L'IDIOMA GENTILE, di Edmondo De Amicis - pagina 18
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E ho tralasciato voci imitative, interiezioni, esclamazioni, facezie, proverbi, quanto era necessario che tralasciassi, insomma, per ridurre in una ventina di pagine più di quattrocento colonne di stampa.
E queste quattrocento colonne non rappresentano che una lettera.
Vedi che vasta e succosa e dilettevole lettura è quella del Vocabolario, e immagina quanto avrai imparato quando su tutte le lettere dell'alfabeto avrai fatto il lavoro che abbiamo fatto insieme sopra una sola, ma con più attenzione, e smettendolo e ripigliandolo a intervalli, dopo ciascun dei quali ritornerai all'opera con maggior curiosità e con più vivo ardore e con la mente meglio esercitata a scegliere, a osservare e a imparare.
Sei persuaso? E dopo questo, se qualcuno ti dirà che a leggere il Vocabolario si muor di noia e si sciupa il tempo e il cervello, mandalo....
alla lettera P.
[149]
LA MEMORIA LATENTE.
Ora ti debbo dire alcune cose per preservarti da un senso di scoraggiamento, dal quale è probabile che tu sia preso a quando a quando, nel primo corso dei tuoi studi.
T'accadrà qualche volta di passare in rassegna mentalmente il materiale di lingua che crederai d'aver accumulato in vari mesi di letture e di appunti, e troverai nella tua memoria ben poca cosa, ti parrà che una gran parte di quel materiale ti sia sfuggito come un liquido da un vaso forato, e che un'altra parte ti sfugga nell'atto che lo cerchi, e rimarrai scoraggiato da quel disinganno, e quasi avvilito.
Ebbene, sarai in errore.
Una gran parte del materiale della lingua si va a riporre da sè in certi scompartimenti secreti della memoria, dove noi lo portiamo senz'esserne consapevoli, e donde non esce se non quando è chiamato fuori da certe idee, con le quali è legato da fili sottilissimi, invisibili, per così dire, al nostro pensiero, e quindi non afferrabili dalla nostra volontà.
Ma, nel parlare e [150] nello scrivere, quando vorrai esprimere certi pensieri e nella ricerca viva dell'espressione le tue facoltà intellettuali si ecciteranno, tu vedrai che ti verranno sulle labbra e alla penna una quantità di parole, di frasi e di costrutti, che non sapevi di possedere, e che ti parrà di non aver cercati.
È una cosa che segue a tutti quelli che studiano la lingua, e che è per loro una sorpresa gradevole, come di trovare nelle tasche o nei cassetti carte preziose o danari dimenticati.
Non ti sgomentare, dunque, se dai ripostigli della tua memoria non esce che pochissima lingua, quando a questa tu gridi: - Fuori! - non per bisogno, ma per vederla soltanto, per metterla in mostra a te stesso.
Quando n'avrai bisogno davvero, saranno le tue idee urgenti e imperiose che andranno a picchiare all'uscio delle mille celle in cui le parole stanno nascoste, ciascuna alla cella di quella che le conviene e le appartiene, e te le porteranno di volo sulla carta e alla bocca.
E ti porteranno vocaboli e frasi che da lungo tempo non s'eran più fatte vive nella tua mente, e che ti parrà d'imparare in quel punto, e della forma felice in cui ti verranno espressi certi pensieri, rimarrai maravigliato come di roba non tua, che ti fosse suggerita da un altro, o come se scoprissi in te un altro te stesso, che parli e scriva una lingua più ricca, più propria, più efficace di quella che tu possiedi.
Sii certo di questo.
Molto spesso, ritrovando nel dizionario o nei tuoi appunti certi modi segnati da te un pezzo addietro, esclamerai: - Guarda! Questo m'era scappato di mente.
- No, non t'era scappato; vi stava rimbucato, e dormiva, aspettando che venisse a risvegliarlo [151] un'altra parola o frase di senso o di suono affine, una voce sfuggevole dell'animo, un'idea sua parente od amica, alla quale egli si sarebbe manifestato ed offerto.
Prosegui dunque con animo a leggere, a notare, a raccogliere, poichè tutto il materiale di lingua che ti metti in capo vi si ordina e vi si collega in mille modi, come in una officina oscura, a poco a poco, con un lavorìo spontaneo, del quale tu non hai coscienza.
E non ne sarà affatto perduta neppur quella parte che non verrà fuori al bisogno, perchè di molte voci e locuzioni effettivamente dimenticate, tu sentirai nella tua memoria il vuoto che v'avranno lasciato, e di là le spierai e moverai per rintracciarle e prima o poi le ripiglierai al laccio per sempre.
Prosegui nello studio, con viva fede nelle forze latenti e nel lavoro misterioso e maraviglioso della memoria, che ti sarà per sè medesimo un argomento di studio e una fonte di diletto profondo.
[152]
IL PERICOLO.
Ancora un'avvertenza, prima di rimetterci in cammino.
Bada che nello studio della lingua, in special modo per chi v'ha inclinazione naturale, c'è un pericolo: il pericolo d'un così brutto malanno, che se io avessi anche solo un leggerissimo dubbio di potertelo tirare addosso con le mie esortazioni e i miei consigli, vorrei piuttosto che tu buttassi il mio libro sul fuoco come un libro scellerato.
Sì, se nel culto della letteratura tu dovessi fare allo studio della lingua una troppo gran parte, riporre in essa il meglio dei tuoi sforzi e dei tuoi godimenti intellettuali, ridurti a considerarla, in somma, non come un mezzo, ma come un fine, e diventare uno di quei perdigiorni delle lettere che badano soltanto a baloccarsi con le parole e con le frasi, come se queste non fossero forme e suoni vanissimi quando non servono a dir qualche cosa che piaccia o che giovi, io ti direi che è meglio per te rinunziare a questo studio, e continuare a scrivere e a parlar male per tutta la vita.
E sappi [153] che il malanno c'entra dentro lentamente, senza che ce n'avvediamo.
La nostra innata pigrizia intellettuale c'induce a poco a poco a tenere in conto d'un nobile esercizio dell'ingegno il facile lavoro di accumular vocaboli e locuzioni, e a credere che sia arte e scienza ciò che con l'arte ha che fare come la preparazione dei colori con la pittura, e con l'alta matematica lo studio della tavola pitagorica.
Non occupandoci più d'altro che di lingua, finiamo con non cercare e non raccoglier più altro nelle opere dell'ingegno altrui; ci avvezziamo a non veder più bellezza che nella bellezza della parola, a non badar più che alla forma anche nelle pagine più splendide di pensiero e più calde d'affetto, a non più pensare noi medesimi, scrivendo, se non quanto è necessario ad aver qualche cosa da dorare e da infronzolare con gli orpelli e coi nastrini del nostro guardaroba linguistico.
Ed ecco lo studioso della lingua che, naturalmente, a grado a grado, diventa pedante e intollerante, come il bigotto diventa superstizioso e misantropo; che non ha più altro nel cranio che una grammatica e nel petto che un vocabolario, e nelle cui mani la lingua perde lume, calore e vita, per ridursi una materia inerte e fredda, da mettere in mostra a diletto di chi ha gli occhi confitti in una fronte vuota; ecco il linguaio degenerato, uggioso e ridicolo, che sempre e da per tutto dove imperò, isterilì la letteratura, uccise l'arte e prostituì l'idolo che stupidamente adorava.
Ma tu non ti lascerai andare per quella china; tu terrai sempre per fermo che ogni studio diretto a parlare e a scriver bene sarà fatica, peggio [154] che sprecata, rivolta a tuo danno, se ti distoglierà dall'esercitar l'ingegno a un più alto fine; tu studierai la lingua per diventarne padrone, non per fartene servo, per servirtene, non per adorarla; tu ne farai forza e bellezza, ma non la sostanza stessa del tuo pensiero, che si dissolverebbe nel vuoto, non l'alimento unico del tuo intelletto, per cui si muterebbe in veleno.
No, tu non seguirai la via del professor Pataracchi.
[155]
IL PROFESSOR PATARACCHI.
Fu forse l'ultimo dei veri, grandi, formidabili pedanti italiani; per i quali io non capisco come non sentano ammirazione anche i loro avversari e le loro vittime, perchè è sempre ammirabile chi combatte ferocemente, senza tregua, fino alla morte, per una causa ch'egli crede santa; anche se sia una causa sballata.
E per tutta la vita il professor Pataracchi, paladino di Nostra Santa Lingua Immacolata, ritto sulla rocca sacra del Purismo, già rotta da ogni parte, eroicamente ostinato ed intrepido, menò la spada sui barbari assalitori, e ne fece memorando sterminio.
Il suo Credo era questo.
Lingua e nazione sono una cosa sola: dunque chi offende la lingua tradisce la patria; dunque chi parla e scrive male, chi contamina l'idioma nativo di francesismi e d'idiotismi, ha da essere odiato e vituperato come il più nefando dei malfattori.
E poichè in questa fede era sincero, la professava, con logica rigorosa e costante, anche nella pratica della vita, non curandosi nè d'inimicizie nè di danni che glie ne potessero incogliere.
E siccome il suo [156] purismo arrivava a tal segno, da respingere ogni frase o parola che non avesse il suggello della classicità più genuina, fino a non ammettere in alcun modo nessun vocabolo nuovo, per quanto fosse giustificato dal bisogno o dall'uso comune, si capisce com'egli dovesse odiar mezzo mondo e si facesse prendere in tasca da quasi tutti quelli che gli s'avvicinavano.
Dico quasi tutti, non tutti, perchè a me e a pochi altri, che sapevamo quanto un'offesa alla lingua lo facesse veramente soffrire, egli destava, insieme con l'ammirazione del suo foco sacro, un sentimento di schietta pietà.
Perchè dirgli una parola o una frase che gli pareva illecita era come forargli le carni con un punteruolo d'acciaio: avrebbe gridato in mezzo alla strada, se non avesse temuto di far gente.
A chi gli rivolgeva una domanda in forma scorretta, non rispondeva, o tardava un pezzo a rispondere, per fargli capire che l'aveva offeso e per lasciargli il tempo di ritrattar l'ingiuria.
A certi cattivi scrittori e parlatori, quand'io lo conobbi, aveva levato il saluto da anni.
Domanderete perchè non lo levasse a me pure.
Ma coi giovani che lo frequentavano con buona disposizione d'alunni, e fingevano di consentir con lui e di voler battere la sua via, usava qualche indulgenza.
Non faceva però complimenti nemmen con loro quando gli toccava d'udire o di leggere in qualche loro scritto una locuzione o un costrutto di lega impura.
Diceva fuor dei denti: - Queste son bricconate, mi scusi.
- Questo non è uno scrivere da galantuomo.
- O dove ha pescato questa porcheria? - Per lui non c'era differenza fra il commettere un atto di lesa maestà del suo [157] dizionario e rubare un orologio o fare una cambiale falsa.
Avrebbe voluto che nel Codice penale ci fosse un articolo per questo genere di reati.
E non faceva grazia a nessuno.
Nessuno scrittore lo contentava perchè il buon effetto di qualunque pagina più bella e eloquente, se pur lo sentiva ancora, gli era distrutto ipso facto da una sola parola illegittima ch'egli v'inciampasse.
Anche quei pochi puristi della sua razza, che rimanevano in Italia, e ch'erano generalmente canzonati per la loro feroce pedanteria, anche quelli li giudicava di manica troppo larga, troppo cedevoli, vilmente propensi a venire a patti con la barbarie invadente.
Ed è a notarsi che furioso in particolar modo era contro i suoi concittadini toscani, e contro i fiorentini più che mai, ch'egli accusava d'essere i primi e più infesti corruttori della loro lingua.
Già erano imbarbariti i suoi coetanei; ma erano assai peggio i loro figliuoli.
Diceva che "veniva su una generazione toscana senza freno nè legge, la quale preparava al suo paese un triste avvenire" perchè nel suo concetto un parlatore o scrittore "maculato" non poteva che seminar dei guai in qualunque campo o forma d'azione operasse.
Ricordo d'avergli udito dire, all'annunzio di non so che nuovo Ministero: - Ministro dei lavori pubblici quello sgrammaticante? Ne vedremo delle belle! - Non avevano altra sorgente anche i suoi odi politici, perchè di politica non si curava, e non riconosceva altra quistione nazionale o sociale che quella della lingua.
E sebbene, in fondo, fosse tutt'altro che un cattivo uomo, serbava i suoi odi linguistici oltre il rogo.
Udendo ch'era morto un tal letterato, una delle sue bestie nere: - Come uomo [158] - disse, - lo compiango; come scrittore....
è una pestilenza di meno.
È giusto dire che della purità assoluta che voleva dagli altri, egli dava l'esempio, non solo in quel pochissimo che scriveva, ma anche parlando; ciò che gli doveva costare una cura assidua e faticosissima, perchè, in somma, non viveva mica fuori del mondo presente, e le parole nuove, i francesismi correnti, gl'idiotismi d'uso universale e necessario dovevano penetrare e sonar di continuo anche nel cervello suo, come nei polmoni di tutti entrano i microbi dell'aria.
Ma di lingua era dotto davvero, e non c'era caso che peccasse.
Di certe cose, delle quali, senza peccare, non avrebbe potuto discorrere, non discorreva mai.
Certe novità, a cui non si poteva dar altro che un nome nuovo e barbaro, non c'era verso di fargliele nominare.
Altre le nominava con un vocabolo antico, o di conio proprio, risolutamente, non dandosi alcun pensiero di non essere capito, o d'esser franteso, o di far ridere gli uditori; il che seguiva sovente.
Chiamava, per esempio, una dimostrazione popolare: una raunata di popolo; guardie del fuoco, i pompieri; traino, il treno della strada ferrata (partirò col traino diretto, diceva): un banchetto, non di trecento coperti, ma di trecento tovaglioli; negava la medesimezza della così detta casa di Dante in Firenze.
E non diceva mai semplicemente il re, poichè era monarchico umilissimo, ma neanche Sua Maestà, che condannava come modo improprio: diceva la maestà del re: la maestà del re arriverà domani.
Ma i due più belli esempi della sua audacia di purista, diventati famosi a Firenze, sono [159] le voci antiche con le quali s'ostinava a designare due imposte, ch'egli chiamava gravezze: l'imposta progressiva e quella della ricchezza mobile, già esistenti ai tempi della Repubblica: la decima scalata e l'arbitrio.
E tutte queste parole, e le altre, pronunziava con aria di sfida fra i "neologizzanti" quasi gettandogliele in faccia (scrivo così perchè è morto) e dicendogli con gli occhi: - Beccatevi questo, e fatene vostro pro, pezzi d'ignoranti.
Variatissimo e comicissimo era il suo vocabolario di pedante vituperatore di barbari; nell'uso del quale egli graduava il vituperio con rigorosa giustezza.
Da modo non bello, brutta voce, vociaccia, robaccia, veniva su su a mostriciattolo, mostruoso vocabolo, voce appestata, abbominevole voce, parola infame.
Così d'un francesismo tollerabile si contentava di dire: sente di francese, e via via: e' pute di francioso (il francioso aggravava) o di gallico (che era più grave di francioso); francesismo vile, fetentissimo, sgangherata voce gallica, scempiata metafora transalpina.
E in diversi modi egualmente fieri e lepidi ammoniva i giovani a rifuggire da quei delitti: - Al fuoco questa parolaccia! - Al gasse! - Alla cassetta della spazzatura! - Deh, non lo dire! - Via quest'orrore! - La lasci agli acciabattoni! - E lascio altre sue maniere usuali: - Goffe eleganze romanzieresche, sconce sgrammaticature segretariesche, stomachevoli parole muschiate, sguaiate leziosaggini, turpi granciporri: n'aveva una collezione infinita.
Ma non era mai così bello a vedere e a sentire come quando scorreva un libro nuovo e [160] sospetto, con quel viso sanguigno e minaccioso, con quei baffi irti, che s'appuntavano contro la pagina come penne d'istrice, con quelle unghie adunche, piantate sui margini, come pronte a graffiare.
Egli segnalava il francesismo con una contrazione del viso come se vedesse correre fra le righe un insetto schifoso.
La manifestazione più tenue del suo sdegno era un pugno sul tavolino.
Quando una parola o una frase lo urtava più forte, prorompeva in invettive contro il fantasma dell'autore: - Ah, italiano rinnegato! - Camerlingo degli spropositi! - Sgrammaticato malfattore codardo! - E l'ultima espressione della sua collera era un riso ironico forzato, che gli scopriva i denti canini, accompagnato da uno scotimento di spalle, con cui fingeva un'ilarità smodata.
Ma dopo questo sforzo, sbatteva il libro nel muro e andava fuor della grazia di Dio.
- A questo punto siamo arrivati! Ma è un'aberrazione, una demenza universale.
L'Italia va in isfacelo.
Quando non c'è più lingua non c'è più nulla.
È finita.
Oh bastarda razza di traditori!
Povero professor Pataracchi! Conservarmi la sua benevolenza costò a me qualche fatica; ma deve aver faticato più lui a non levarmela.
Chi sa quante volte fu in procinto di dirmi come Virgilio all'Argenti: - Via costà con gli altri cani! - Poichè, in somma, gli dovevo parere un ipocrita, io che per tenermi nelle sue buone grazie gli davo ragione a parole, ma seguitavo a scrivere come un Ostrogoto, non potendomi ribellare alla terminologia dei regolamenti, poichè scrivevo di cose militari.
- Ma è proprio proprio costretto - mi domandava [161] qualche volta - a servirsi di codesto orribile gergo caporalesco? - Io rispondevo di sì, e mi giustificavo umilmente.
Ed egli mi diceva: - La compiango! - E forse fu la compassione che mi mantenne la sua amicizia.
Il giorno prima di lasciar Firenze per sempre, m'andai ad accomiatare da lui.
Fu più affettuoso che non m'aspettassi.
Forse lo impietosiva il pensiero ch'io m'andavo a stabilire a Torino, poichè a lui, per rispetto alla lingua, Torino doveva parere un covo brigantesco, dove io non potessi far altro che una miseranda fine.
M'accompagnò per un tratto di via del Cocomero.
All'angolo di via degli Alfani, prima di lasciarmi, mi disse qualche parola benevola, raccomandandomi la lingua.
Forse gli avrei lasciato un buon ricordo di me, se non avessi più aperto bocca; ma all'ultimo momento guastai la frittata.
- Se per combinazione - gli dissi - venisse una volta a Torino, abbia la bontà d'avvertirmene.
Mi metterò ai suoi ordini.
Sarò felice di rivederla e di servirla.
- Grazie, - rispose stringendomi la mano.
- Buon viaggio, e a rivederla.
E mi lasciò.
Ma fatti pochi passi, mi richiamò con un cenno, e mi disse: - Senta.
Combinazione, per caso o casualità, mi perdoni, è orribile.
E se n'andò senza dir altro.
Furon quelle le ultime parole ch'io intesi dalla sua bocca purissima.
Fulminò ancora i barbari per sette anni, e poi morì sulla breccia, ravvolto negli avanzi della sua bandiera.
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PARTE SECONDA.
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[165]
Nel corso degli studi che farai sulla lingua, con la penna alla mano, nei vocabolari e negli scrittori, se vorrai impadronirti durevolmente delle cognizioni che verrai acquistando e ricavarne il maggior vantaggio possibile nel parlare e nello scrivere, sarà bene che tu le ordini nella tua memoria, raggruppandole intorno a certi concetti, che dovrai tener sempre presenti.
A ciascuno di tali concetti, o per dir meglio, divisioni della materia, dedicherò un breve capitolo.
Sarà una serie di consigli e d'avvertenze intorno alle relazioni della lingua coi dialetti, alla lingua che non si sa, alla lingua che si sa, ma non s'usa, alla lingua impropria, alla lingua abbreviativa, ai sinonimi, alle definizioni, ai modi famigliari, al linguaggio faceto, al modo di variare il proprio materiale linguistico.
Ragioneremo poi dei francesismi e delle parole nuove, degli spropositi più frequenti e dei luoghi comuni più usuali del linguaggio corrente, e delle licenze lecite e di quelle che offendono i diritti della Grammatica; e in fine faremo insieme una corsa a traverso la letteratura italiana per scegliere gli scrittori che tu dovrai leggere e studiare di preferenza.
