi: - Beccatevi questo, e fatene vostro pro, pezzi d'ignoranti.
Variatissimo e comicissimo era il suo vocabolario di pedante vituperatore di barbari; nell'uso del quale egli graduava il vituperio con rigorosa giustezza. Da modo non bello, brutta voce, vociaccia, robaccia, veniva su su a mostriciattolo, mostruoso vocabolo, voce appestata, abbominevole voce, parola infame. Così d'un francesismo tollerabile si contentava di dire: sente di francese, e via via: e' pute di francioso (il francioso aggravava) o di gallico (che era più grave di francioso); francesismo vile, fetentissimo, sgangherata voce gallica, scempiata metafora transalpina. E in diversi modi egualmente fieri e lepidi ammoniva i giovani a rifuggire da quei delitti: - Al fuoco questa parolaccia! - Al gasse! - Alla cassetta della spazzatura! - Deh, non lo dire! - Via quest'orrore! - La lasci agli acciabattoni! - E lascio altre sue maniere usuali: - Goffe eleganze romanzieresche, sconce sgrammaticature segretariesche, stomachevoli parole muschiate, sguaiate leziosaggini, turpi granciporri: n'aveva una collezione infinita.
Ma non era mai così bello a vedere e a sentire come quando scorreva un libro nuovo e [160] sospetto, con quel viso sanguigno e minaccioso, con quei baffi irti, che s'appuntavano contro la pagina come penne d'istrice, con quelle unghie adunche, piantate sui margini, come pronte a graffiare. Egli segnalava il francesismo con una contrazione del viso come se vedesse correre fra le righe un insetto schifoso. La manifestazione più tenue del suo sdegno era un pugno sul tavolino. Quando una parola o una frase lo urtava più forte, prorompeva in invettive contro il fantasma dell'autore: - Ah, italiano rinnegato! - Camerlingo degli spropositi! - Sgrammaticato malfattore codardo! - E l'ultima espressione della sua collera era un riso ironico forzato, che gli scopriva i denti canini, accompagnato da uno scotimento di spalle, con cui fingeva un'ilarità smodata. Ma dopo questo sforzo, sbatteva il libro nel muro e andava fuor della grazia di Dio. - A questo punto siamo arrivati! Ma è un'aberrazione, una demenza universale. L'Italia va in isfacelo. Quando non c'è più lingua non c'è più nulla. È finita. Oh bastarda razza di traditori!
Povero professor Pataracchi! Conservarmi la sua benevolenza costò a me qualche fatica; ma deve aver faticato più lui a non levarmela. Chi sa quante volte fu in procinto di dirmi come Virgilio all'Argenti: - Via costà con gli altri cani! - Poichè, in somma, gli dovevo parere un ipocrita, io che per tenermi nelle sue buone grazie gli davo ragione a parole, ma seguitavo a scrivere come un Ostrogoto, non potendomi ribellare alla terminologia dei regolamenti, poichè scrivevo di cose militari. - Ma è proprio proprio costretto - mi domandava [161] qualche volta - a servirsi di codesto orribile gergo caporalesco? - Io rispondevo di sì, e mi giustificavo umilmente. Ed egli mi diceva: - La compiango! - E forse fu la compassione che mi mantenne la sua amicizia.
Il giorno prima di lasciar Firenze per sempre, m'andai ad accomiatare da lui. Fu più affettuoso che non m'aspettassi. Forse lo impietosiva il pensiero ch'io m'andavo a stabilire a Torino, poichè a lui, per rispetto alla lingua, Torino doveva parere un covo brigantesco, dove io non potessi far altro che una miseranda fine. M'accompagnò per un tratto di via del Cocomero. All'angolo di via degli Alfani, prima di lasciarmi, mi disse qualche parola benevola, raccomandandomi la lingua. Forse gli avrei lasciato un buon ricordo di me, se non avessi più aperto bocca; ma all'ultimo momento guastai la frittata.
- Se per combinazione - gli dissi - venisse una volta a Torino, abbia la bontà d'avvertirmene. Mi metterò ai suoi ordini. Sarò felice di rivederla e di servirla.
- Grazie, - rispose stringendomi la mano. - Buon viaggio, e a rivederla.
E mi lasciò.
Ma fatti pochi passi, mi richiamò con un cenno, e mi disse: - Senta. Combinazione, per caso o casualità , mi perdoni, è orribile.
E se n'andò senza dir altro. Furon quelle le ultime parole ch'io intesi dalla sua bocca purissima.
Fulminò ancora i barbari per sette anni, e poi morì sulla breccia, ravvolto negli avanzi della sua bandiera.
[162 bianca]
[163]
PARTE SECONDA.
[164 bianca]
[165]
Nel corso degli studi che farai sulla lingua, con la penna alla mano, nei vocabolari e negli scrittori, se vorrai impadronirti durevolmente delle cognizioni che verrai acquistando e ricavarne il maggior vantaggio possibile nel parlare e nello scrivere, sarà bene che tu le ordini nella tua memoria, raggruppandole intorno a certi concetti, che dovrai tener sempre presenti. A ciascuno di tali concetti, o per dir meglio, divisioni della materia, dedicherò un breve capitolo. Sarà una serie di consigli e d'avvertenze intorno alle relazioni della lingua coi dialetti, alla lingua che non si sa, alla lingua che si sa, ma non s'usa, alla lingua impropria, alla lingua abbreviativa, ai sinonimi, alle definizioni, ai modi famigliari, al linguaggio faceto, al modo di variare il proprio materiale linguistico. Ragioneremo poi dei francesismi e delle parole nuove, degli spropositi più frequenti e dei luoghi comuni più usuali del linguaggio corrente, e delle licenze lecite e di quelle che offendono i diritti della Grammatica; e in fine faremo insieme una corsa a traverso la letteratura italiana per scegliere gli scrittori che tu dovrai leggere e studiare di preferenza. Non ti spaventare della via lunga: la percorreremo alla lesta, scherzando spesso da buoni amici, e ricreandoci ogni tanto nella compagnia d'originali piacevoli. Adelante, Pedrito.