Non ti spaventare della via lunga: la percorreremo alla lesta, scherzando spesso da buoni amici, e ricreandoci ogni tanto nella compagnia d'originali piacevoli.
Adelante, Pedrito.
[166]
LE LAGNANZE D'UN DIALETTO.
DIALOGO FRA IL DIALETTO PIEMONTESE E LA LINGUA.
(Il dialetto è il piemontese; ma il dialogo può star benissimo con qualunque altro dialetto d'Italia, sostituendovi altre voci e locuzioni a quelle che son citate ad esempio).
LA LINGUA.
- Buon giorno, fratello.
Tu hai la cera rannuvolata.
IL DIALETTO.
- Me la vedo come in uno specchio, Signora, e mi duole di presentarmi a Voi in quest'aspetto.
L.
- Perchè mi chiami Signora? Altre volte ti dissi che mi piace esser chiamata sorella.
La fortuna e la gloria non m'hanno fatto montare in superbia.
Non siamo, tu ed io, rami dello stesso tronco? figliuoli della stessa madre? legati ancora e per sempre da mille somiglianze e proprietà comuni, dalle quali lo straniero riconosce in noi, a primo aspetto, il comun sangue latino? Che cosa t'affanna, fratello?
D.
- Ti ringrazio, sorella illustre e venerata.
[167] (Scattando) Ma è proprio questo pensiero che mi fa stizzire: d'aver che fare con una razza d'ingrati, i quali, disconoscendo i vincoli che mi legano a te, credono di farti onore disprezzandomi, e, parlando e scrivendo italiano, rifiutano un monte di parole e di frasi mie come se fossero barbare per il solo fatto d'esser mie, e vanno predicando ai ragazzi che, per non offenderti, debbono rifuggir da me come dalla peste bubbonica.
L.
- Lo so.
D.
- E che ne dici?
L.
- Confòrtati.
Mi fanno sovente la stessa lagnanza i tuoi fratelli.
E scrisse pure un grande maestro che ogni italiano, per imparar la lingua, la dovrebbe studiare tenendo tanto d'occhi aperti sul proprio dialetto; con che volle dire che v'è in ciascun dialetto una grande quantità di modi e costrutti comuni alla lingua; conoscendo i quali, ed usandoli, riuscirebbero tutti ad esprimersi in italiano con assai più facilità ed efficacia che ora non facciano, poichè a quelle forme che si presentano loro spontanee, ed essi rifiutano come puramente vernacole, ne sostituiscono altre quasi sempre men naturali, appunto perchè cercate, e meno proprie, perchè meno naturali.
D.
- Ecco la gran verità, sii benedetta! Mi disprezzano per onorarti, e offendono te, disprezzandomi; mi fuggono come un nemico, quando si potrebbero giovare di me come d'un maestro.
L.
- Dici il vero.
Ma non pensar che ti disprezzino.
Ogni giorno sento dire da italiani di questa o di quella provincia che il loro dialetto è più vivace, più vario, più espressivo della lingua, e che col proprio dialetto soltanto riesce loro [168] di dire tutto quello che vogliono, d'esprimere tutte le particolarità d'ogni loro pensiero, tutte le sfumature d'ogni sentimento.
Vedi dunque! Ma è singolare.
E non sospettano che la grande difficoltà ch'essi trovano a dire in italiano tutto quello che vogliono, deriva principalmente dal credere non italiane una buona parte di quelle forme con le quali appunto possono dir tutto nel vernacolo.
D.
- Tu mi riconforti, sorella.
Ma se sapessi quanti affronti mi tocca d'ingollare! Ne sento da ogni parte e d'ogni specie.
È dialetto; dunque moneta falsa: è la massima.
Sento molti ridere quando uno dice, parlando italiano: - legger la vita, mangiar la foglia, bruciare il pagliaccio, trovare una bella vigna, tirarsi da banda, battere il taccone, ridere sul mostaccio ad un tale, far filare uno, far pressa a un altro, tramutare un tavolino, battere una culattata in terra, andar lì lì per morire, tirare avanti la famiglia....
O dimmi tu: non sono modi italiani, di tua proprietà incontestabile, sorella mia?
L.
- Li riconosco.
D.
- O dunque! E ne potrei citare mille e passa.
Giusto, eccone un altro, che guai a chi gli scappa.
Bisogna sentire come si spassa certa gente colta alle spalle dei poveri ignoranti che s'ingegnano di parlare italiano, per certe parole e frasi italianissime, credute piemontesismi grossolani.
Ho sentito una famiglia intera dare in una risata perchè alla domanda: - che tempo fa? - la serva rispose: - È nuvolo! - Diedero in un'altra risata, un'altra volta, a sentirle dire: - Com'è peso questo bimbo! - La stessa cosa, un giorno ch'ella disse: - La botte versa; [169] bisogna stopparla.
- Ma aspetta, che te ne citi dell'altre più curiose, coi commenti relativi degli italianissimi.
- Sono uscito senza niente in capo.
- Bell'italiano! - Se ci sono stato? Quelle belle volte! - Ah quelle belle volte, che perla! - Grazie! Ho mangiato il mio bisogno.
Un signore che mangia il suo bisogno! - No, l'assicella va messa per così.
Per così parli la lingua, Ostrogoto? - Dove sta il tale? Deve star per qui (qui vicino).
Dio di misericordia! - Svelto come sei, fai un momento a arrivare a casa.
- O come si fa a fare un momento, citrullo? - Dopo la Norma, andrà su l'Ernani.
L'Ernani che va su! A quale altezza? - Se non c'è appunto sei miglia, siamo lì.
Dove lì? - Ah, povera Italia! Dimmi ancora: c'è qualche cosa che offenda la tua purità in tutto quello che ho detto?
L.
- Nulla, fratello.
Son tutte forme della lingua parlata, usatissime da chi più mi conosce e mi rispetta.
D.
- Deo gratias.
Se tu sentissi, in certe case, dove si parla l'italiano per istituto, che rabbuffi toccano a dei poveri ragazzi quando si lasciano scappare di bocca spasseggiare, slargare, sgraffignare, disgruppare, ciaramellare, tambussare, ciucciare, impappinarsi! - Questo è italiano di Porta Palazzo: bene spesi i denari per mandarti a scuola! - A un ragazzo che diceva piangendo: - M'hanno dato! (delle busse, era sottinteso), udii rispondere: - E te lo meriti, se parli italiano in codesta maniera.
- E: - berrai quando parlerai meglio - a un altro, che chiedeva dell'acqua dicendo che aveva una sete del diavolo.
E non parlo delle correzioni che fanno molti insegnanti ai componimenti scolareschi; nei quali, [170] oltre agli errori inevitabili nella prima età, bollano come strafalcioni, per la sola ragione che sono dialettali, una quantità di modi correttissimi, che i piccoli scolari, poveretti, non sono in grado di giustificare.
Se ne vuoi sentire....
L.
- Ne son curiosa.
D.
- E io ti contento.
Ho appunto sott'occhio i componimenti d'una quarta classe elementare, corretti da una maestrina, della quale non si può dire che non conosca la lingua, chè anzi scrive benino.
Ebbene, ci trovo segnati come piemontesismi, con la matita rossa, una decina almeno di modi, che tu certamente non ripudii.
- Torino fa 350 000 abitanti.
C'è un frego rosso sul fa.
- La famiglia costumava festeggiare il natalizio del babbo.
Condannato costumava.
- La mamma si tapinava tutto il giorno.
Bollato il tapinava.
- Doman da sera.
Tre punti d'esclamazione.
- Un dopo desinare verrò da te.
Un frego rosso all'un dopo desinare e al verrò, chè s'ha da dire andrò, si capisce.
Passò da Torino, invece di per, sottolineato.
- Disse che non ci sarei riuscito; ma io l'ho fatto bugiardo.
Un punto interrogativo rosso accanto a questo modo.
- Son nato del 1891.
Riprovato il del.
Figurava di non volere; ma non aspettava altro.
Sostituito fingeva.
- E tu non vieni? fa la sorella.
Crociato il fa.
- Una cosa fatta come va.
Un tratto rosso anche a questo.
E se ne vuoi dell'altre, che ho pescate altrove, ce n'ho un cestone....
L.
- Codeste mi bastano, chè ne so molte anch'io.
Quanto rosso sciupato, dio buono! E questo è risibile, che i più di coloro che si dànno tanta cura per iscansar codesti pretesi errori [171] dialettali, si lasciano sfuggire a ogni tratto dialettismi veri e bruttissimi, per isbadataggine, o perchè non li conoscon per tali.
Ed è naturale: non si può badare insieme a ogni cosa: mentre si guardan dagli uni, inciampano negli altri.
D.
- E così dagli altri italiani mi fanno dar del barbaro coi dialettismi veri, e mi trattano di barbaro essi medesimi dando la caccia ai dialettismi falsi.
E mi son ristretto a citare vocaboli.
Lascio da parte un gran numero di forme sintattiche, di legature, di giri di frase svelti e efficaci, che sono cosa mia e tua ad un tempo, di cui potrei cavare esempi dai tuoi più grandi e puri scrittori, e da cui si guardano parlando e scrivendo italiano, come da azioni disoneste, per usare invece forme scontorte, giunture che stridono, costrutti forzati e pesanti; che sono nel concetto loro i soli corretti.
E m'hanno l'aria di gente che fabbrichi dei ponti per passare un fil d'acqua...
L.
- Ed è vero anche questo, fratello.
E hanno ragione al par di te i fratelli tuoi, che un fanno le stesse lagnanze.
Ma il tempo vi renderà giustizia, non dubitare.
Via via ch'io sarò conosciuta e parlata da un numero sempre maggiore d'italiani, scoprendo questi da sè quante voci e forme son comuni a me e ai loro vernacoli, e gli scrittori mettendole in mostra e in commercio, sempre più si farà manifesta la vanità di gran parte della fatica che ora si dura a scansare errori immaginari, e una sempre più larga parte dell'esser tuo si confonderà col mio nelle lettere, e ti sarà reso l'onore che meriti, e saranno lamentati gli oltraggi che ora ti si recano, e si [172] trarrà da te forza, vita, colore, varietà, comicità, naturalezza, per parlare e per scrivere italianamente.
Mi credi?
D.
- M'hai racconsolato.
Ti ringrazio....
e ti riverisco, Signora.
L.
- Chiamami sorella.
D.
- Sorella ti posso chiamare nel corso dei nostri colloqui; ma non presentandomi a te, nè accomiatandomi.
Nell'atto di salutarti, il mio amor fraterno è sovrappreso da un senso di riverenza.
Dietro di te, vedo Dante.
[173]
LA LINGUA CHE NON SI SA.
Ne abbiamo già detto qualche cosa; ma di passata, ed è bene riparlarne.
Intendo dire principalmente di quel gran numero di nomi di cose, che noi non sappiamo e che non ci curiamo di sapere, perchè di quelle date cose non abbiamo mai occasione o bisogno di parlare se non nel dialetto; ma che deve imparare chi studia davvero la lingua, perchè questa non si saprà mai che malamente se non se ne studia più di quanto occorre a parlarla alla meglio fra di noi, dove non se ne parla che mezza.
Noi la dobbiamo studiare, non in relazione coi nostri bisogni immediati e abituali, ma come se fossimo certi di dover quando che sia andar a vivere in una regione d'Italia dove neanche una parola del nostro dialetto sia intesa, e dove, per conseguenza, ci sia necessario parlare sempre e d'ogni cosa in lingua italiana.
Ora le cose delle quali ignoriamo il nome italiano sono innumerevoli, e noi non c'illudiamo che sian poche se non perchè, parlando la lingua, ci siamo assuefatti per modo a scansare di [174] nominarle, che quasi non ci accorgiamo più del nostro gioco.
E questa illusione è anche maggiore nei giovinetti che, vivendo in un giro più ristretto d'idee e di faccende, hanno di solito meno cose da dire che gli uomini, e con minori particolari, e con minor necessità d'essere esatti.
Ma se potessero i giovanetti immaginare in quanti impicci si troverebbero parlando la lingua, quando fossero trasportati di sbalzo in un'altra regione d'Italia, fuor del piccolo mondo della famiglia e della scuola in cui è circoscritta la loro vita, quanta parte di lingua s'accorgerebbero d'ignorare, assolutamente necessaria, e soprattutto quante cose si troverebbero costretti ogni momento a descrivere, invece di nominarle, con molto stento e non senza vergogna, se questo potessero immaginare, credo che non occorrerebbe loro altro eccitamento per indursi allo studio.
A questo proposito ebbi da ragazzo una lezione che mi riuscì utilissima.
Da qualche tempo studiavo la lingua, e mi illudevo che fosse un gran che quel poco patrimonio di parole e di frasi letterarie, che m'ero ammucchiato nel capo; e ne menavo gran vanto.
Un giorno fui invitato a colazione da un mio vecchio zio, che stava in una villetta, sulla riva d'un torrente, a qualche miglio dalla piccola città piemontese, dov'era stabilita allora la mia famiglia.
Era uno spirito mordace, benchè buono d'indole, dotto di storia, e conoscitore profondo della lingua, della quale s'occupava ancora con amore.
Eravamo alle frutte, quando il discorso cadde su quest'argomento, ed io vantai i miei studi di lingua col tono d'un filologo, che [175] potesse parlare in cattedra della materia.
Spiacque la mia sicumera al buon vecchio; il quale sorrise con aria maliziosa, e mi disse: - Vediamo dunque un poco, signor linguista, se la dottrina corrisponde al vanto.
Vuol ella scommettere che senza uscire dal giro delle cose che abbiamo sotto gli occhi, di nove su dieci che glie ne accenno ella non sa il nome, e neppure delle operazioni usualissime che vi si riferiscono? - E cominciò la prova, che m'è rimasta bene impressa nella mente, perchè egli mi fece notar le parole con la matita.
- Eccoti il fiasco -, mi disse.
- Sai come si dice gettar via dal fiasco pieno un poco di vino per purgarlo da qualche cosa di poco netto? No? Sboccare il fiasco.
Sai come si chiama l'operazione di riempire un fiasco scemo? No? Rabboccarlo.
E come si dice con una sola parola vuotare un mezzo fiasco? Neppure.
Si dice ammezzarlo, un fiasco ammezzato.
Hai detto che questo vino è un po' infortito, ed è vero: comincia a prendere il fuoco; ma sai come si dice del vino infortito che pizzica la lingua e il palato? La parola propria? No.
Si dice che ha l'appinzo.
Guarda questo bicchiere: vedi questo spazietto interposto nella sostanza del vetro? Sai come si chiama? Púlica.
E la parte più sottile della lama di questo coltello, che è fermata nel manico? Códolo.
E il dente della forchetta? Rebbio.
E questo? Reggifiasco.
E quest'altro? Reggiposate.
E ciascuna di queste ciocchette di chicchi che formano il grappolo, sai che si chiama racìmolo? E fiócine la buccia dell'acino? E vinacciuolo il granello sodo che v'è dentro? E il nome di questa buccia interiore della [176] castagna? Peluria, andiamo.
E questa parte della lattuga, composta delle foglie più piccole e più tenere, che fanno cesto, come la chiami? Grùmolo.
E il reticino per scoter l'insalata? Nemmen questo.
Scotitoio.
O veda un po', signor linguista!
Riprese fiato e tirò innanzi.
- Ora ti servo le frutte.
Son certo che non sai che si dicono sfarinate le pere come queste, che non reggono al dente, come le patate, che sfarinano; nè che si dicono maculate quelle che portano segni delle mani; nè che si chiamano nocchi queste specie d'osserelli dei frutti, che è lo stesso nome, nocchio, della parte del fusto dell'albero indurita e gonfiata per la pullulazione dei rami.
E guarda questo baco della pera che s'attorce: tu non sai che con parola propria si dice che s'assérpola.
Rifacciamoci un po' indietro.
Tu hai rotto la punta a un ovo a bere: sai che si chiama scocciare l'ovo? Hai preso la parte superiore del gelato: sai che si dice scolmare il gelato? E a proposito dei tordi che hai mangiati, sai che si dice dare un fermo ai tordi la prima cottura che si da loro perchè non vadano a male? Ora senti: come dici del pan fresco che fa questo rumore, quando si preme? Che scroscia, signorino.
E di questa crostata sotto il dente? Che scrógiola, da non confondersi con sgrigiolare, che è il rumore delle scarpe nuove.
E dell'olio che bolle? Che grilla o grilletta; e sfriggolare del rumore che fa il pesce o altra cosa, posta a soffriggere nella padella.
E agitar così il liquido nella bottiglia sai che si dice sciaguattare? E uscire a gorgo l'uscir dall'acqua così, dalla bottiglia capovolta? E l'uscire in quest'altro modo: venir giù filo filo? To', e come si chiama questa pozza che ha fatto [177] l'acqua buttata in terra? Stroscia.
E a questa radura del tovagliolo che nome dài? Ragnatura.
E questo, dove infilerai il tovagliolo? Girello, signor linguista.
E potrei seguitare, se ti garbasse.
Io m'alzai da tavola, stizzito, e per nascondere la stizza, m'andai a affacciare alla finestra.
Ma il vocabolarista implacabile mi si venne a mettere accanto, e riattaccò.
- Ti voglio regalare un'appendice - mi disse.
- Supponi di dover andare di qua, partendo dall'orto, fino a quel ceppo di case che è là di faccia.
Tu parti da quell'angolo dove son piantati i baccelli, e non sai che si chiama baccellaio, ci scommetto.
Suppongo che tu inciampi nel ceppo di quel noce tagliato a fior di terra, e non sai che si chiama ceppaia.
Passi all'ombra di quel filare d'alberi, e non sapresti dire che son potati a capitozza.
E non sai neppure che si chiama cavaticcio quel mucchio di terra intorno al quale devi girare, e palancola il tavolone su cui passerai quella gora, dove si raccolgono tutti gli scoli del campo, e che ha pure un nome che non sai: capifosso.
Non ti domando neppure se sai che si chiama capezza quell'ultimo solco che fa vivagno al lato del campo, e callaia quell'apertura fatta nella siepe per entrar nel campo vicino, e macereto quell'ammasso di macerie d'una vecchia casa che è in riva al torrente, dove vedi quel ragazzo che bada alle vacche.
E a proposito, qual è il nome proprio della campanella che hanno al collo le vacche? E quello del tempo nel quale l'erba suol nascere? E quello della rena raccolta sulle rive del torrente, dove passa ora quel contadino che v'affonda i piedi?...
Cam-pá-no, er-ba-tu-ra, re-nic-cio.
E quei punti del torrente dove l'acqua è [178] profonda, e una pietra che vi si getti fa un tonfo, si chiaman tónfani, una bella parola onomatopeica; e quello dove il torrente fa una gran voltata si chiama girone; e dove l'acqua fa un rigiro vorticoso si dice che fa un mulinello....
Che cosa ne dici? C'è ancora qualche lacunetta, pare, nella tua dottrina linguistica.
Mentre egli parlava, io mi tenni sempre in un silenzio cocciuto, sorridendo un po' ironicamente, per fargli supporre che molte di quelle parole le sapessi, e non le volessi dire per dispetto; ma in realtà mi riuscivan nuove quasi tutte.
E seguitai a tacere mentre le notavo sur un foglio di carta, a sua dettatura.
Ma mi rodevo dal dispetto davvero, e in cuor mio lo trattavo di pedante fradicio e di spazzaturaio di vocaboli, e dicevo che aver nel capo un magazzino di parole non era saper la lingua.
La lezione fece frutto, non di meno.
Quando fui a casa, pensai che in cento altri luoghi, in mezzo a cose affatto diverse da quelle che mio zio m'aveva indicate, io avrei dovuto rispondere altrettante volte: - non so - a chi m'avesse interrogato com'egli aveva fatto, e compresi per la prima volta il vuoto enorme che mi restava a riempire nella mente prima di potermi vantare di saper la lingua.
Mi posi allora sul serio allo studio della nomenclatura.
Ma non ebbi la costanza di proseguirlo come avrei dovuto.
E dell'averlo trasandato risento e lamento il danno spessissimo, perchè son costretto a ogni tratto, scrivendo, a posar la penna per cercare come si chiama questa o quella cosa, e non sempre trovando subito, perdo la pazienza e il filo delle idee e il calore dell'ispirazione; e spesso non [179] trovo, e mi tocca a interrogare amici, a voce e anche per lettera; e qualche volta son ridotto a non scrivere una cosa che vorrei scrivere perchè mi manca la parola e il tempo di cercarla.
E non dico della vergogna di dover rispondere molte volte: - non lo so - a chi mi domanda il nome di questo o di quell'oggetto, che tutti i ragazzi toscani sanno nominare; vergogna, dico, perchè nel sorriso degl'interrogatori non sodisfatti leggo bene il pensiero che non m'esprimono: - E son cinquant'anni che studia la lingua!
[180]
LA LINGUA CHE NON SI PARLA.
Via via che procederai nello studio, sempre più sarai maravigliato del gran numero di parole e di locuzioni vive, che, pure essendo usate da scrittori d'ogni regione d'Italia, non si sentono mai, o di radissimo, nella conversazione della gente colta fuor della Toscana, come se non appartenessero alla lingua parlata; e dalla considerazione di questa povertà della lingua che si parla intorno a te, sempre più sarai eccitato a studiare.
Per dimostrarti la verità di quanto affermo, ti cito alcuni modi notati da me, fra i moltissimi ch'io non sento mai dire nè da piemontesi, nè da lombardi, nè da liguri, nè da veneti, che anche parlino e scrivano decorosamente la lingua.
Pensa un poco tu pure se t'occorse mai d'udir le parole malmenìo, rigirìo, rodìo, rosicchío, pigío, friggío, brusío, sbatacchío, fulminío, almanacchío, battío (battío di mani), delle quali si comprende alla prima il significato anche da chi non le abbia mai udite nè lette.
Così intesi mille volte accennare, per esempio, quelle pieghe graziose che fanno per grassezza il collo e le gambe dei bambini; ma mai, posso dir mai in vita mia, con la parola più propria, che è riseghinetta, o riségolo.
[181] Occorre spessissimo di dir le cose seguenti: la fanghiglia, che rimane nelle strade dopo la pioggia; una quantità di roba vegetale, guasta o non adoperabile, che fa impaccio e lordura; un laidume invecchiato sulla persona o sur un muro; una macchia di sudiciume vistosa; un'operazione lunga e noiosa da non cavarne costrutto nessuno; una stanzuccia misera e stretta; un segreto intrigo amoroso; un aiuto o guadagno o risorsa inaspettata; un soffio di vento che vien da una fessura o apertura; un minuzzolo di che che sia, in senso spregevole; l'irritamento che fanno alla gola certe vivande fritte nell'olio o nel burro non più fresco; la bella mostra che fanno di sè cose o persone, o il crescere, cuocendo, di certe pietanze, che riescono più abbondanti che non paressero; e inquietarsi, arrabbiarsi a trattar con qualcuno o a far qualche cosa.
Ebbene, io non sento mai, o quasi mai dir queste cose con le parole usatissime in Toscana e dagli scrittori: belletta, pattume o pacciame, loia, struggibuco, sgabuzzino, ripesco, rincalzo, spiffero, trìtolo, rancico, compariscenza, appariscenza, compàrita, assaettamento.
Così non mi ricordo d'aver mai inteso da un mio corregionale i verbi anfanare (andar qua e là senza saper dove), frucchiare (metter le mani, per smania di darsi faccenda, in più e diverse cose), frizzare (vuol far lo spiritoso, ma non frizza), frullare (mi sentii frullare un sasso accanto all'orecchio), rigirare (rigirarsela bene), raccenciarsi, rinquattrinarsi, spappolare (di cosa morbida che, toccandola, si disfà fra le dita); nè i modi: aver entratura con uno, trovar l'inchiodatura (trovar modo o argomento certo di far che che sia), avere il restío, [182] avere il suo ripieno (in una cosa, vale a dire il fatto suo), averla graziata, far monte, farla bassa, baciar basso, lavorar di fine, gettarsi in grembo a uno, levarla del pari, fare una cosa a saetta, dare un'indossata a un abito, stare a uscio e bottega; e potrei seguitare per decine di pagine.
Non è a dire che queste e altre parole e maniere siano sconosciute: molti le sapranno o le sanno; ma non le usano parlando perchè non le hanno alla mano, perchè esse non fanno parte del loro vocabolario orale, di quella provvisione di lingua che si porta con sè, e che si spende giornalmente, nella conversazione ordinaria; e però, quanto all'uso, è come se non le sapessero.
Dunque, se non ti vuoi ridurre a parlar la lingua povera che generalmente si parla, bada bene, leggendo, a tutti quei modi che intorno a te non senti mai dire, e cerca quali sono i modi che s'usano di solito in luogo di quelli, e raffronta gli uni con gli altri; e per stamparti nella mente quelli insoliti, e perchè non vadano dentro gli armadi chiusi, ma restino sugli scaffali aperti della memoria, dove ti s'offrano alla vista e alla mano a ogni occorrenza, lega ciascun d'essi a un tuo pensiero, immaginando un fatto, un luogo, un'occasione, in cui tu lo possa usare, e anche una persona nota a cui tu lo abbia a dire, e anche l'accento e il gesto con cui lo diresti.
Se non farai questo, sfuggiranno di mente anche a te come agli altri, e ti troverai, parlando la lingua, nella condizione di quei moltissimi sfortunati ai quali, nelle discussioni e nell'opera, l'arguzia vittoriosa, l'argomento convincente, lo spediente utile si presentano sempre troppo tardi, quando il momento di servirsene è passato.
[183]
LA LINGUA APPROSSIMATIVA.
Perchè non possediamo che uno scarso materiale di lingua, noi parliamo una lingua che si potrebbe chiamare approssimativa, con la quale non esprimiamo quasi mai esattamente, ma soltanto press'a poco, il nostro pensiero; e perchè dell'improprietà del nostro linguaggio non abbiamo coscienza, una gran parte dei modi, che ci sono abituali, ci paiono i più propri a dire quello che pensiamo; e solo quando vengono a nostra cognizione quelli che sarebbero propri veramente, riconosciamo che quegli altri non dicevano per l'appunto le cose che volevamo dire.
Non soltanto; ma ricominciamo assai spesso, imparando i nuovi modi, che non erano nella nostra mente certe gradazioni d'idee, sfumature di sentimento e particolarità di cose, che essi esprimono; e son essi che ce ne dànno il concetto; ciò che disse benissimo un grande scrittore, affermando che certe idee non ci vengono neppure in mente perchè non abbiamo le parole con le quali potrebbero venire.
[184]
Ti cito una serie d'esempi che ti persuaderanno.
Confondere.
- Noi non usiamo questa parola nel significato che ha negli esempi seguenti: - Non si confonda con la politica.
- Non si confonda con quel figuro.
- Non si confonda a cercare codesto foglio.
- Ebbene, nessuna delle espressioni che noi usiamo in quei casi in vece di confondere dice per l'appunto la stessa cosa, perchè affannarsi, tormentarsi, montarsi il capo dicon troppo, e darsi pensiero, perdere il tempo, occuparsi, impicciarsi non dicono abbastanza.
Infognare.
- Infognarsi in un affare, in una impresa.
Con che altra parola potresti dire così efficacemente che si tratta d'un affare, oltre che rischioso, disonorevole?
Ribruscolare.
- Sono andati a ribruscolare tutte le scapataggini della sua gioventù.
- Noi sogliamo dire rintracciare, rivangare.
Ma ribruscolare, che significa propriamente raccogliere i minuti avanzi e bruscoli d'ogni cosa, come esprime meglio la minuziosità, quasi la malignità diligente e paziente con la quale i nemici d'una persona cercano il pelo nell'ovo per iscreditarla!
Rifrustare.
- È un fannullone vizioso che rifrusta tutte le bettole.
- Rifrustare, che, traslato, significa ricercare in ogni parte, in ogni angolo più segreto, esprime assai meglio del frequentare o bazzicare, che noi useremmo, l'idea del vizio infistolito e insaziabile.
Riportare.
- Quel ragazzo mi riporta tutto suo padre nell'andare, nel gestire, nel parlare.
- Riportare, in questo significato, dice più di rassomigliare e di ricordare, come noi diremmo; [185] significa: è tal quale, e presenta molto più vivamente l'immagine.
Rimaner male, nella sua indeterminatezza, esprime meglio d'ogni altro modo generalmente usato lo stato d'animo mal definibile di chi per un detto o un atto altrui rimane scontento, corbellato, disingannato, fra risentito e confuso.
Star su.
- Credi ch'io stia sui cinquanta centesimi? Piglia una lira e vattene.
- Noi diremmo che io badi o ch'io m'impunti; ma in badare non è espresso abbastanza il concetto dell'interesse; impuntarsi è troppo forte; star su esprime un'idea di mezzo tra il semplice concetto dell'interesse e quello dell'avarizia che lesina.
Stillare.
- L'ha stillata bella! - Nove su dieci noi diremmo l'ha pensata o trovata.
Ma stillare significa chiaramente la ricerca sottile e l'accortezza della trovata, che pensare e trovare non esprimono.
Stridere.
- Bisogna striderci, per dire che di una tal cosa non ci possiamo esimere, benchè ci dispiaccia.
Noi diremmo invece adattarsi, rassegnarsi o simili, che non dicono così bene il rincrescimento o il dispetto con cui c'induciamo a fare o a sopportare quella data cosa.
Storcere.
- Non mi storcere le parole.
- Non c'è altro modo, di quelli che noi useremmo, che esprima con un traslato così efficace l'interpretare malignamente le parole altrui in significato diverso dal vero.
Pigliare in cattivo senso, per esempio, non dice, come la parola storcere, il proposito dell'interpretazione cattiva, e anche sostituendo voltare a pigliare si esprimerebbe con minore evidenza lo sforzo e il mal animo.
Stare in tentenna.
- Tu diresti tentennare [186] senz'altro; ma tentennare dice una cosa che tentenni, barcolli o stia male in piedi momentaneamente; stare in tentenna dice la permanenza della cosa in quello stato.
E così stare in tremolo.
Pigliare a frullo.
- Vedi se l'idea di fermare una persona dove che sia e appena càpiti, o quella di cogliere rapidamente parole, idee, senza che altri ci pensi e per nostro giovamento, può essere espressa in altri modi con maggior proprietà ed evidenza.
- Venirti a cercare a casa è tempo perso; bisogna pigliarti a frullo.
- Piglia a frullo i discorsi dei valentuomini, e poi se ne fa bello.
Prendere il vecchiuccio.
- D'una persona, non è lo stesso che dire: comincia a farsi vecchio, perchè significa pure l'idea: benchè non paia, o cerchi di nasconderlo.
Fare agli occhi.
- Si dice di due innamorati che fanno agli occhi.
Vedi se ti riesce di trovare qualsiasi altro modo che dica come questo il guardarsi a vicenda dì continuo e quasi conversare con gli sguardi, non potendolo fare liberamente a parole.
Fare una smusata, una smusatura a uno.
- Tu intendi quello che significa, e senti che l'idea non è significata così determinatamente dalle parole atto villano, o di dispregio o di schifo o di fastidio, o mal garbo, nè con pari sfumatura comica da fare una brutta faccia o una smorfia.
Ti cito più alla lesta qualche altro esempio.
Non senti che la parola amarume nella frase: - C'è un po' d'amarume fra di noi, - significa qualche cosa di meno di amarezza, e non potrebbe essere sostituita per l'appunto da nessun'altra parola? E nel modo: ho tutta la giornata impicciata non è espressa un'idea che le [187] parole occupata, impegnata non rendono esattamente, perchè voglion dire un'occupazione continua, non una serie d'occupazioni con intervalli di tempo libero, ma troppo brevi, da poterli impiegare a qualche cos'altro? E dicendo un affare rassegato (rassegare, d'un liquido grasso che si rappiglia) non dài l'idea d'un affare finito, ma più recente di quello che significherebbe finito senz'altro, o passato o da non pensarci più? E come s'esprimerebbe così propriamente l'idea d'un tempo in cui si sia fatta una vita dura, faticosa, affannosa, come col modo: sono stati giorni, anni sudati? E la parola strettita nel dire: aver la gola strettita dal pianto, non ti pare che abbia forza più particolarmente espressiva che la parola stretta, che fa a tanti altri casi? E qual altra parola dice così bene ad un tempo turbato di mente, distratto, sconcertato, svogliato, impensierito, come stonato: oggi sono stonato, non capisco nulla? E pensa un po' se t'occorre spesso di sentir dire: uomo di ricapito, uomo impiccioso, un po' zolfino, scattoso, troppo entrante, un mettibocca, uno sputazucchero, tutti modi che s'intendono alla prima, e se le parole che s'usano di solito in luogo di quelle hanno proprio la stessa sfumatura di significato, o non dicono invece la cosa press'a poco, come altre innumerevoli che noi spendiamo abusivamente perchè non abbiamo tra mano moneta migliore? Credo che bastino questi esempi a dimostrarti che noi parliamo davvero una lingua approssimativa, e che il liberarti da questo malanno dev'essere uno dei tuoi primi intenti, e questo intento una delle tue prime norme nello studio della tua lingua.
[188]
LA LINGUA CHE ABBREVIA.
Ti do un altro consiglio, sul quale credo di dover insistere in particolar modo: di notare e d'imprimerti bene nella mente, leggendo gli scrittori e il dizionario, tutte le parole e le locuzioni che esprimono un'idea più brevemente di come tu sei usato ad esprimerla o a sentirla esprimere fra noi.
Dirai: - Che importa una parola o una sillaba di più o di meno nell'espressione d'un'idea? - Poco - rispondo - nell'espressione di ciascuna idea presa a parte; ma siccome sono moltissime le cose che noi sogliamo dire con maggior numero di parole del necessario, ne segue che il nostro discorso, in generale, riuscirebbe notevolmente più breve, più sobrio e quindi più efficace, se accorciassimo tutte le espressioni del nostro pensiero che si possono accorciare.
La brevità, quando non nuoce alla chiarezza, è bellezza e forza.
Nel parlare come nello scrivere, c'è fra chi è breve e chi è lungo, per rispetto all'uditore e al lettore, la stessa differenza che fra chi paga in oro e chi paga in rame; chè, dandoti la stessa [189] somma, l'uno ti lascia leggiero e l'altro ti carica.
E sai quello che dice il Leopardi: che tanto è più viva l'attenzione e maggiore il piacere di chi legge o ascolta quanto è più rapida la successione delle cose, dei pensieri, delle immagini che lo scrittore o il parlatore gli fa passare davanti.
*
Per esempio; noi usiamo esprimere col verbo diventare o fare e con un aggettivo un gran numero d'idee che s'esprimono benissimo con una sola parola, con un verbo intransitivo.
Della maggior parte dei verbi intransitivi, specialmente parlando, non ci serviamo quasi mai, come se fossero ferri della lingua che non sappiamo maneggiare.
Diciamo quasi sempre: diventar rozzo, secco, triste, selvatico, vano, grullo, asino, canaglia, tozzo, furbo, zotico, bello, brutto, caparbio, grinzoso, minchione, sospettoso, insolente, e mai, o quasi mai: arrozzire, assecchire, intristire, inselvatichire, invanire, ingrullire o ringrullire, inasinire, incanaglire, intozzire, infurbire, inzotichire, imbellire, imbruttire, incaparbire, raggrinzire, rimminchionire, insospettire, insolentire.
Diciamo sempre: i capelli tagliati diventano più fitti, non affittiscono o raffittiscono; si fa notte, si fa buio, non annotta, rabbuia; questa tela comincia a farsi rada, non: comincia a diradare; questo mobile non è bene accostato al muro, non: accosta bene al muro.
E vedi se senti mai usare in forma intransitiva i verbi: - abbassare (la temperatura abbassa), raffrescare (verso sera raffresca), raddolcire (la stagione comincia a raddolcire), rabbruscare, [190] del tempo (cominciò a rabbruscare verso notte), riscaldare (appena riscalda, io vado in villa), rischiarare (aspetto che rischiari per uscir di casa), scorciare (le giornate cominciano a scorciare), alzare (la casa alza dalle fondamenta quindici metri), accordare (questa parte non accorda bene con l'altra), infortire (questo vino infortisce), abbozzolare (questa farina abbozzola), stingere, perdere il colore (questi panni stingono)? E tu diresti sempre che la carne diventa frolla non che infrollisce; che il burro diventa rancido, non che rancidisce; che il sangue si rappiglia, non che rappiglia; che un tale s'impunta, s'incaglia nel parlare, non che impunta, che incaglia; e che una passione si fa o diventa gagliarda, non che ingagliardisce, e che Tizio per ogni piccola cosa mette il grugno, non che ingrugna; e non mai infreddare, ma sempre: prendere un raffreddore.
Non è forse vero? Differenze minime; ma son queste e tant'altre piccole abbreviature, ciascuna per sè trascurabile, che tutte insieme abbreviano e isveltiscono notevolmente il discorso.
*
Ti cito un'altra serie di verbi, usati pochissimo da noi, ciascuno dei quali ci farebbe risparmiare una o più parole, e qualche volta una proposizione intera.
- Con quella pipa egli m'appuzza tutta la casa.
Noi diremmo: mi riempie di puzzo.
- Dopo che è cavaliere non mi degna più.
Non si può esprimere altrimenti l'idea con una sola parola.
- Appena mi vide, si difilò verso di me.
Noi diremmo: venne difilato.
- Quel ragazzo [191] dirazza dai suoi genitori.
- Il terreno comincia a erbire.
- Ho appratito (ridotto a prato) tutto il mio podere.
- Il sole di maggio fiorisce tutta la campagna.
- Gli alberi cominciano a frondeggiare.
- Il prato colmeggia verso il mezzo.
- Il terreno in quel punto pianeggia.
- La strada in quel punto forcheggia.
- Quest'anno le biade graniscono bene.
- Quell'abito le rifà la persona, quelle tende nuove rifanno il salotto.
- Non è vero che tutti questi verbi non li usiamo quasi mai nella forma e nel significato che hanno negli esempi citati, e che quasi sempre ci occorrono parecchie parole per dire quello che essi dicono? E si può dir lo stesso dei seguenti: - entrare, senz'altro, per entrare a parlare (quando qualcuno gli entrava sull'affare dell'eredità, era un guaio) -, cabalare, per ordire inganni -, incappellare, per prender cappello -, insignorirsi, per diventar signore -, dimoiare (il liquefarsi della neve.
Faceva un umidiccio come quando dimoia), - imbaulare la roba -, discoleggiare, facicchiare (un far leggero e poco concludente: non fa, ma facicchia) -, frivoleggiare, ghiribizzare (che vai ghiribizzando?) -, giovaneggiare, labbreggiare (recitar sotto voce) -, legneggiare (far legna) -, lenteggiare (questa corda lenteggia, non è abbastanza tesa) -, molleggiare (questo canape molleggia) -, sfrottolare, sfuriare (ora che è sfuriato, possiamo uscir noi, senza farsi pigiare) -, riavere (una pioggia a tempo rià la campagna) -, riguardarsi (usarsi dei riguardi) -, rimpollare (la roba in quella casa pare che ci rimpolli, che cresca a misura che si consuma) -, rimanere, restare, senz'altro, per rimaner maravigliato, stupito -, riparare [192] (il tal bottegaio non ripara, ossia: ci ha continuamente gente) -, scampagnare (andare o stare in campagna per ricreazione o divertimento) -, schiassare (fare del chiasso per divertirsi) -, scrupoleggiare -, sbraccettare una signora, per accompagnarla a spasso, dandole il braccio -, scaponire un testardo, vincerlo in ostinazione -, scasare (andar via da un luogo dove s'aveva casa), scarognare, sfaccendare, scoronciare, spaternostrare -, scrudire l'acqua troppo fredda -, soleggiare, esporre al sole (bisogna soleggiare quest'uva) -, scuriosire, scaltrire, sneghittire, spigrire uno -, spiovere, cessar di piovere (aspettiamo che spiova) -, spoliticare, svecchiare: toglier via il vecchiume (svecchiare una selva, svecchiare la lingua degli arcaismi) -, sfondar poco, non sfondare: aver poca intelligenza (s'è messo a studiar le matematiche, ma non isfonda; in quanto a talento, non isfonda) -, tavoleggiare, trattenersi a tavola, discorrendo e centellando -, tentennare un tavolino, per veder se sta saldo.