[166]
LE LAGNANZE D'UN DIALETTO.
DIALOGO FRA IL DIALETTO PIEMONTESE E LA LINGUA.
(Il dialetto è il piemontese; ma il dialogo può star benissimo con qualunque altro dialetto d'Italia, sostituendovi altre voci e locuzioni a quelle che son citate ad esempio).
LA LINGUA. - Buon giorno, fratello. Tu hai la cera rannuvolata.
IL DIALETTO. - Me la vedo come in uno specchio, Signora, e mi duole di presentarmi a Voi in quest'aspetto.
L. - Perchè mi chiami Signora? Altre volte ti dissi che mi piace esser chiamata sorella. La fortuna e la gloria non m'hanno fatto montare in superbia. Non siamo, tu ed io, rami dello stesso tronco? figliuoli della stessa madre? legati ancora e per sempre da mille somiglianze e proprietà comuni, dalle quali lo straniero riconosce in noi, a primo aspetto, il comun sangue latino? Che cosa t'affanna, fratello?
D. - Ti ringrazio, sorella illustre e venerata. [167] (Scattando) Ma è proprio questo pensiero che mi fa stizzire: d'aver che fare con una razza d'ingrati, i quali, disconoscendo i vincoli che mi legano a te, credono di farti onore disprezzandomi, e, parlando e scrivendo italiano, rifiutano un monte di parole e di frasi mie come se fossero barbare per il solo fatto d'esser mie, e vanno predicando ai ragazzi che, per non offenderti, debbono rifuggir da me come dalla peste bubbonica.
L. - Lo so.
D. - E che ne dici?
L. - Confòrtati. Mi fanno sovente la stessa lagnanza i tuoi fratelli. E scrisse pure un grande maestro che ogni italiano, per imparar la lingua, la dovrebbe studiare tenendo tanto d'occhi aperti sul proprio dialetto; con che volle dire che v'è in ciascun dialetto una grande quantità di modi e costrutti comuni alla lingua; conoscendo i quali, ed usandoli, riuscirebbero tutti ad esprimersi in italiano con assai più facilità ed efficacia che ora non facciano, poichè a quelle forme che si presentano loro spontanee, ed essi rifiutano come puramente vernacole, ne sostituiscono altre quasi sempre men naturali, appunto perchè cercate, e meno proprie, perchè meno naturali.
D. - Ecco la gran verità , sii benedetta! Mi disprezzano per onorarti, e offendono te, disprezzandomi; mi fuggono come un nemico, quando si potrebbero giovare di me come d'un maestro.
L. - Dici il vero. Ma non pensar che ti disprezzino. Ogni giorno sento dire da italiani di questa o di quella provincia che il loro dialetto è più vivace, più vario, più espressivo della lingua, e che col proprio dialetto soltanto riesce loro [168] di dire tutto quello che vogliono, d'esprimere tutte le particolarità d'ogni loro pensiero, tutte le sfumature d'ogni sentimento. Vedi dunque! Ma è singolare. E non sospettano che la grande difficoltà ch'essi trovano a dire in italiano tutto quello che vogliono, deriva principalmente dal credere non italiane una buona parte di quelle forme con le quali appunto possono dir tutto nel vernacolo.
D. - Tu mi riconforti, sorella. Ma se sapessi quanti affronti mi tocca d'ingollare! Ne sento da ogni parte e d'ogni specie. È dialetto; dunque moneta falsa: è la massima. Sento molti ridere quando uno dice, parlando italiano: - legger la vita, mangiar la foglia, bruciare il pagliaccio, trovare una bella vigna, tirarsi da banda, battere il taccone, ridere sul mostaccio ad un tale, far filare uno, far pressa a un altro, tramutare un tavolino, battere una culattata in terra, andar lì lì per morire, tirare avanti la famiglia.... O dimmi tu: non sono modi italiani, di tua proprietà incontestabile, sorella mia?
L. - Li riconosco.
D. - O dunque! E ne potrei citare mille e passa. Giusto, eccone un altro, che guai a chi gli scappa. Bisogna sentire come si spassa certa gente colta alle spalle dei poveri ignoranti che s'ingegnano di parlare italiano, per certe parole e frasi italianissime, credute piemontesismi grossolani. Ho sentito una famiglia intera dare in una risata perchè alla domanda: - che tempo fa? - la serva rispose: - È nuvolo! - Diedero in un'altra risata, un'altra volta, a sentirle dire: - Com'è peso questo bimbo! - La stessa cosa, un giorno ch'ella disse: - La botte versa; [169] bisogna stopparla. - Ma aspetta, che te ne citi dell'altre più curiose, coi commenti relativi degli italianissimi. - Sono uscito senza niente in capo. - Bell'italiano! - Se ci sono stato? Quelle belle...
[Pagina successiva]