- Vedi un po': son certo d'aver detto la cosa cento volte in vita mia, e d'averla sempre detta, non con quella sola parola, ma con un'altra, meno propria, e appunto per questo, accompagnata quasi sempre da una spiegazione.
*
Poichè t'ho fatta una confessione, te ne fo dell'altre.
So bene che si dice: - una cosa non mi finisce - per: non mi sodisfa, o non mi contenta pienamente; e non di meno, parlando, esprimo sempre quel pensiero nella seconda maniera, con nove sillabe invece di cinque.
Dico: [193] - il tal podere ha un circuito di sette chilometri - quando potrei dire con due sole sillabe: - gira sette chilometri.
Potrei dire: - un salone che riquadra cento metri -, e dico: ha la superfice di cento metri quadrati.
Non oso dirti quali locuzioni stentate e ridicole usai qualche volta per dire che una certa sostanza, nel ribollire, rientra o ricresce, che un dato legno, o una stufa, rende poco o molto, che il legno non bene stagionato rimbarca.
Dissi per anni con una locuzione di tredici sillabe quello che si può dire in cinque: alfabetare, per esempio, le note sulla lingua.
Ricordo d'aver fatto un giorno un interminabile giro di parole per dire d'aver trovato un tal pittore occupato a graticolare, o reticolare, o retare la tela.
Non espressi mai con una parola sola l'idea che esprime benissimo il verbo avventare negli esempi: - un colore che avventa, una ragazza che avventa a primo aspetto, ma non è bella, uno stile che avventa alla prima lettura, ma è vizioso.
- E così: abbambinare una cosa che non si può portare, agghiaiare una strada, allentarsi dopo aver mangiato, arrivare una vivanda, assodare un uovo, avviare una candela, spicciolare uno scudo, calettare o non calettar bene (d'un uscio, per esempio, che sia bene o male aggiustato, in modo da lasciare, o no, trapelare l'aria), son tutti modi che non mi vengono mai alla bocca, e in luogo dei quali uso sempre parecchie parole, che, per giunta, quasi sempre dicono meno chiaramente la cosa.
E per farti ancora una confessione, aggiungo che pochi giorni fa, avendomi detto un toscano: - Gli è tutto un figurarselo; quando sarai là non ti parrà niente - io osservai tra [192] me che se avessi dovuto esprimere lì per lì quell'idea, non avrei saputo dire altrimenti che: - la tua immaginazione t'ingrandisce la cosa -; che non è solamente più lungo, ma meno famigliare, e quasi comicamente solenne nel parlare fra amici.
*
V'è un gran numero d'altri modi abbreviativi, usatissimi in Toscana, che noi non usiamo, come: - anno, per l'anno passato; sabato notte, per esempio, per nella notte di sabato; a buio (stasera a buio sarò qui); di levata (fare una cosa di levata, ossia, appena scesi da letto); fare un'usciata, una finestrata, per isbattere l'uscio o la finestra in faccia a uno.
E vedi il significato della parola aria, che tien luogo di più parole, negli esempi: - gli volevo parlare di quell'affare; ma vidi che non era aria; - oggi non è aria; lasciatemi stare -; e la brevità efficace dell'espressione: - una casa a uscio e tetto - per dire una casa bassa, che ha soltanto il pian terreno; e della parola riesci - è un riesci - per dire una cosa che imprendiamo a fare senza deliberato proposito e studio precedente, e che non sappiamo se riuscirà bene o male.
E nota negli esempi: - mettere delle frutte sul cassettone per bellezza -, sapere una cosa di rimbalzo -, non verrà certo, ma se per impossibile egli venisse....
- se ti riuscirebbe d'esprimere con eguale evidenza, non usando più di due parole, l'idea che quei tre modi esprimono.
E ora una filza di vocaboli, ciascuno dei quali ne fa risparmiare parecchi.
Cimiciaio, una casa o un mobile pieno di cimici.
- Birbonaio, [195] un covo di birboni.
- Ladronaia.
(Quell'Amministrazione è diventata una ladronaia).
- Serpaio, viperaio, un luogo pieno di serpi o di vipere.
- Scannatoio, una trattoria, un albergo, dove si pelano gli avventori.
E ti potrei anche citare, come vocaboli ai quali ne sostituiamo quasi sempre più d'uno: - Frasconaia (per traslato, ornamenti e addobbi eccessivi e senz'ordine: d'una sala e anche d'una donna, che si metta troppa roba in capo).
- Frascume (ornamenti vani d'opere d'arte, e anche di stile).
- Tritume (soverchia quantità, varietà e minuziosità di parti o membri in opera d'architettura, o anche di pittura).
- Rifrittume (lavoro composto di cose dette e ridette da molti, e anche dall'autore stesso).
- Grinzume, una quantità di grinze considerate insieme, o d'un viso o d'un vestito.
- Vietume, roba vieta.
E per finire con qualche cosa di fresco: fiorita di neve, un modo graziosissimo, col quale possiamo far di meno di dire: uno strato leggerissimo, o anche più lungamente: tanta neve che ricopra appena il terreno.
*
V'è poi un ordine di vocaboli (più ricco nella nostra, credo, che in ogni altra lingua) ai quali noi sostituiamo quasi sempre una definizione, che rallenta il discorso e rende con meno immediata evidenza l'idea.
Ne feci già un cenno nella Corsa nel vocabolario.
Sono vocaboli che significano l'indole e l'aspetto d'una persona, certi difetti e vizi e abiti fisici e morali, e modi d'essere, di moversi, di fare, di vivere.
Te ne metto sotto gli occhi una serie, di cui la [196] maggior parte non richiede spiegazione, e che son non di meno d'uso rarissimo fra noi.
Sono come tanti piccoli ritratti chiusi in una parola.
Abbacone - Abbaione - Almanaccone - Annaspone - Badalone - Baione - Baffone - Barbuglione - Belone - Biascicone - Boccalone - Brodolone - Cabalone - Ciabattone - Ciaccione - Ciampicone - Ciarpone - Cincischione - Ciondolone - Combriccolone - Dimenticone - Dondolone - Ficcone - Fiottone - Fracassone - Frittellone - Gamberone - Gingillone - Gonfione - Gracchione - Impiccione - Lanternone - Lasagnone - Leccone - Lezzone - Machione - Massiccione - Nappone - Ninnolone - Nonnone - Pataccone - Pecorone - Pencolone - Piaccione - Picchione - Pigolone - Praticone - Perticone - Raggirone - Sbracione - Sbraitone - Sbrendolone - Scioperone - Sgomentone - Soppiattone - Spilungone - Squarcione - Tatticone - Tenerone - Tentennone - Appiccichino - Attacchino - Attizzino - Cicalino - Ficchino - Frucchino - Frustino - Galoppino - Gambino - Girandolino - Lecchino - Rabattino - Pepino - Stillino - Tritino - Ferraccio - Falcaccio - Lamaccia - Annaspo - Scricciolo - Reciticcio.
Considera quanto di frequente, parlando o scrivendo, occorre di definire o di descrivere o d'accennare di volo qualche particolarità fisica o morale d'una persona, e comprenderai come dal fatto di non conoscere i vocaboli citati, o di non averli alla mano, o di non volerli usare per timore che altri non gl'intenda, si sia costretti ogni momento a dir molte parole che si [197] potrebbero risparmiare, con l'aggiunta d'esprimere stentatamente e male la nostra idea, e quasi sempre con minor effetto comico di quello che vorremmo ottenere.
Mi sono diffuso alquanto su quest'argomento perchè nell'arte del parlare e dello scrivere è d'importanza primissima il precetto del poeta: - Sii breve ed arguto.
- So che a me tu potresti dire: - Da che pulpiti! - E avresti ragione.
Ma non badare al mio; bada al pulpito del Parini.
[198]
DELL'UTILITÀ DI STUDIAR LE DEFINIZIONI.
Per imparare a esprimersi con brevità credo molto utile il fare uno studio attento, così negli scrittori come nei dizionari, delle definizioni; nelle quali, oltre che la proprietà e la finezza dei termini, si suol trovare la maggior parsimonia possibile di parole, che è condizione necessaria della loro semplicità ed evidenza.
Nel dizionario in special modo, consistendo le definizioni di molte cose nell'indicazione di tutte le parti che le compongono, tu non imparerai soltanto la brevità, ma un gran numero di vocaboli; la cui ignoranza appunto costituisce la maggior difficoltà che noi troviamo quasi sempre a definire e a descrivere un oggetto qualsiasi.
Ecco, per esempio, alcune definizioni, ricavate da dizionari diversi.
ARPA.
- Strumento di molte corde di minugia, di figura triangolare, senza fondo; di cui tre sono le parti principali: il corpo, la colonna e l'arco: nel corpo, corredato d'animella o sordina sta la risonanza dello strumento; nell'arco i [199] pironi di ferro, e i semituoni cui sono raccomandate le corde; la colonna è quel ritto che collega l'arco ed il corpo.
BATTARELLA.
- Quell'arresto, che essendo imperniato ad un'estremità, punta con l'altra contro il dente d'una ruota che tende a girare in una direzione, mentre, lasciandone liberamente passare i denti, le permette di girare quando si muove per il verso contrario.
INFINESTRATURA.
- Foglio di carta tagliato in quadro, con vano quadro in mezzo a uso d'un telaio di finestra, dentro a cui s'appicca un foglio guasto nei margini.
GRADINA.
- Ferro piano a foggia di scarpello, alquanto più sottile del calcagnolo o dente di cane, e serve per andar lavorando con gentilezza le statue, dopo aver adoperato la subbia e il calcagnuolo.
LACCIAIA.
- Lunga fune a cappio scorsoio che i bútteri portan seco e che a un bisogno acciambellandola e sfilandola verso una mandria accalappiano con essa la bestia che loro piace.
RIBALTA.
- Piano della scrivania sul quale si scrive e che è mobile nei maschietti per poterlo alzare, abbassare e chiudere, oppure quell'asse girevole sui pernietti che s'adatta lungo la batteria dei lumi in un teatro.
STAME.
- Parte fecondante della pianta contornata dal calice o dalla corolla, o da entrambi, che è per lo più della figura d'un filo, il quale è detto filamento, e terminato da un globo, o borsetta, che dicesi ántera, e che contiene la farina o polvere fecondante, la quale è detta pòlline.
Bastano questi esempi, credo, a dimostrare quanto possa esser utile leggere attentamente [200] le definizioni.
E se te ne vuoi meglio persuadere, prova a mandarne a mente parecchie, e poi a definire di tuo qualche oggetto complesso, come per far capire e vedere che cosa sia a chi non lo conosca, e vedrai come per effetto di quel breve studio ti riuscirà più facile dare alla definizione un giro di frase agile, collegare in un nodo stretto i particolari e ottener con l'ordine la chiarezza.
Perchè vi sono operazioni della mente, anche nell'arte della parola, alle quali ci addestriamo con facilità mirabile, come a certi esercizi fisici, che ci riescono alla prima difficilissimi per il solo fatto che non li abbiamo mai tentati.
[201]
IL DIZIONARIO DEI SINONIMI.
Dice Beniamino Franklin che chi insegna a un giovane a farsi la barba da sè gli fa un maggior vantaggio che se gli regalasse mille lire.
Ebbene, s'io riuscissi a farti studiare il Dizionario dei sinonimi del Tommaseo, stimerei d'averti regalato un podere: nel regno della letteratura, intendiamoci.
Chi studia la lingua lo dovrebbe tener sempre sul tavolino, come un prete il Breviario, per leggerne e rileggerne qualche pagina ogni giorno, e consultarlo a ogni tratto; perchè ad imparare a scrivere e a parlare con proprietà e con esattezza, a dar contorno fermo e netto all'espressione del proprio pensiero e a rendere di questo tutte le flessioni e le sfumature, non c'è lavoro più utile che l'esercitarsi a "discernere le più piccole gradazioni di significato delle parole, a adagiare l'una voce sull'altra, per vedere dove combacino, dove no, dove sia maggiore il rilievo, dove più delicati i contorni, e a trovar parole così sottili e così calzanti che rendano con evidenza le differenze più tenui, senza ingrossarle." Questo lavoro fece mirabilmente su [202] migliaia di vocaboli Niccolò Tommaseo, nel suo Dizionario pieno d'ingegno e di dottrina, d'arte e di vita, altrettanto dilettevole quanto profondo, e riboccante d'ogni maniera d'insegnamenti, non solamente filologici, ma morali, filosofici, estetici: un libro d'oro, al quale è titolo troppo modesto quello di dizionario.
Leggilo, mio giovane amico, e rileggilo a brevi tratti, pensandovi su.
Non ti sarà solo un vital nutrimento allo spirito; ma una ginnastica intellettuale che ti farà più forti, più acute, più agili tutte le facoltà della mente.
Tu ci troverai espresse mille idee e facce d'idee, sentimenti e modificazioni di sentimenti, e aspetti e proprietà e qualità intime di cose, che ora sono confuse nella tua mente e nel tuo animo, e di cui cerchi invano l'espressione, come inseguendola tentoni nella nebbia.
E imparerai a scrutare il significato d'ogni parola come si scruta un'anima; a scoprire sotto ogni idea un'altra idea, ordini interi d'idee; a chiarire, a distinguere, a separare una quantità di concetti e di sentimenti, che sono ora nascosti nella tua mente sotto un solo vocabolo, col quale tu li mescoli e li designi tutti insieme come un mucchio di cose uniformi.
E non soltanto quella lettura "ti raddrizzerà l'espressione di molte idee, ma le idee medesime." Imparerai non solo ad esprimere, ma a pensare profondamente, sottilmente, nettamente.
Quante parole t'accorgerai d'aver usate finora e udito usare dai più in un significato che non hanno, o che del loro significato vero non è che un'ombra! Di quant'altre parole e frasi che ora ti vengono ogni momento sulla bocca e sotto la penna, moleste come ripetizioni obbligate, e di cui ti [203] riesce molesta la ripetizione anche nei discorsi e negli scritti altrui, t'avvedrai che le ripeti e che tutti le ripetono, non perchè siano inevitabili, ma perchè tu e gli altri le usate ad esprimere gradazioni diverse d'un'idea o d'un sentimento, ciascuna delle quali dovrebb'essere espressa in un'altra forma, e la forma c'è, e nessuno l'adopera! E come di questa benedetta lingua, che tu dici ricca, varia, delicata, potente, più per consuetudine che per coscienza, ti apparirà moltiplicata la ricchezza, più maravigliosa la varietà, più squisita la finezza, ingigantita la potenza!
Certo, ti sarà impossibile ritenere a mente tutte quelle innumerevoli e fini distinzioni fra i significati dei vocaboli; benchè la maggior parte di esse siano spiegate con magistrale chiarezza e illustrate da esempi efficacissimi.
Ma il vantaggio massimo che ricaverai da questo studio, non sarà nella tua memoria: lo riconoscerai nel sentimento della lingua raffinato, nella facoltà del discernimento acuita, nella consuetudine che avrai acquistata di cercare e ponderare il significato d'ogni parola prima di buttarla sulla carta, di raffrontare una locuzione con l'altra, di provarne parecchie al tuo pensiero per vestirgli quella che più gli conviene, di diffidare cautamente delle apparenze di sinonimia che di continuo ci si presentano, e da cui ci lasciamo ogni momento ingannare.
Ti parrà dopo un mese di non aver cavato da quella lettura che un profitto di poco conto, o anche nullo.
Ma se, dopo aver letto e pensato qualche centinaio di quelle pagine, dove lo scrittore, esercitando le facoltà più delicate della mente, affronta e vince a ogni periodo le più terribili difficoltà del linguaggio, [204] che son quelle dell'analisi, della distinzione, della definizione, ti proverai a scrivere sopra un argomento comune, tu esperimenterai nel raccontare, nel descrivere, nel ragionare, una facilità nuova, un senso di scioltezza, di sicurezza, di padronanza delle tue facoltà e delle tue mosse, simile a quello che prova a camminare sur una via larga, piana e libera chi sia andato un pezzo per un sentiero erto e stretto e pieno d'inciampi, con un precipizio da lato.
La tua mente si sarà addestrata a veder le varie sembianze d'ogni idea con uno sguardo rapido e avvolgente, a penetrarvi in fondo, a passare in rassegna alla lesta i diversi modi di significarla, e a cogliere sull'atto il migliore; e non soltanto nel maneggio della lingua risentirai il vantaggio, e nella cresciuta attitudine ad analizzarla, e nel più forte amore che avrai per essa; ma alla scuola dell'autore che insieme con le parole analizza passioni, azioni, usi, costumi, caratteri, ti sarai avvezzato a meditar sopra ogni cosa, e studierai nella lingua l'anima umana, la vita, la natura, e qualche volta dirai tu pure col maestro che ti par di sentire in questo studio il verbo di Dio.
Libro preziosissimo; leggendo il quale ti sentirai prima compreso d'ammirazione, e poi di reverenza e di gratitudine per lo scrittore che fece della lingua della tua patria uno studio così amoroso e profondo, e per trasmetterne ai giovani la cognizione e l'amore, un lavoro così poderoso e variamente utile e bello; e di pagina in pagina ingrandirà davanti ai tuoi occhi e ti sarà eccitamento via via più forte e più caro a perseverar nello studio, l'immagine del vecchio venerabile,
d'occhi cieco e divin raggio di mente.
[205]
SCRUPOLINO.
I sinonimi erano una delle molte afflizioni della sua vita.
Lo conobbi a Firenze.
Era un impiegato della Prefettura, nato e cresciuto
Là dove Italia boreal diventa,
già vicino alla trentina; ma così smilzo, e sprovvisto d'ogni onor del mento, e d'indole così timida, che pareva ancora un adolescente.
Si dilettava di letteratura, leggeva molto e non mancava d'ingegno; ma era affetto d'una malattia incurabile: il terrore della lingua italiana.
Aveva della difficoltà dell'idioma gentile un concetto così smisurato, gl'incuteva un così grande sgomento il fantasma della Grammatica, che, parlando, impuntava a ogni tratto, e balbettava come uno scolaretto agli esami, assalito da mille dubbi, turbato da mille scrupoli; dai quali non riusciva a liberarsi nè sull'atto nè poi, e se ne disperava.
Anche nel crocchio degli amici soliti, ma tanto più se c'era qualche toscano colto, o chiunque altro, che avesse reputazione di parlar bene, e [206] non gli fosse famigliare, gli si vedeva in viso la preparazione mentale faticosa e piena d'incertezze ch'egli faceva d'ogni periodo o frase che volesse dire; e quando poi si risolveva a parlare, usava ogni specie di cautele e di formole attenuanti, come: - sto per dire, direi quasi, la parola non sarà di Crusca, mi si passi l'espressione; - e qualche volta arrossiva a un tratto, e restava in tronco.
Con questo o con quell'amico, poi, a quattr'occhi, sfogava il suo dispetto contro la lingua e contro sè stesso, e gli confidava i dubbi e i timori che lo perseguitavano di continuo come un nuvolo di vespe.
Si doveva dire a un uomo lei è buono o lei è buona? Vacci o vavvi? Credo che tu sii o che tu sia? Lo trattò come se fosse uno sconosciuto o come se fosse stato? Ha fatto la tal cosa di nascosto di o da o al tale? Ho antipatia per o con o verso o contro una persona? Come Dio benedetto s'ha da dire?
E non serviva dirgli i modi che i "buoni parlanti" usavano, e consigliargli di fissarseli una volta per sempre nel cervello, e d'attenersi a quelli immutabilmente; senza di che non sarebbe guarito mai della sua malattia.
Se in un libro di scrittore autorevole gli accadeva di leggere un modo diverso da quello generalmente usato (cosa troppo facile in Italia, pur troppo), il dubbio gli rampollava da capo.
- Questa maledetta lingua italiana - diceva - è una disperazione.
Preferirei di studiare il cinese.
- Ogni giorno gli saltava su un dubbio nuovo, anzi un nuovo ordine di dubbi e di scrupoli: sul fra o tra, sul lì o là, qui o qua, costì o costà; sull'uso degli ausiliari essere o avere con certi verbi; [207] sulla collocazione dei pronomi personali che non sapeva mai dove mettere, e che spesso gli restavano in mano.
A volte fermava un amico per la strada, e gli domandava di punto in bianco: - Si dice: lo dissi loro o loro lo dissi? - E quando un amico, del quale avesse stima in materia di lingua, a uno dei suoi quesiti si mostrava perplesso: - Ah! vedi - esclamava in tono di trionfo - vedi se non ho ragione! È una lingua terribile, terribile, terribile.
Per questo suo perpetuo "scrupoleggiare" gli s'era affibbiato il soprannome di Scrupolino, di cui non s'aveva per male; ma nemmeno ne rideva, perchè la parola designava un'infermità mentale, della quale egli aveva coscienza e vergogna.
A furia di porre quesiti a sè stesso finiva con dubitare anche della legittimità delle parole e delle locuzioni più usuali, e in certi momenti di sconforto esclamava: - Io non so più parlare! Io finirò col non più parlare!
Qualche volta cercavamo di persuaderlo, sul serio.
- Vedi - gli si diceva - tu hai tanta difficoltà di parlare perchè non parli, componi.
Non devi comporre.
Ti devi gettare a nuoto nel discorso, arditamente; lasciarti andare all'ispirazione, alla dettatura dell'orecchio, non badando a regole, dimenticando ogni studio.
Volendo esaminare e scegliere le parole, come fai, così con la fretta, per non far aspettare, e col timore di seccare chi ascolta, ti confondi, e scegli quasi sempre male, o non trovi, e resti lì, impaniato.
Prova un po' a parlare come vien viene.
- Ma egli stava un po' pensando, e poi rispondeva, scrollando il capo: - È inutile, non [208] posso; le parole e le regole battagliano nel mio capo come i Deputati nel Parlamento.
- Ed era vero.
A quando a quando si provava a parlar libero; ma subito gli spettri dell'Improprietà, dell'Impurità, dell'Idiotismo, il fantasma formidabile della Lingua Italiana gli si rizzavano dinanzi, ed egli era perduto.
A poco a poco il tarlo del dubbio gli era risalito, come sempre avviene, dalla lingua alla radice del pensiero, per modo che anche lo scrivere la più semplice lettera diventava per lui un affare di Stato.
Egli mi fece la confessione d'uno di questi casi, al quale tutti gli altri rassomigliavano, e che è un esempio dell'impotenza intellettuale a cui può condurre l'esercizio della critica sopra sè stessi, quando non è tenuta nella giusta misura.
Si trattava d'una breve lettera di condoglianza.
- Stimatissimo signore, gradisca le mie condoglianze.
- No.
Come si fa ad associare l'idea del gradimento con quella d'una sventura? - Le mando le mie condoglianze.
- Come si manda un pacco! E poi è troppo famigliare.
- Le faccio....
- Ma non è troppo materiale per l'espressione d'un sentimento? E si dice faccio una condoglianza, o non confondo col modo fare un complimento, che dei due è il solo corretto? - Riceva le mie....
- Oh bella! Se glie le mando, bisogna ben che le riceva: è ridicolo.
- Abbia, dunque....
Ma quest'imperativo è sgarbato.
E via così per tutto il resto.
Sette righe gli costavano i sette dolori.
E finiva sempre col ritornello: - È terribile! - Un giorno mi venne incontro in via Calzaioli agitando un giornale, e me lo mise sotto gli occhi, dicendo: - Leggi qua.
- Era [209] una Conversazione del giovedì, nella quale Giuseppe Civinini, che per lui era il principe dei giornalisti e dei critici, diceva che la lingua italiana era una delle meno parlate e delle più difficili lingue d'Europa.
- Hai inteso? - quasi gridò - e lo dice uno scrittore di quella forza! Non c'è da dar l'anima al diavolo? Io vorrei esser nato in Lapponia!
Uno dei più molesti argomenti di dubbio e di confusione era per lui l'uso del lei e dell'ella, fra cui si trovava ogni momento come tra il martello e l'incudine.
Gli dicevano: - Di' come i fiorentini.
- Ma questi scellerati - rispondeva - dicono un po' l'uno e un po' l'altro.
Che regola ci si può cavare, che Dio li confonda! - E con gente ch'egli praticasse, tanto e tanto si lasciava andare al lei; ma con persone a cui parlasse la prima volta, e che gli mettessero un po' di suggezione, non c'era verso: il lei gli veniva sulle labbra, ma se lo rimangiava, e metteva fuori l'ella a proprio dispetto, e lo sosteneva nel discorso a prezzo di qualunque sforzo e sacrificio della naturalezza e dell'armonia, anche facendo rider gli amici, pur di salvare la Grammatica sacra.
Appunto per la gran paura di non parlar bene, gli toccò un giorno a inghiottire un boccone amaro, che gli restò sullo stomaco un pezzo.
Andando insieme a Prato, ci trovammo nel vagone con un ragazzo e un giovinetto toscani, fratelli, di viso intelligente e vivo tutt'e due; i quali scherzavano argutamente a ogni proposito, e rammentavano spesso il babbo, che li doveva aspettare all'arrivo.
Allettato dalla loro allegrezza, l'amico Scrupolino sentì desiderio [210] d'attaccar conversazione, e a un certo punto domandò cortesemente al maggiore: - E dove, se è lecito....
dove vanno...?
Stava per dir loro; ma m'accorsi che non osò, e ripetè: - Dove vanno....
elleno?
I due toscanelli fini si scambiarono un'occhiatina e un sorriso, e il maggiore, prendendo baldanza dalla timidità dell'interrogante, rispose con malizia: - Dove andiamo noi, ci domanda?...
A Bologna.
E il mio amico, un po' confuso: - E....
a Bologna, mi par d'aver inteso, li aspetta il loro....
genitore?
Il giovinetto sbirciò un'altra volta il fratello, e poi rispose con un leggerissimo sorriso burlesco: - Sì, l'autore dei nostri giorni.
Scrupolino sentì la puntura, arrossì un poco, e non aggiunse altro.
Quando scendemmo dal treno, scattò: - Hai sentito quell'impertinente? Avrebbe meritato una lezione.
È inutile.
Io non dovrei più parlare italiano.
Mi darei degli schiaffi, come è vero Dio.
Ebbene (e tirò un pugno nell'aria) non parlerò più, e ogni cosa è finita.
Tu ridi!...
Ma è terribile.
Ma fatti pochi passi pensandoci fermò, e mi domandò a mezza voce, timidamente: - Ogni cosa....
è neutro o femminino?
[211]
APOLOGIA DEL PEGGIORATIVO.
Eccomi qua, signorino.
Sono il sor Accio, peggiorativo di professione, vecchio come il primo topo; ma sempre sano e pien di vita come un ragazzo.
Non si sgomenti della mia faccia burbera e della mia voce grossa, chè sono un buon diavolaccio in fondo, nonostante la mia reputazione di persona grossolana, e benchè di solito si pronunzi il mio nome sporgendo il labbro di sotto in atto di disprezzo.
Vero è che io servo quasi sempre a esprimere sentimenti di disistima e d'avversione, a sparlare del prossimo e a definir cose brutte e sgradite; ma, insomma, sono utile, perchè avversione e disistima sono ben sovente sentimenti onesti, e dir male di certa gente è dovere di coscienza, e sono mai tante le cose brutte e sgradite che gli uomini sono costretti a rammentare! E appunto perchè ho coscienza d'esser utile, mi fo lecito di offrirle i miei servizi, e di farle, modestamente, una lezioncina di lingua.
Perchè, parlando e scrivendo, ella si serve così raramente di me? Eppure io servo a dir molte cose, che non si possono dir bene se non per mezzo mio.
Di molte idee accorcio [212] l'espressione; di certi sentimenti significo io solo certe sfumature che altrimenti non si saprebbero rendere; a molte parole do un particolare senso comico che per sè sole esse non hanno; e a chi esprime un giusto sentimento di disprezzo o di sdegno, il mio suono stesso dà un certo qual senso di sodisfazione, che nessun'altra parola gli darebbe, poichè è un suono largo e forte, che gli riempie la bocca e gli fa stringere i denti, non è vero? il suono come d'una palmata vigorosa, che pianti ben salda e ribadisca l'idea.
O perchè non si serve qualche volta di me quando vuol dire, per esempio: una trista idea, una mala giornata, una mossa o un'entrata o un'uscita villana, una cattiva ragione, un cattivo partito, una cattiva pratica, una brutta cera o un brutto momento? Perchè, invece di usare due parole o una perifrasi, non dice invece: - Questa è un'ideaccia - Oggi è una giornataccia - Il tale m'ha fatto una mossaccia, un'entrataccia, un'uscitaccia - Codesta che tu adduci è una ragionaccia - Ha trovato marito; ma è un partitaccio - Quel giovane si mette male; ha delle praticacce - Il tale oggi si deve sentir male; ha una ceraccia - Se càpita ora quel poco di buono, mi piglia in un momentaccio -? Non esprimerebbe la sua idea con maggior brevità e con po' più forza? E se per dire che un tale d'una cert'arte, ufficio o mestiere ha una certa pratica, ma affatto materiale, senza alcun lume di scienza, o che un impertinente l'ha messo al punto di fare uno sproposito, o che un trivialone di sua conoscenza ha mangiato come un bufalo, dormito come un ghiro e tenuto dei discorsi indecenti, ella dicesse: - Non [213] ha che una certa praticaccia - m'ha messo a un puntaccio - ha fatto una mangiataccia, una dormitaccia, dei discorsacci, - non direbbe la cosa più alla svelta e con più vigore d'espressione?
E non son mica grossolano come posso parere a primo aspetto, chè nel graduare o colorire il significato delle parole ho io pure le mie industrie e le mie finezze.
Fare una levataccia, per esempio, non significa soltanto: levarsi più presto del solito; ma dice anche la violenza che si fa alla propria pigrizia, e il rincrescimento del farla.
Fare una partaccia a uno non vuol dir solo fargli un rimprovero acerbo, o, famigliarmente, una lavata di testa, ma anche usare, facendogliela, aspre parole.
Dicendo che uno ha un talentaccio, un ingegnaccio, si dice che ha molto talento, molto ingegno, ma in qualche lato manchevole, o poco ordinato, o non usato sempre degnamente: non si direbbe del Manzoni o del Carducci.
Poveraccio! esprime una sfumatura di compassione o di pietà, che non si può sentire od esprimere riguardo a persone che ispirano reverenza: ella può dire poverino o poveretto, ma non poveraccio, di suo padre.
Nell'espressione: un uomo fatto all'anticaccia, v'è una leggiera intenzione di canzonatura che non è in fatto all'antica.
E con librucciaccio ella dice un libro non soltanto meschino nella forma (chè libruccio significa meschino nella forma più che nella sostanza) e non solo di poco pregio nella sostanza, ma anche in questa rozzo e cattivo.
E s'ella dice che un tale fa il comodaccio suo, dice che fa il suo comodo con particolare indiscrezione e noncuranza del comodo altrui e del dovere proprio.
Vede quante piccole cose, quante [214] minute diversità e graduazioni di idee io servo a dire e determinare!
E poi, ho stampato tante parole di forte rilievo e di color vivo e gaio, a cui nessun'altra equivale! Veda un po' queste.
Di un lavoro duro e misero, che dia appena da vivere: - È un panaccio.
- Mangiare un panaccio arrabbiato.
- Non t'immischiare con colui: è un arnesaccio, è robaccia.
- S'è preso un cosaccio d'avvocato, che gli mangerà fin l'ultimo soldo.
- Mi tocca a far certe facciacce per cagion sua! - S'è presentato con un pajaccio di scarpe rotte.
- O figliaccio e po' d'un cane! - E veda come servo anche a dare il fatto suo a un indegno, così di sbieco, senza parere: - L'hanno fatto cavaliere l'altro giornaccio, o uno di questi giornacci lo faranno.
- Non è una bellezza? E non finirei più! Ma le dico ancor questa: che servo io solo, in Toscana, senz'essere appiccicato ad altra parola, a definire una persona: - È un ragazzo accio, ma accio bene; è un farabutto, ma di quegli acci; - o sono adoperato tre volte per rincarare la dose: - È un malandrinaccio....
accio, accio, accio.
- E, in fine, m'accecherà l'orgoglio; ma io penso che uno scrittore che non sa giovarsi del fatto mio, o che mi trascura o mi disprezza, non può essere che uno scrittore da un tanto il mazzo.
E me ne scappo, perchè vedo avvicinarsi un tale, un giovincello sdolcinato, con cui non me la dico, e non mi posso trovare insieme.
La lascio con lui, che cercherà di rivogarle la sua mercanzia.
Ma ritornerò.
A rivederci a presto, e si guardi da un'indigestione di zuccherini.
[215]
APOLOGIA DEL DIMINUTIVO.
Giovanettino, ti saluto.
Io sono il diminutivo...
Comprendo il tuo sorriso; ma non mo ne risento, perchè sono un buon figliuolo.
Da qualcuno tu avrai inteso dir corna di me, e sei mal prevenuto a mio riguardo.
T'avranno detto che sono uno sdolcinato stucchevole, che stempero le parole e snervo la lingua, empiendola di lezi femminei e di vezzi bambineschi.
Ma tu non devi dar retta a costoro: gente di grossa pasta, che non mi capisce e non mi sente.
Io son modesto di natura, e non per vanagloria, lo puoi credere, ti affermo che chi mi maltratta o per ignoranza o per rozzezza d'animo, chi non ha famigliarità con le mie forme innumerevoli e le tiene in conto di vane frasche, non può saper quanto è ricca, quanto è flessibile, quant'è dolce la lingua della sua patria.
Cascano nella leziosaggine e ristuccano, non c'è dubbio, tutti coloro che abusano di me, appiccicandomi a cinque parole su dieci, che dicono a un modo bellino e carino un fiore e un campanile, un bambino e una montagna, che non possono [216] esprimere un'idea senza rimpicciolirla alla misura della loro animetta, un sentimento senza indolcirlo fino alla nausea, col giulebbe che hanno nelle vene invece del sangue.
Ma, usato con discernimento da chi ha intelletto e gusto fine, io compio nella lingua un ufficio nobile e utile; io do alla parola gentilezza e grazia e soavità di suono e sapore di scherzo garbato e cento significati delicatissimi d'affetto, di pietà, di simpatia, d'indulgenza; io attenuo e scuso colpe ed errori di persone care, velo infermità e deformità d'infelici, esprimo quanto vi è di più tenero nel cuore delle madri e degli amanti, rendo tutte le più delicate gradazioni della bellezza e delle virtù gentili e dei sensi ch'esse ispirano; e addolcisco il rimprovero, e spunto l'offesa, e accarezzo e compiango e conforto.
E non vezzeggio alla cieca ogni cosa, come afferma chi non m'intende o mi calunnia; ma dico anche verità sgradite a chi in altra forma non le vorrebbe udire, e faccio atto di giustizia temperando la lode eccessiva, restringendo il concetto ingiustamente ingrandito di molte cose, mettendo un'ombra di rampogna, quando occorre, anche nell'espressione della pietà e dell'affetto.
Non vezzeggio soltanto; ma definisco, distinguo, dipingo, scolpisco ed illumino.
E non è la mia vanità, è la voce universale che mi chiama una bellezza e un privilegio della lingua italiana.
Imita dunque la gentilezza di chi, volendo designare un piccolo infelice, di cui non sa il nome, e sentendo che nel modo il piccolo storpiato non suona la pietà, dice - lo storpiatino -, come chiama loschina una ragazza losca, e [217] dicendo d'un'altra che ha la bazza, fa intendere insieme ch'ella ha qualche cosa di grazioso, che quasi fa piacere il difetto, chiamandola: - Una bazzina.
- Ecco la bazzina.
- È una bazzina, bionda, piena di vita.
- E dicendo d'una giovinetta o d'una bimba: boriosina, invece di: un po' boriosa, farai comprender meglio che, pure avendo quel difetto, non ha animo cattivo.
E se chiamerai un'altra: beatina, dirai, come non potresti meglio, ch'essa è devota alle pratiche del culto, ma non pinzochera, e che il sentimento religioso in lei è gentilezza.
E quando vorrai dire che una donna ha un carattere alquanto astioso, tu potrai chiamarla astiosina, senz'offenderla; ciò che non ti riuscirebbe nè premettendo un po' all'aggettivo, nè con altra parola attenuante.
Ma è l'affetto, è il sentimento della delicatezza che suggerisce a chi parla le mie forme più gentili; esse non si cercano, vengon via spontanee, come certe inflessioni carezzevoli della voce.
Senti le mamme del popolo, in Toscana.
Chiamano maggiorino il maggiore dei loro figliuoli piccoli.
Dicono vergognosina una bimba timida, e magari anche un po' selvatica.
Non chiameranno un loro bimbo: spersonito o malsano, ma stentino, e per non dir gracile, diranno: - È così minutino, ma sano, - e per non dire d'una ragazza che è di complessione delicata, diranno: gentilina; e capacino, per modestia, d'un ragazzino intelligente o bravo in qualunque cosa.
- Ammodino, ragazzi! - dicono spesso, invece di: ammodo, per addolcire l'avvertimento.
Tu potresti urtare il loro amor proprio dicendo che un loro [218] figliuoletto ha già le sue malizie; non l'urteresti dicendo che ha le sue malizine; che esprime l'idea d'un accorgimento fine meglio che quella dell'astuzia.
E così, se vorranno dirti che un loro bimbo è schifiltoso nel mangiare, te lo diranno con un'espressione graziosissima: - È tanto boccuccia, che è capace di rifiutarmi un piatto se ci trova un bruscolo.
- E dicono al pigretto che chiede una cosa: - Allunga il santo manino, e pìgliatela da te.
- E quante altre espressioni graziose ti potrei citare, fatte col mio conio! Di una piccola donna o ragazza seducente: - È una cosolina simpaticissima - Ha un'ideina che piace - Una camera raccoltina: non è significata nel diminutivo anche la piccolezza e quasi la giocondità della camera? E se uno ti dice: - A tastar per terra nel buio c'è il casetto di raccattare qualche cosa di spiacevole - non senti in quel casetto un sapor comico che ti fa sorridere? E se ti dice un altro che: - bisognerà aspettare un paietto d'ore -, non senti in questo diminutivo l'intenzione cortese d'abbreviare il tempo nel tuo concetto e di esortarti ad aver pazienza? Ma chi può noverare la varietà degli effetti ch'io posso ottenere? Anche l'attenuazione del peggiorativo! Sentirai dire nella campagna toscana, in val d'Elsa: - Animaccina! - che è come dar dell'animaccia a uno e chiedergli scusa ad un tempo, riconoscendo d'aver detto troppo.
Donnaccina! Dieci vocaboli ammontati, nota un filologo illustre, non saprebbero dire altrettanto.
E di annatina che i contadini toscani dicono qualche volta per "annataccia affamata" dice lo stesso filologo che v'è in quel diminutivo una mirabile [219] disposizione d'animo, la quale attenua il dolore e quasi ingentilisce il bisogno; e si sottintende: un sentimento di rassegnazione cristiana, per cui si vuol dire la cosa senza lagnarsi, per timor di Dio, che l'ha mandata.
Che potrei fare di più, mondo birbetta?
Sarai dunque persuaso, carino mio, che non è mia colpa se molti seccano il prossimo e mi fanno prendere in uggia con gl'ini, con gli etti, e con gli ucci; che è soltanto l'abuso e il mal uso che mi rendono indigesto; che il vizio non è in me, ma in chi mi violenta e mi snatura.
E lascia ch'io batta ancora su questo chiodo, facendoti considerare, per esempio, che se è proprio e grazioso il dire d'un ragazzo: ravviatino, ravversatino, ricciutino, fa venire il latte ai gomiti l'udirlo dire d'un uomo tanto fatto; che se è gentile il dire che una bimba è tutta pensierini per la sua mamma, è sdolcinato davvero il dir lo stesso d'un padre per la sua figliuola; e che è ridicolo il dire d'un barbuto impiegato postale, cortese col pubblico, che ha una manierina amabilissima, e che stonerebbe un ufficiale con la sciabola in pugno, che gridasse ai suoi soldati, chiamandoli alle file: - Fate prestino!
Giovati dunque di me, giovinetto, e dirai molte cose propriamente e con garbo e con arguzia; ma non mi chiamare in ballo troppo spesso, e, sopra tutto, non m'usare che quando calzo appunto al sentimento e all'idea.
Perchè io sono nella lingua come il sorriso sul volto umano.
Che c'è di più gradevole d'un sorriso gentile? Ma chi sorride a tutti, ogni momento e a qualunque proposito, è uno smanceroso che [220] viene a noia.
E qui fo punto.
Parto per un viaggio di propaganda nell'Italia nordica; ma ritornerò ogni tantino nel paese tuo, dove mi pare d'esser tenuto anche in minor conto che altrove.
Ricordati di me, e fa' spallucce ai tangheri che mi vorrebbero bandire dalla lingua: fratelli nati di quei padroni di casa villani, che in casa loro non vogliono nè bambini nè fiori.
[221]
LA LINGUA FAMIGLIARE.
Ho ricevuto in questi giorni....
Non è vero; non ho ricevuto niente.
Perchè fare una delle solite finzioni letterarie, che non ingannano nessuno? Ho scritto io a me medesimo, in nome d'una signora immaginaria, la lettera seguente, e confesso che l'ho scritta perchè mi faceva comodo, come riconoscerai dalla mia risposta, per la quale ti domando, in cambio della mia sincerità, un po' d'attenzione.
Al Signor tal dei tali,
M'hanno detto ch'Ella sta scrivendo un libro sul modo di studiar la lingua italiana.
Mi permetta di rivolgerle una preghiera.
Ella ebbe un giorno la cortesia di farmi una lode, la quale, spogliata del complimento dove era chiusa, voleva dire che delle signore di sua conoscenza non ero io quella che parlasse peggio.
Ebbene, poichè io mostro buone disposizioni, m'aiuti un poco.
Veda il caso mio.
Ho un'amica toscana, che è come una mia sorella.
Quando parlo italiano con l'altre mie amiche subalpine, son [222] sodisfatta di me, dal più al meno; ma da ogni conversazione con quella esco malcontenta del fatto mio, e anche un po' umiliata.
Mi dirà che la cosa è naturalissima.
Ma badi: non è ch'io m'accorga, parlando con quella signora, di mancar di parole e di frasi per esprimere il mio pensiero; chè, per esempio, quando tutt'e due parliamo d'arte o di letteratura con altri, non avverto quasi differenza fra me e lei, fuorchè nella pronunzia.
La differenza grande che ferisce il mio amor proprio è quella ch'io riconosco quando discorriamo a quattr'occhi liberamente, di cose comuni o intime, scherzando e facendoci confidenze a vicenda.
Io sento, allora, che non riesco a dare al mio discorso il colore di famigliarità, la vivezza, e, non so come dire altrimenti, la libera giocondità che è nel suo; e non capisco bene perchè non ci riesca.
Forse me lo saprà dir lei, e se mi facesse questo favore, gliene sarei grata, e se della risposta che darà a me facesse un capitolo per il suo libro, credo che renderebbe un servizio anche ad altri.
Mi perdoni....
È inutile far la chiusa a una lettera apocrifa, che è un semplice pretesto per far la
RISPOSTA.
Stimatissima Signora Subalpina,
Quello che segue a lei con la sua amica, segue a me coi miei amici toscani.
La nostra inferiorità nel parlar famigliare non sta che in minima parte nel giro diverso che si dà all'espressione del pensiero e nella minor ricchezza di vocaboli [223] che noi possediamo; perchè in questo non può esser grande la differenza fra un toscano e uno di noi, che abbia studiato la lingua; nella conversazione ordinaria in ispecie, la quale s'aggira quasi sempre sugli stessi argomenti, non molti, nè molto vari.
Consiste principalmente la loro superiorità in un gran numero di modi, non assolutamente necessari, ma propri più che altro del linguaggio parlato, comunissimi fra di loro, e da noi non conosciuti o non usati; che son quelli appunto che dànno al discorso quel colore di famigliarità, quella vivezza, quella libera giocondità, alla quale ella accenna.
Le citerò una serie di questi modi, attenendomi nella scelta alla mia esperienza, voglio dire a quelli ch'io sento spessissimo dai miei amici toscani, e che non uso mai, o quasi mai, nè parlando con loro, nè con altri, non perchè non li sappia, ma perchè ho più alla mano altri modi, di significato equivalente, ma meno famigliari e meno vivi, meno genuinamente italiani.
Essi sogliono dire, per esempio, e io non dico: - Niente niente ch'io parli, mi dà subito sulla voce.
- Di nulla nulla borbotta per un'ora.
- Punto punto ch'egli tardasse, non arrivava a tempo.
- Mi promise di non dir nulla; ma sotto sotto andò a dire....
- Alto alto mi toccò di quell'affare.
- A andar bene bene, ci guadagnerà cento lire.
- A andarmi male male, mi cacceranno di casa.
- Tanto tanto sarà costretto a dir di sì.
- Tant'è fermarsi qui che in un'altra parte.
- Quella pietra non è molto grande; ma per il suo tanto, è bella assai.
- Una rendituccia pur che sia, tanto quant'è nulla.
- Non mi piace più che tanto.
- Sciocco quanto ce n'entra.
- [224] Non lo guardo quant'è lungo.
- Tutt'a un tratto, per la strada, me lo trovai quanto di qui a lì....
Vedo che scrolla il capo.
Capisco.
Forse ella non si ricorda d'aver mai inteso dalla sua amica nessuno di quei modi.
Ma proseguiamo.
Può essere che le abbia inteso dire quest'altri, che nè lei nè io non usiamo: - Scambio di far questo, faccia quest'altro.
- Quest'accorciatura del vestito non basta; l'accorcerei dell'altro.
- Gli dissi, perchè non mi stèsse a seccar altro....
- Al vedere, non par che sia molto pentito.
- A come si mette la cosa, non c'è molto da sperare.
- A sprofondare (questo la sua amica non lo dirà, ma i miei toscani lo dicono), a farla grossa, a fare i conti grassi, è grassa se si guadagna le spese del viaggio.
- Come si fa a vedere un pezzo di giovine a quel modo a chieder l'elemosina? - Quando avete fatto bene, egli è il miglior medico della giornata.
- Oh, c'è che fare! (ci vuol ancora molto tempo).
- Voglio (riconosco, ammetto) che sia un lavoro difficile; ma egli va troppo per le lunghe.
- Fa delle grandi promesse; ma voltati in là, non si ricorda di nulla.
- Gran poco giudizio che tu sei a confonderti col tal dei tali! - Quando si dice! - È un gran dire ch'io non possa liberarmi da quel seccatore.
- So di molto io, m'importa di molto! - Non me ne importa il gran nulla, il bellissimo nulla.
- All'ultimo degli ultimi, al tempo dei tempi, al peggio dei peggi, in caso dei casi.
- Non sarebbe mica delle peggio andare a fare una gita a Superga.
- Non è dell'erba d'oggi (d'una persona non più giovane).
- Non è più d'oggi nè di ieri.
- Siamo a tocco e non tocco.
- Sono stato tutto il giorno col pover' a me....
- O cavaci un [225] numero, via! (Quando ci stizziamo di non capir di che umore uno sia)....
Credo ch'ella cominci a trovarsi d'accordo con me.
Ma andiamo innanzi.
Scommetterei che la sua amica dice qualche volta, e che lei non dice, com'io non dico mai: - Un bambino che mai il più bello.
- Una ragazza bella che mai.
- Si vogliono un bene che mai.
- I danari li ha bell'e bene, ma non li vuol spendere.
- Non ci si discorre (non si può parlare con quella tal persona).
- Qui che cosa ci dice? (Che cosa c'è scritto in questo punto?) - Ce lo divezzerò io (lo divezzerò io dal far questo o quell'altro).
- Vuol fare una bella nevata.
- È capace che piova.
- Quando il tempo è fatto bene, ha tempo a piovere! - Levandomi da letto, la prima cosa prendo il caffè.
- S'è montato il capo di diventare un gran che.
- Non me lo posso levare di torno.
- È lui, luissimo.
- L'hai veduto mai? Maissimo.
- E "perdoni" qui, e "mi scusi là" non fa altro che far cerimonie dalla mattina alla sera.
- E gonfia gonfia, non ci potei più stare.
- Neanche questo non lo dirà una signora; ma lo cito come un modo tipico d'altri molti famigliarissimi, che i toscani usano, e noi no; donde il nostro italiano meno famigliare del loro.
Usano essi ancora nel parlar famigliare un gran numero di modi che si potrebbero chiamar duplici o geminati; nei quali l'espressione dell'idea è ripetuta con un vocabolo sinonimo o affine o antitetico, sia per ribadire l'idea stessa, sia per far un contrapposto che le dia maggiore evidenza, sia per tondeggiare la locuzione, che suoni meglio all'orecchio, o, come si direbbe elegantemente, per cura del numero.
E questi modi [226] servono moltissimo a dar colore di famigliarità al discorso, quando non si confonda il famigliare col volgare; chè parecchi di essi cadono nella volgarità, o ci dànno accanto, e non li avrà certo uditi mai dalla sua amica.
- Cito alla rinfusa: - Essere d'accordo bene e meglio.
- Essere un paio e una coppia.
- Essere d'un pelo e d'una buccia, d'un pelo e d'una lana.
- Fare una cosa spesso e volentieri.
- Non aver nè garbo nè grazia.
- Non aver modo nè maniera.
- Averne da dare e da serbare.
- Non far nè uno nè due.
- Non aver nè colpa nè peccato.
- Far calze e scarpe d'una cosa.
- Esser fiori e baccelli con uno.
- Non voler nè tenere nè scorticare.
- Non dar nè in tinche nè in ceci.
- Costare il cuore e gli occhi.
- Mandar via uno segnato e benedetto.
- Non saper nè grado nè grazia.
- Una ne fa e una ne ficca.
- Di politica non ne vuol sentire nè cotto nè bruciaticcio.
- Non l'ho più visto nè cotto nè crudo.
- È lui in petto e persona.
- È una lingua che taglia e cuce, che taglia e fende, che taglia e fora.
- Dàgli e picchia, dàgli e tocca, dàgli e martella.
- In fine e in fatti.
- Nè così nè cosà.
- Non fa nè ficca.
- Non cresce nè crepa.
(Mi perdoni, signora).
E mi par che basti per un saggio.
Tutti questi modi, e quelli citati più sopra (di cui molti appartengono a tutti i dialetti, alcuni tali e quali, altri in forma poco dissimile) corrispondono per l'appunto nella lingua a certi gesti, atteggiamenti, sorrisi e inflessioni di voce, che noi usiamo soltanto con persone domestiche, nei quali consiste particolarmente quello che si chiama modo, contegno, tratto famigliare.
Certo, non sta in questo soltanto la superiorità che [227] hanno su noi i toscani nella conversazione ordinaria: sta in molt'altre cose che non è qui il luogo d'accennare; ma nel caso suo, signora, mi par che l'altre cose ci abbiano che fare assai meno di quella che mi sono ingegnato di dimostrarle.
Si tratta d'una parte della lingua che noi non sappiamo, o possediamo male, non avendola imparata nelle scuole, dove si bada più che altro alla lingua letteraria; ma che è forse più necessaria, o più utile di questa, perchè sono le persone famigliari, gli amici intimi quelli coi quali abbiamo più occasione e bisogno, nel corso della vita, di parlare e anche di scrivere, e di trattare di più varie cose, e più liberamente, e penetrando più addentro alle cose stesse.
E ora, signora mia....
Ma la signora ha fatto l'ufficio suo, e la possiamo accomiatare con una reverenza.
[228]
LA LINGUA FACETA.
Questa tu devi studiare in particolar modo se sei di natura tagliato al faceto, ossia inclinato a osservare e a rappresentare ad altri il lato ridicolo delle cose, e a esprimere molti dei tuoi pensieri, anche non lepidi in sè, in forma scherzosa; poichè per noi, che non abbiamo imparato la lingua dalla balia, non c'è cosa più difficile che scherzare con garbo e ottener con la parola l'effetto del riso.
Perchè sia difficile lo spiega con grande evidenza il Leopardi nei Pensieri che furono pubblicati dopo la sua morte; nei quali troverai un tesoro d'osservazioni acutissime sulla lingua italiana.
Egli dice che il ridicolo (per quanto si riferisce al linguaggio, non alla sostanza) "nasce da quella tal composizione di voci, da quell'equivoco, da quella tale allusione, da quel giocolino di parole, da quella tal parola appunto, di maniera che se sostituite una parola in cambio d'un'altra, il ridicolo svanisce".
Ora, per questa ragione appunto noi otteniamo [229] difficilmente il nostro intento nei discorsi faceti che facciamo in italiano: perchè ci manca la maggior parte di quelle parole e locuzioni, dalle quali nasce il ridicolo, e quasi sempre usiamo in luogo di quelle gli stessi modi che useremmo per dire sul serio le cose che diciamo per far ridere.
*
È una verità che non occorre di dimostrare.
L'avrai osservata molte volte tu stesso nei discorsi tuoi e in quelli degli altri.
Tu devi sentire alla prima qual maggior effetto comico si possa ottenere in certi casi dicendo invece di "tremar dal freddo": - batter la diana o pigliar le pispole; invece di "dar poco da mangiare a uno": tenergli alta la madia; invece di "ridurgli il vitto": alzargli la mangiatoia; invece di "non ha la testa a segno": gli va male l'oriolo; invece di "picchiare, dar lo busse a uno": pettinarlo, rosolarlo, tamburarlo, fargli una tamburata, dargli le croste o le paghe o le briscole.
- E senti che più facilmente farai ridere se invece di "scappare, indebitarsi, dire l'opposto di quello che s'è detto, far le occorrenze sue, tirar calci, andar tutto d'un pezzo e impettito" dirai: - spronar le scarpe, inchiodarsi, rivoltar la frittata, far gli offici di sotto, lavorar di pedate, aver mangiato la minestra o lo stufato di fusi.
- E non c'è bisogno di farti notare che diversità d'effetto comico corra fra le espressioni: un abito che "si comincia a scucire" e che comincia a fischiare; fra "abito lungo e largo o logoro o scarso o mal fatto" e palandrana, biracchio, paraguai, saltamindosso; [230] fra "brodo allungato" e brodo di carrucola, fra "cattiva minestra" e sbroscia o basoffia, fra "miseria" e trucia, "paura" e battisoffia, "cattivo quadro" e cerotto; "persona acciaccosa e di malumore" e deposito: - Andiamo a far visita a quel deposito del signor Gaudenzio! - Molte di queste parole e locuzioni sono ridicole per sè medesime, e bastano da sè in molti casi a destar l'ilarità, dove non gioverebbe a destarla un particolare o un'osservazione arguta aggiunta alla frase o alla descrizione e all'aneddoto.
*
Per dimostrarti quant'è ricca in questo campo la nostra lingua, ti cito ancora una serie di modi d'uso comune in Toscana, che noi non usiamo se non raramente; di alcuni dei quali è evidente il significato; e d'una parte degli altri lascerò che cerchi il significato tu stesso, perchè ti resti meglio impresso nella memoria.
- Affogare nel cappello, nelle scarpe, nel soprabito - Aver roba in corpo o in manica - Aver paglia in becco - Avere il baco (con qualcuno; avercela, senza dimostrarlo, o volerlo dimostrare) - Avere i bachi (essere inquieto o di malumore) - Aver famiglia in capo - Aver la fregola (di fare una cosa) - Aver messo il tetto - Alzare i mazzi - Andare, darsi ai cani - Andare in dolcitudine - Attaccare il lucignolo - Bastonare la messa (dirla in furia), una cosa qualunque (abborracciarla e venderla a vil prezzo) - Batter la solfa - Battere il trentuno - Campare con uno stecco unto - Dar le pere - Dare fune o spago - Dare una lunga a uno [231] (intrattenerlo, senza spedirlo) - Dare un'untatina - Dar nelle girelle o nelle girandole - Essere al lumicino, al moccolino, al moccoletto - Essere uno spianto (una rovina: quell'affare è stato un vero spianto per il tale) - Essere in pernecche - Fare un bollo (vuol prender moglie quello spiantato? Farebbe un bel bollo!) - Far polvere (sollevare scompigli: non faccia tanta polvere: abbia un po' più di prudenza) - Fare una buca (un cassiere nella cassa) - Fare un passio (una cosa lunga di cosa che dovrebbe esser breve) - Far baciabasso (per umiliazione, per adulazione, sottomettersi) - Girare a uno la cuccuma, la còccola, il boccino - Grattar gli orecchi - Levar le repliche - Mangiare a macca - Macinarsi il patrimonio - Mettere in purgo (una notizia non sicura) - Non mondar nespole (S'egli lavora, l'altro non monda nespole) - Pagar con le gomita - Piantare un melo - Piantare un porro - Prendere al bacchio (alla cieca, alla ventura) - Prender pelo - Prendere una lùcia, una briaca, una bertuccia - Ridursi all'accattolica - Spianare il gobbo, le costure - Scuotere la polvere - Sonarla a uno - Sonare a mattana - Sbarbare (Non riuscire in una cosa: s'è messo a tradurre Orazio; ma non ce la sbarba) - Tagliare le calze - Venir le cascaggini (d'una cosa che ci annoia: mi fa venir le cascaggini).
E soltanto per esprimere facetamente l'idea del mangiare con avidità, o molto, o soverchio: diluviare, digrumare, dipanare, scuffiare, sgranocchiare, dimenare le ganasce, ungere, sbattere, far ballare il dente, far ballare il mento, ingubbiarsi, rimpippiarsi, rimbuzzarsi, spolverare, dar ripiego a quant'è in [232] tavola, mangiare a scoppiacorpo, macinare a due palmenti, mangiar con l'imbuto, divorare a quattro ganasce.
E fermiamoci qui, per non fare un'indigestione.
*
Certo che le parole non hanno per tutti la stessa faccia.
Molte che hanno effetto comico per alcuni, per altri non l'hanno, e questo non è soltanto delle parole di tal genere, ma, in generale, di tutte; e deriva dall'aver ciascuno un suo particolare sentimento della lingua, che è la ragione per cui della lingua stessa ciascuno tende ad appropriarsi certe forme a preferenza d'altre, o ad usarle in un significato più o men lievemente diverso da quello in che altri le usano.
Ma il senso comico delle parole, in special modo, è un senso che si affina grandemente con l'osservazione, coi raffronti, e via via che, avanzando con gli anni, si scoprono negli uomini, e nelle cose, nuove e più intime sorgenti di ridicolo; e quand'è affinato, dà nello studio della lingua mille diletti.
Sono ben lontano dal credermi in questo più fine di Caio o di Tizio; e non di meno, m'accade di ridere o sorridere di molte parole, ogni volta che le leggo o le sento, come di certe forme e di certi atteggiamenti del viso umano, versi buffi o mosse allegre o burattinesche.
Per esempio: - Briachite - Briachella (uno che piglia spesso piccole sbornie).
- Non è briaco: ha soltanto un po' d'accollo (l'inclinazione del collo come sotto un peso) - Sbiobbo (d'uno rachitinoso e con gran bazza) - Musceppia (bambina o ragazzetta saputella) - Patìto (l'innamorato) - Pateracchio (per [233] conclusione spiccia, specialmente di matrimonio: si videro, si piacquero e fecero subito il pateracchio) - Un tient'a mente (uno scapaccione) - Stanga, stangato (per bulletta, un uomo in bulletta) - Pispilloria (discorso a carico di qualcuno, o lungo e noioso) - Scarpata (pedata) - Ciucata (cavalcata con gli asini) - Cacheroso (svenevole) - Bacherozzolo (per bambino) - Frittura (di molti bambini) - Sguerguente (uno che fa atti strani o sgarbati) - Squarquoio (di vecchio cascante) - Rubapianete (ladro di chiesa) - Spulcialetti - Squarciavento - Spiantamondi - Strizzalimoni - Picchiapetto - Frustamattoni - Sottaniere - Religionaio - Miracolaio - Pretaio (uno che bazzica preti) - Mogliaio (che non esce mai d'attorno a sua moglie) - Fantajo (dilettante d'ancelle, direbbe la signora Piesospinto); e di verbi non cito che pissipissare, indragonire, rinfichisecchire, insatanassare, sfanfanare (struggersi d'amore), cicisbeare, matrimoniarsi, rivogare....
Giusto, mi vengono in mente due versi di Neri Tanfucio:
Povera truppa, quanti serviziali
T'ho visto rivoga' nel deretano!
*
Ho citato quasi tutti modi dell'uso vivo toscano.
Ma il linguaggio del ridicolo non può essere circoscritto dall'uso, perchè a chi scherza e vuol far ridere tutto è lecito, pur che rimanga nei confini più vasti della lingua.
Nascendo anche il ridicolo da contrasti e dissonanze tra la parola e l'idea, da parole usate in senso insolito, inaspettate, strane o anche fuor d'ogni [234] proposito ragionevole, e dalla stessa affettazione o pedanteria voluta del vocabolo o della frase, ne segue che qualsiasi modo vieto o tronfio o poetico o arcaico, il quale, usato sul serio, stonerebbe intollerabilmente, e farebbe ridere alle spese di chi lo dice, ottiene invece l'effetto che si propone chi scherza, ed è quindi legittimo se a quest'effetto è adoperato opportunamente e con garbo.
È come di certi gesti e impostature e alterazioni del viso e dell'accento, che riescono leziosi, sconvenienti e anche odiosi quando in una persona sono abituali e inconsapevoli o affettazioni di dignità e d'eleganza; ma che all'opposto riescono piacevoli quando son fatti con l'intenzione di far ridere, contraffacendo qualcuno, per esempio.
Gli esempi sono così frequenti negli scrittori, che non mette conto di citarne; e sono frequentissimi anche nelle conversazioni della gente colta.
Noi tutti abbiamo conosciuto o conosciamo certi belli umori che hanno la consuetudine di rallegrar la gente dicendo cose comunissime o lepide con parole gravi e lambiccate e in stile magniloquente.
Io ebbi un amico, professore di lettere, il quale faceva sbellicar dalle risa gli amici raccontando aneddoti faceti, e parlando anche delle cose più ovvie con parole e giri di frase del Decamerone, ch'egli sapeva quasi a memoria.
Seriamente diceva d'esser rimasto in una trattoria attirato dalla piacevolezza del beveraggio; descriveva un desinare suntuoso a cui era stato invitato, con grandissimo e bello e riposato ordine servito, dove lui, vago di vini solenni, aveva trovato il fatto suo bevendo del Caluso e del Barolo in certi graziosi bicchieri, che d'ariento pareano; [235] e chiamava un avvocato: armario di ragione civile, e una ragazza afflitta da pene amorose: - sventurata in amadore; e diceva d'un farabutto: - Testimonianze false con sommo diletto dice, chiesto e non richiesto -, e a un amico incontrato per la strada: - Dammi un fiammifero, se tu hai in te alcuna favilluzza di gentilezza; e: - Grazie, cuore del corpo mio! - e adoperava il con ciò sia cosa che con tanto garbo, e qualche volta così all'impensata, e con un così forte contrasto col significato e con l'intonazione del discorso, che strappava risate da mandarsi a male.
Non trascurare dunque, leggendo gli scrittori e i dizionari, neppure quella parte della lingua che è fuori d'uso, perchè certe voci e locuzioni muffite, che tu quasi ributti dalla tua mente, ti possono servire in certi casi a dare un vivo effetto comico a uno scherzo, il quale altrimenti riuscirebbe sciapito, a far ridere con un gioco di parole semplicissimo, con una sola parola, con un nonnulla.
Nulla nella lingua è disprezzabile, tutto può giovare.
La lingua giocosa è infinita come le sorgenti del riso.
[236]
PER VARIARE IL PROPRIO VOCABOLARIO.
Più di trent'anni fa, in un tempo che sfornavo prosa a gran furia, un mio amico un fermò una mattina per la strada, e con un viso grave, che a tutta prima mi fece temere una cattiva notizia, mi disse: - Ho letto il tuo ultimo articolo.
Dimmi un po': quando intendi di finirla col tuo in un battibaleno? La prima volta che scriverai invece: in un momento, in un attimo, in un lampo, o anche semplicemente in un baleno, t'inviterò a desinare.
Aveva ragione.
C'era anche nel mio ultimo articolo quel maledetto battibaleno, che avevo cacciato non so quante volte in altri miei scritti, senz'avvedermi della ripetizione, e che doveva esser venuto a noia, oltre che al mio amico, a molt'altri.
Tutti gli scrittori hanno certi modi dei quali fanno un uso indiscreto, come gli attori drammatici di certe intonazioni di voce.
Non parlo di quelle parole (per lo più verbi e aggettivi) ch'essi usano frequentemente per necessità, perchè sono la espressione di qualche cosa che è [237] nell'indole del loro ingegno e del loro animo.
Parlo di quei modi che non esprimono alcun sentimento o maniera particolare di veder le cose, e che son ripetuti quasi inconsciamente, senza bisogno, per forza di consuetudine, in luogo d'altri modi, i quali direbbero lo stesso per l'appunto.
I più degli scrittori non n'hanno soltanto uno o due, ma parecchi, e alcuni un buon numero; e non solo gli scrittori, ma quasi tutti, parlando, n'hanno più o meno.
Sono parole che s'attaccano alla lingua, come vizi di pronunzia, e ci restano attaccati per tutta la vita.
C'è, per esempio, chi dice e scrive fin che campa: - Quindici giorni, tre anni, due ore or sono -, e mai, neanche una volta per isbaglio: - quindici giorni, tre anni, due ore fa.
- C'è chi ha preso il vezzo di dire: - Avere il tarlo con uno - per averci odio, ira, rancore, e questo tarlo gli vien fuori infallibilmente tutte le volte che ha da esprimere quell'idea, foss'anche dieci volte il giorno e migliaia l'anno.
Altri s'è avvezzato a dir tratto tratto, e lo dice in ogni caso, invece di ogni tanto, ogni poco, di quando in quando, a quando a quando; e spesso impropriamente, perchè d'uno, per esempio, che faccia una tal cosa ogni due o tre mesi, non è proprio il dire che la fa tratto tratto, che significa intervalli di tempo più brevi.
Perchè quasi sempre accade questo: che chi sposa, come suol dirsi, una data locuzione, finisce con adoperarla ad esprimere non solo l'idea alla quale essa è propria, ma tutte le idee affini a quella, e ch'essa non esprime che a un incirca.
Ma non è questo il solo inconveniente del mal vezzo.
La ripetizione oziosa e abituale di [238] certe voci e locuzioni toglie loro in molti casi gran parte dell'efficacia, e tutta quanta, di solito, nei discorsi faceti, perchè da chi legge o ascolta esse sono presentite e aspettate come ritornelli; oltrechè riescono sgradevoli, come affettazioni, anche le più naturali e semplici, parendo che chi scrive o parla le metta innanzi così ogni momento perchè le tenga in conto di fiori rari e di pietre preziose; e aggiungi che, dicendo sempre certe cose con gli stessi vocaboli, è quasi impossibile evitar rime, cacofonie, iati, asprezze, com'è impossibile a chi parla o scrive in una lingua straniera, in cui non conosca che un modo unico di significare ciascuna idea.
Ora, via via che andrai innanzi nell'uso della lingua, a te pure s'incolleranno alle labbra certi modi di dire, e ci resteranno, se non vincerai la pigrizia intellettuale, che è in tutti la cagione prima di questa specie di servitù parziale del pensiero alla parola; se, voglio dire, ogni volta che avrai da esprimere quella data idea, non farai uno sforzo per cacciar via l'espressione tirannica, e trovare qualche altro modo egualmente proprio, o più proprio, di esprimerla.
E non basterà che tu faccia questo: tu dovrai preservarti dal vizio cercando continuamente, nello studio che fai della lingua, d'arricchire, di variare, di rinfrescare il tuo vocabolario.
Perchè, per esempio, dovrai dire eternamente d'ora in poi, quando puoi dire di qui avanti, di qui innanzi, d'ora in avanti, d'ora avanti, di qui in là? Perpetuamente un via vai invece di un va e vieni, un andirivieni, un andare e venire? Sempre: non ne indovina una, invece di: non ne infila, non ne azzecca, non ne becca, [239] non ne incarta una? E improvvisamente o all'improvviso in luogo di: di punto in bianco, di secco in secco, di stianto, a un tratto, tutt'a un tratto? E alla bella prima o a tutta prima invece di: di primo tratto, di primo lancio, di primo colpo, di primo acchito? E da solo a solo in luogo di testa testa, a faccia a faccia, a quattr'occhi; e alla rinfusa invece di alla mescolata o all'arruffata, e stare in contegno o in contegni invece di stare in aria, star sulle sue, stare in sussiego, stare sul grave, e sulle cerimonie in cambio di: sulle convenienze e sui convenevoli? E così quel tal signore del tarlo potrebbe in molti casi esprimere diversamente e con maggior proprietà la sua idea, dicendo: averla amara, avere il sangue guasto, avere il baco, esser nero con uno.
E un altro, che invece del tarlo ha la mosca, e la fa volare a ogni proposito, potrebbe dire spesso e meglio, invece di saltar la mosca al naso: montar la luna, montare in bestia, saltare in collera, saltare il grillo, pigliare i cocci, prender cappello, andar nei nuvoli, alzare i mazzi; o almen qualche volta, se della mosca vuol serbar qualche cosa, sostituirvi la mostarda.
E un signore di mia conoscenza, che ha sempre la ramanzina in bocca, potrebbe variar la nota con: fare o dare un rabbuffo, una risciacquata, una lavata di testa, una ripassata, una sbarbazzata, un'intemerata, una parrucca, un tu per tu, una polpetta, un trippone.
E un mio amico intimissimo, che per molt'anni seccò il prossimo col bighellonare, avrebbe potuto molte volte sostituire al prediletto gioiello: girandolare, gironzolare, girondolare, girellare, girottolare, vagare, vagolare, vagabondare, [240] vagabondeggiare, zonzare, andare a zonzo, in ronda, in volta, in giro, gironi.
E il signore medesimo, che confessa le sue male abitudini per sua mortificazione, dovrebbe lasciare un po' riposare il suo bisticciarsi, ricordandosi che si può dir più a proposito in molti casi: pigliarsi a picca, piccheggiarsi, gattigliarsi, pizzicarsi, stare a ribecco, stare punta a punta, stare a tu per tu, essere agli occhi.
E....
fermami, ti prego, o non la finisco.
Arricchisci dunque, ti ripeto, varia, rinfresca continuamente il tuo linguaggio.
Tu avrai osservato quanto sono attraenti nel parlare il dialetto anche persone ignoranti che, non per istudio che n'abbian fatto, ma per privilegio di natura possedono e usano molte più parole e frasi che la maggior parte del popolo; com'è vivo, colorito, scintillante, spesso comico il loro discorso, e con che piacere li stanno tutti a sentire, anche gente colta.
Ma per acquistar questa dote non basta acquistare e fissarsi nella mente parole e locuzioni; bisogna esercitarsi a adoperarle, come faceva il Leopardi in quei suoi Pensieri già citati, ch'egli metteva sulla carta giorno per giorno, senza pensare che sarebbero stati mai pubblicati.
Manca a quando a quando in quelle pagine quella sobrietà rigorosa che si ammira in tutte le altre sue prose: egli ripete il suo pensiero in vari modi, l'uno dopo l'altro, infilando sinonimi e frasi equivalenti, come passando in rassegna tutte le maniere possibili d'esprimere quel pensiero; ed è evidente che scriveva quei periodi per premunirsi dal vizio della ripetizione di certe forme nelle scritture che destinava alla stampa.
Quest'esercizio paziente faceva egli pure da giovane, ed era già un grande maestro.
[241]
IL PESCATORE DI PERLE.
Ecco un personaggio che variava davvero il suo vocabolario; ma lo variava in maniera che non si faceva più intendere.
Il che (sia detto a sua scusa) non era sempre un gran danno per chi l'ascoltava.
Questo pescatore di perle era un fabbricante di pillole, panciuto e brizzolato, d'aspetto e di modi signorili; col quale strinsi relazione in una trattoria, ch'egli frequentava da anni, e dov'io desinavo ogni giorno con parecchi amici, dilettanti di letteratura.
Era uno di quei cultori solitari della lingua, per i quali questo studio non è che un'occupazione piacevole dei ritagli di tempo, senz'alcun fine letterario, e quel po' d'ambizione che ci mettono non va oltre il cerchio degli amici, con cui fanno sfoggio innocente della loro filologia.
Ma uno studioso della lingua propriamente non era: era un appuntatore di parole scompagnate da ogni frase o pensiero, che nel suo concetto avevano un valore per sè, anche non servendo a nulla: raccoglieva parole come altri raccoglie insetti curiosi o francobolli rari.
[242] La sentenza del Tommaseo, che ogni modo è tanto più accetto quanto più è comune, e che il più comune, in fatto di lingua, come in tante altre cose, è quasi sempre il più bello, era proprio il rovescio del gusto e della norma che guidavan lui nel suo lavoro di spigolatura; ciò che si può dire di molti, anche al dì d'ancoi, come dice Dante.
Egli non s'innamorava che della parola peregrina, rimota dall'uso, e quanto più dall'uso era rimota, tanto più gli pareva bella e pregevole, e per il solo fatto che non fosse mai stata udita e che riuscisse incomprensibile, egli pensava che dovesse dare un gran piacere a chi l'udiva e fargli ammirare chi la sapeva.
Da anni andava facendo questa raccolta di perle false; credo che le notasse in un registro; n'aveva alla mano un gran numero, e gli pareva di possedere il tesoro di Montecristo.
Cosa singolare: il suo linguaggio era generalmente scevro d'ogni affettazione, il suo frasario semplicissimo: solo di tanto in tanto buttava là all'improvviso una di quelle parole straordinarie e difficili, che facevano spalancare gli occhi e la bocca alla compagnia.
Si sottintende che, per poter fare questa mostra di calìe linguistiche, doveva parlar sempre italiano.
E, in fatti, aveva smesso con tutti il vernacolo, giustificandosi col dire che ogni buon cittadino avrebbe dovuto far lo stesso, per amor di patria, perchè la lingua diventasse l'unico linguaggio degl'italiani.
Ma se tutti gl'italiani avessero parlato come lui, si sarebbe parlato nel nostro paese la più matta e burlesca lingua del mondo.
Non le ricordo tutte, peccato! Ma le più belle [243] mi son rimaste.
Per esempio, non chiamava mai "mal di capo" l'incomodo a cui andava soggetto; ma cefalalgia, e non "limonata purgativa" volgarmente, il rimedio col quale la curava; ma limonata catartica.
Si faceva radere un giorno sì e un giorno no, e questo chiamava sempre: farsi radere epicraticamente; ma sul serio, intendiamoci; senza un barlume di sorriso che mostrasse la coscienza di dire una parola strana.
E a proposito di barba, si faceva fare un solo radimento, e quando il rasoio non tagliava, diceva al barbiere: - Questo rasoio non è radevole.
- E poi: non "ingarbugliare" gli affari e i conti, ma garabullare; scarabillare la chitarra; frucandolare, per frugacchiare; avvocatarsi, per prender la laurea d'avvocato; avvocato parlantiere, per chiacchierone; dinanzare uno per la strada, per passargli davanti, e mal camminabile una strada disagevole.
Diceva d'aver visto un ubbriaco che squinciava per la piazza, ossia, che andava ora per un verso ora per un altro; e ogni momento, discutendo: - Ma codesta non è una ragione, è uno ziribiglio (arzigògolo) -; e rifiutando da bere: - Grazie, ho bevuto abbastanza; non sono bibace.
Comico quanto le parole era il modo come le diceva, con certa intonazione e aria di trascuranza, quasi di sbadataggine, che si riconoscevano finte nell'atto stesso, dallo sguardo furtivo ch'egli girava sugli uditori, per veder l'impressione che quegli ori di lingua facevano.
E n'aveva di due qualità: le parole ultra peregrine, per lo più inintelligibili, ch'egli pescava nei libri, non letti da lui che con questo scopo, e non pregiati se non in ragione della pesca rara [244] che ci poteva fare; e le parole comuni, delle quali usava costantemente la variante antica.
Sempre diceva diputato per deputato, cileste per celeste, maledicenza, malevoglienza, insapiente, inreprensibile, fabuloso.
Queste piccole violazioni dell'uso comune gli parevano una cosa nobilissima.
Ne ricordo dell'altre anche più graziose, ch'egli prediligeva, come: ghiribizzamento, dimenticamento, pretensionoso.
- Non fumo che dopo desinare, - diceva -; mai nelle ore mattutinali: mi darebbe degli archeggiamenti di stomaco.
- E dava una sbirciata circolare all'uditorio.
Giorno per giorno andava arricchendo il suo vocabolario di qualche rarità.
Noi riconoscevamo quelle di recente acquisto dal giro forzato ch'egli dava al discorso per far venire il punto opportuno di metterle fuori.
Qualche volta inventava anche espressamente dei fatti.
Nessuno gli credeva, per esempio, quando egli raccontava che gli era cascato uno specchio dalla parete: era un'invenzione per poter dire che, prima d'appenderlo, avrebbe dovuto dimergolare il chiodo, per assicurarsi che fosse ben piantato.
E come affaticava l'immaginazione, si vedeva, per trovare il pretesto di chiamare gentildonnaio (corteggiatore di signore dell'aristocrazia) un avventore della sua farmacia, e per venir a dire che aveva rincincignato e lacerato una lettera insolente, e che il portinaio di casa sua, che s'era ubbriacato la domenica, aveva rinfonfillato la sbornia il lunedì! Questa ci confessò poi che l'aveva intesa da un operaio senese ch'era andato da lui a comperare dell'ammoniaca; e fu un caso notevole perchè, neanche a domandarglielo, non diceva mai dove avesse raccattato questo o quel [245] diamante della sua favella.
Come il Conte di Montecristo, delle sorgenti della sua ricchezza egli faceva un mistero.
Perchè aveva molti più anni di noi, non osavamo dargli la baia, se non con certa discrezione.
Ma spesso mettevamo in dubbio l'italianità dei suoi vocaboli.
- È proprio sicuro che questa sia una parola di buona lingua? - Non glielo domandavamo per altro che per ispassarci della gravità con cui rispondeva: - Sì, ha degli esempi autorevoli.
- E credo che, veramente, non ne dicesse una che non potesse in qualche modo giustificare.
Ma, come disse un linguista insigne, gli scrittori italiani che fanno testo son tanti, tanto diversi d'età, di patria, tanto disuguali di gusto e di senno, che non c'è stranezza in materia di lingua, la quale con la loro autorità non si possa difendere.
Un giorno provammo noi a parlare a modo suo per veder se capiva la satira.
Stavamo seduti fuori della trattoria.
Il tempo si metteva a brutto.
Cominciò uno a dire: - Il cielo s'annubila.
Un altro: - Lampaneggia.
- Senti che aria umidosa! Vuol venire un'acquazione.
- Già pioviniggia.
Non diede segno d'intender lo scherzo; ma se l'intese, non se n'ebbe per male.
Ci parve che facesse un atto di riflessione per imprimersi nella mente quelle parole insolite.
Poi, guardando per aria: - Se piove - disse - non può durare.
Il vento è a tramontana.
Rim-bel-tem-pirà.
Insomma, l'ebbe vinta lui, perchè non avevamo in pronto altri vocaboli per continuare la celia.
Ma una sera fece una brutta figura, che gli [246] avrebbe dovuto insegnare come non fosse senza pericoli la pesca delle parole stupefacenti.
S'era avvicinata al nostro crocchio la padrona della trattoria, una signora attempatotta, sempre tutta ripicchiata, che si dava grandi arie di nobildonna, affettando una grande castigatezza nel parlare con gli avventori; dai quali non tollerava la minima licenza di linguaggio.
Si discorreva prosaicamente di certi cibi di facile o di difficile digestione.
A un certo punto il pescatore di perle disse con molta gravità: - Noi digeriamo un cibo tanto più facilmente quanto più lo...
Un altro avrebbe detto semplicemente: quanto più lo desideriamo, o ne abbiamo voglia.
Egli volle dire una parola "rimota dall'uso".
E anche questa sarebbe passata come tante altre, se egli non avesse intoppato in una difficoltà di pronunzia.
Ma intoppò dopo le prime due sillabe, e pronunciò le tre ultime dopo una pausa, in modo che ne formò un verbo a parte, non dicibile in presenza d'una signora.
Ci fu impossibile trattener la risata che ci venne su dai precordi, e ne seguì un piccolo scandalo.
La signora credette ch'egli avesse voluto dire uno scherzo, che sarebbe stato davvero sconvenientissimo; lo fulminò d'un'occhiata, e se n'andò a passi tragici; e il povero "pescatore di perle" che era un uomo gentile, in fondo, e pieno d'amor proprio, restò annichilito.
La parola, pur troppo, era la prima persona plurale dell'indicativo presente del verbo concupiscere, registrato dalla Crusca, con parecchi esempi di scrittori sacri.
[247]
È ERRORE? NON È ERRORE?
Queste due domande da quasi mezzo secolo mi suonano così spesso nella mente e all'orecchio che oramai mi paiono di quelle Voci della natura o delle cose che parlano nei cori fantastici dei poemi.
E tu pure, nel corso dei tuoi studi di lingua, e per tutta la vita, rivolgerai migliaia di volte a te stesso quelle domande, e migliaia di volte le rivolgerai ad altri, e altri le rivolgeranno a te; e nella più parte dei casi rimarrete incerti della risposta.
- Ecco il gran malanno della lingua italiana - dicon molti.
E sarà davvero, per varie ragioni, un malanno più grave nella nostra che nelle altre lingue; ma non è proprio esclusivamente della nostra: è un poco di tutte.
Un illustre scrittore francese, per esempio, ha detto argutamente che non c'è cosa più difficile del trovare tre francesi colti, i quali siano d'accordo nel dire che un loro concittadino parla e scrive correttamente il francese.
E pure si considera questa come una delle lingue viventi che hanno maggior fissità e sono più uniformemente parlate nella loro patria.
[248]
Discorriamo dunque del "gran malanno".
Ma bisogna ch'io mi rifaccia un po' di lontano.
Leggi, ti prego, la lettera seguente, che fu scritta da un bravo signore a un suo nipote, per indurlo a presentarsi al direttore d'una Banca, a chiedergli riparazione d'un torto che gli avevan fatto nella sua estimazione.
Nota che lo scrittore della lettera è un uomo che fece i suoi bravi corsi classici, ed è giustamente stimato una persona colta, a cui sta bene la penna in mano.
Mi domanderai come c'entrino gli affari della Banca nella quistione degli errori di lingua.
C'entrano bene e meglio, lo vedrai, se avrai la pazienza di leggere.
Caro nipote,
Mi stupisce quello che mi scrivi d'aver inteso dire del signor B.
Fu indubbiamente qualche male intenzionato che te lo volle mettere in trista luce, e mi domando con qual fine possa averlo fatto.
Sono menzogne che rivoltano.
Ignorante? Orgoglioso? Mancante di tatto? Nulla di tutto ciò è vero.
Te ne posso star garante, poichè ho l'onore di conoscerlo da tempo; a meno ch'egli sia mutato di bianco in nero da un mese a questa parte.
Non è soltanto, incontestabilmente, un uomo di merito, abilissimo nel suo ufficio, appassionato degli studi finanziari, e che gode della massima considerazione presso tutto il personale della Banca; ma anche uomo d'animo elevato, di cuore sensibile, e in fatto di cortesia, gentiluomo senza eccezione; tanto che è amato, più che beneviso, da quanti l'avvicinano.
Mai non conobbi personaggio alto locato più abbordabile; chiunque gli può parlare; anche gente del basso popolo è ricevuta da lui alla prima.
Che vada soggetto ad accessi di malumore, che si lasci trasportar qualche volta dalla passione, ne convengo; ma non è detto che alla vivacità del temperamento [249] non possa andar congiunta la delicatezza; e in ogni caso, basta a disarmarlo una buona parola.
Deciditi dunque; presèntati a lui senza imbarazzo; raccontagli l'accaduto; mettilo al fatto d'ogni circostanza, senza far nomi; osservagli che fosti tu il provocato, che ti si fece un tiro inqualificabile, tentando d'intaccare il tuo onore, per sbalzarti da una posizione che per te è quistione di pane, e mettere al tuo posto peggio che una nullità, un birbaccione spudorato, cointeressato coi tuoi peggiori nemici.
Non ti preoccupare dell'esito: vedrai che prenderà interessamento al caso tuo e che non ti toccherà una delusione.
Io gli scrivo oggi stesso, d'altronde, per metterlo prima al corrente della cosa, o per porre i punti sugl'i, caso che già la sapesse.
Ti prevengo, peraltro, che non devi pensare di raggiungere il tuo scopo con adulazioni e maniere insinuanti, le quali con lui non fanno effetto di sorta; chè non è di quegli uomini che per vanità transigono con la propria coscienza; e come non si lascia toccare dalle lusinghe, non si lascia imporre dalle minacce.
Ma siccome è ragionevole e onesto, nulla di più facile che persuaderlo e cattivarselo dicendogli alla spiccia la verità e aprendogli con effusione il proprio cuore.
Se credi che ti possa essere una facilitazione, t'accludo una mia carta di visita per presentartigli.
Abbi la compiacenza d'accusarmi subito ricevuta di questa lettera.
Non ho bisogno di dirti che per quest'affare o per altro, nella mia pochezza, sono sempre a tua disposizione.
In attesa d'una risposta, ti mando una stretta di mano, e tienmi per la vita il tuo affezionatissimo zio
TAL DEI TALI.
È una lettera, riconoscerai, che a novantanove su cento italiani colti parrebbe non scritta male.
Ebbene: tra francesismi, neologismi, solecismi, parole e locuzioni non puramente italiane, o per ragioni diverse riprovate dai purissimi, contiene la bellezza di 78 - dico settantotto - errori grossi e piccoli.
Su parecchi di questi i [250] purissimi non cadono d'accordo: chi li bolla come errori, chi no.
Ma il professore Pataracchi starebbe fermo sul 78, o al più concederebbe che alcuni veri errori non sono; ma mende, nèi, parole brutte, metafore strane, leziosaggini; insomma, modi da sfuggirsi.
Ed ecco presso a poco in qual forma concerebbe, alla lesta, il povero zio.
- Mi stupisce.
No, "Stupisco": Stupire è intransitivo.
- Indubbiamente, per "indubitatamente" non ha corso legale.
- Intenzionato.
Brutta voce, da non usare.
- Mettere in trista luce.
Una metaforaccia da buttarsi via.
- Io mi domando.
Falso: "domandare" e "dire" non s'usano a modo di riflessivi.
- Menzogne che rivoltano.
"Rivoltare" riferito a cose morali, è improprio.
- Mancante di tatto, nulla di tutto ciò, ho l'onore di (invece di "mi onoro"), un mazzo di francesismi.
- Da tempo (senza dir da quanto) e star garante (per star mallevadore), da bollare.
- A meno che (per "eccetto che"), barbaro.
- Da un mese a questa parte.
Che parte? Che c'entra la parte? Un fregaccio.
- Uomo di merito.
Merito, usato in questa forma indeterminata, sta male.
- Incontestabilmente per "incontrastabilmente", abilissimo per "valentissimo", massima per "grandissima", personale per "gl'impiegati", da rimandarsi in Gallia.
- Appassionato degli studi, improprio.
- Considerazione per "stima", brutta metafora.
- Animo elevato, francese, e sensibile, nel senso che qui gli si dà, francesissimo.
Improprio in fatto di cortesia per "in materia di" o "rispetto a".
È brutto e strano modo senza eccezione per "assolutamente" e lezioso beneviso per "ben veduto" e metaforaccia sgarbata e materiale [251] alto locato.
- Un brutto paio di francesismi avvicinare una persona per "avvicinarsi a lei" e abbordabile per "degnevole" o "accostevole".
- Chiunque per "ciascuno che" quando serve a un costrutto sospeso, riprovevole.
- Riprovevole basso popolo, che non s'usa che in senso spregiativo.
- Francese accessi di malumore per "moti, impeti", francese lasciarsi trasportare da una passione per "lasciarsi sopraffare", francese ne convengo per "lo riconosco".
- Un frego su insieme al, invece di "insieme con" che è errore; su delicatezza per "gentilezza", su disarmare per "far cadere la collera".
- Deciditi per "risolviti" via! - Senza imbarazzo? alla spazzatura! Imbarazzo non vuol dire che "gravezza di stomaco".
- L'accaduto! Ma accaduto non è sostantivo, è participio.
- Mettere al fatto, per "far sapere?", mai al mondo.
- Brutto circostanza per "particolare".
Foggiato sul francese far nomi.
Francese inqualificabile per "indegno".
Osservagli per "fagli osservare o notare", sproposito.
Intaccar l'onore, altro sproposito.
Posizione per "impiego", di vil conio francese, e così è quistione di pane e una nullità per "si tratta di pane" e "uomo da nulla".
E bollo spudorato per "impudente"" e cointeressato, che è del gergo mercantesco, e delusione per "disinganno", che non è parola italiana, e interessamento, che è voce ostrogotica, e preoccuparsi per "darsi pensiero" che è uno svarione, e mettere al corrente, che è mal detto invece di "in corrente" od "a giorno".
Un altro mucchietto di scorie francesi: d'altronde, mettere i punti sugl'i, ti prevengo per "ti avviso", far effetto per "commovere, colpire".
Sgarbatissimo raggiungere lo scopo [252] per "ottenerlo": lo scopo non corre.
- Improprio insinuante per "lusinghevole".
- Abbominevole transigere con la coscienza per "patteggiare".
- Ignobile mozzicone di frase imporre per "soverchiare".
E non fanno effetto di sorta! Che ci sta a fare quel sorta? E siccome per "poichè" qual uomo onesto lo può usare? E toccare per "commovere" con che faccia si può scrivere? E fare una cosa con effusione? Effusione di che? - È un altro francesismo nulla di più facile, ed è contennendo alla spiccia per "alla lesta" e non di buona lingua facilitazione per "agevolezza".
- Ti accludo.
Oibò! "Ti includo" Carta di visita.
Eh, via! "Biglietto di visita".
- Abbi la compiacenza.
Che roba e? Si dice: "Cortesia, gentilezza".
- Ricevuta non si dice che per danaro: "ricevimento".
- E bellino il francesismo non ho bisogno di dirti per "non occorre, non importa ch'io ti dica"! E quest'altro: sono a tua disposizione per "ai tuoi comandi"! E pochezza per "insufficienza" è voce non solo brutta, ma falsa.
E in attesa è un fiore del gergaccio burocratico.
E non è un bel modo una stretta di mano come si direbbe una "stretta d'occhi o di spalle".
Ed ecco il razzo finale: Tienmi per la vita! Perchè vuol che lo tengano per la vita? Ha paura di cascare?
*
Hai visto che po' po' di roba.
E i modi bollati nella lettera di quel disgraziato zio non sono che una parte minuscola del numero grandissimo che il professor Pataracchi e altri come lui bollerebbero.
Sfoglia i dizionari dei francesismi, i [253] vocabolari dei modi errati, i lessici della corrotta italianità, e altri simili: ci troverai riprovate, per ragioni diverse, un'infinità (ma no, anche infinità è un francesismo), dirò: innumerevoli parole e locuzioni, che si senton dire continuamente da persone colte d'ogni parte d'Italia, (non esclusa la Toscana), e che si trovano a ogni tratto anche in libri di scrittori, i quali hanno tutt'altro che reputazione di barbari.
Tu m'interrompi per dirmi: - Ebbene? Tante grazie.
È una bella notizia per incoraggiarmi a studiare l'italiano.
C'è da darsi al diavolo.
Posso dire come Scrupolino, che val meglio studiare il cinese.
- Ma no; non per iscoraggiarti dico quello che dico; ma per preservarti da ogni scoraggiamento che ti potesse cogliere andando innanzi nello studio.
Voglio dire che se darai retta a tutto quello che dicono i vagliatori e distillatori e lavandai della lingua, che non hanno altro da fare,
e' ti faranno il capo, ti faranno,
grosso come un cocomero di Prato;
che se, fin da principio, ti vorrai proporre di parlare e di scrivere un italiano assolutamente immacolato, nel modo che lo vorrebbero i Pataracchi, dovrai darti tal cura e durar tanta fatica, che a questo solo si ridurranno i tuoi studi, che starai fermo invece di procedere, e non farai che difenderti in luogo di conquistare.
Nè t'incoraggio a barbareggiare con questo, che Dio mi liberi; poichè moltissimi dei modi d'uso corrente, che i puristi condannano, sono di fatto erronei o barbari o brutti, e devi imparare a conoscerli per non usarli, e per conoscerli è bene che tu legga [254] i libri citati, dove sono raccolti.
Ma questo lavoro di ripulimento della lingua tu devi farlo a poco a poco, tranquillamente, come un esercizio igienico; non con la furia di mondarti d'ogni impurità tutt'a un tratto, come molti fanno, che è un mettersi a un'impresa disperata.
E devi considerare che molti di quei modi sono inevitabili, che che se ne dica, e che dalla lingua italiana non s'estirperanno più, per quanto si faccia; e che sull'erroneità di molti altri non concordano neppure i linguisti più severi; e che questi stessi linguisti severissimi, quando non scrivono o non parlano di lingua, si lasciano scappare dalla bocca o dalla penna una buona parte delle parole e delle locuzioni a cui nei loro codici dànno lo sfratto.
Va' dunque franco.
Non ti costerà gran fatica lo scansare prima di tutto i francesismi, che si riconoscono alla brutta faccia.
Tu non hai bisogno di ricorrere ai dizionari per sapere che sono francesismi sformati circostanziare, debuttare, decampare, defezionare, dettagliare, dilazionare, formalizzare, negligentare, rivoluzionare, terrorizzare, e altri errori simili, che suonano nella lingua italiana come le stecche false nel canto.
E non ti lascerai scappare dalla penna nè "declinare il proprio nome", nè "demolire una reputazione", nè "fare delle amabilità", nè "colmare di attenzioni"; e non dirai che in una casa c'è tutto il confortabile, per dire che c'è ogni comodità e ogni agio; nè che sei andato a Genova o a Milano in una data epoca; nè che un dato scrittore la importa per bellezza di stile sopra un altro; nè tanti altri modi dello stesso genere, nei quali è evidente il [255] conio straniero falsificato, e che pure si dànno giornalmente e si accettano come moneta di zecca italiana.
Bada per ora che non cadano nella tua lingua le grosse immondizie, e spazza via quelle che ci sono.
Poi, avvezzandoti a far pulizia nella casa, diventerai a poco a poco in quel lavoro sempre più accurato e meticoloso, fino a volerla tersa e lucente come uno specchio.
Ora devi provveder soprattutto ad ammobiliarla, a mettervi tutto quello che è necessario e utile, e a darle un aspetto generale decoroso, senza star dietro a tutte le minuzie e cercar la perfezione in ogni nonnulla.
Che cos'è questo vocìo? Viene innanzi una folla.
Mi par di riconoscervi qualcuno.
Senti che gridano essi stessi chi sono, l'un dopo l'altro.
Abbonamento - Abitudine - Accattonaggio - Aggiotaggio - Affarismo - Affarista - Ballottaggio - Canotto - Canottiere - Carriera (per professione) - Colpo di stato - Comitato - Crisi ministeriale - Decorazione (per insegna cavalieresca) - Dimostrazione popolare - Esplosione - Esposizione - Evoluzione storica - Favoritismo - Giornalismo - Genio (per uomo di genio) - L'insieme (per "il tutto") - Influenza (per influsso) - Interpellanza - Iniziativa - Manovra - Marcia - Mozione - Panico (per timor panico) - Pensione (per retta o dozzina) - Personale d'un'amministrazione - Pompa (da incendi) - Proclama - Proiettile - Progetto - Protezionismo - Reazione - Solidarietà - Uomo di spirito - Specialista - Spionaggio - Successo - Insuccesso - Interesse, interessante, interessare - Naturalizzare - Materializzare - Sorvegliare - Speculare - Subire - Sensibile [256] - Suscettibile - Indispensabile - Normale - Anormale - Obbligatorio - Refrattario - Seducente - I prodotti dell'industria - Le produzioni teatrali - I torbidi di Vattelapesca - Abbasso i tiranni!...
Ci vorrebbe altro a sentirli tutti.
Ma ora gridano tutti insieme.
Sentiamoli.
"Noi siamo francesismi, barbarismi, sconce parole, tutto quello che volete.
Ma arrestate il nostro corso, se vi riesce, signori Pataracchi e compagnia.
Abbiamo preso l'aire e non c'è più freno per tenerci, disse un dei pochi di voi, che hanno vista lunga e senso di discrezione.
Avete avuto un bel gridare e scaraventarci addosso tòrsoli e sassi e tenderci funi a traverso la strada: noi siamo andati oltre, e ci siamo sparsi da per tutto; cacciati dalle porte, siamo rientrati per le finestre; dalle bocche dei mal parlanti siamo passati a quelle di chi parla meglio; abbiamo invaso i giornali, i trattati, le leggi, le cattedre, il Parlamento, i vocabolari, le Accademie; e ci siamo e ci resteremo.
Abbasso i Pataracchi!"
[257]
LE PAROLE NUOVE.
(Pareri d'un senatore, d'un filologo, d'una signora, d'un ingegnere industriale e d'un bello spirito).
*
Per parole nuove intendo principalmente quelle che noi prendiamo a prestito da lingue straniere per designare nuove cose (come istituzioni, invenzioni, usanze), per le quali non abbiamo nella nostra lingua parole proprie, perchè son cose che non ebbero origine, ma furono introdotte da paesi stranieri nel nostro.
Come di altre parole e locuzioni si domanda: - È errore? Non è errore? - di queste si suol domandare: - Si può o non si può dire? O che parola italiana vi si potrebbe sostituire? - A questo riguardo, invece di stenderti un lungo elenco di vocaboli, e di ripeterti (chè altro non potrei fare) le discussioni che si fecero e si fanno sulla convenienza d'accettarne alcuni e di rifiutarne altri, e sui vocaboli italiani che potrebbero far le veci dei rifiutati, credo più opportuno il riferirti certi [258] pareri che mi furon dati intorno all'argomento da persone di dottrina e di buon senso, alcuni molti anni fa, altri di recente; dai quali tu potrai dedurre una norma generale da seguire, parlando e scrivendo.
UN SENATORE.
- Come ho da fare, signor Senatore? - domandai a un dotto toscano, scrittore elegantissimo (ahimè! son più di trent'anni, e il valentuomo è morto da un pezzo).
- Come si può conciliare la necessità d'usar le parole nuove col dovere di non offendere la purità della lingua?
Rivedo il buon sorriso arguto con cui mi rispose: - La purità della lingua? Ma nessuna lingua è pura, e non deve, nè può essere.
Non potrebbe esser pura che la lingua d'un popolo, il quale non avesse commercio nè di cose nè d'idee con alcun altro popolo, non solo, ma che, non mutando in nulla mai nè le idee nè le cose proprie, ossia, non pensando e non progredendo, non avesse mai bisogno di variare e d'arricchire il proprio linguaggio; che sarebbe perciò un linguaggio morto, e morto il popolo stesso.
Nessuna lingua è ricca abbastanza da poter designare in termini che già possegga tutti gli oggetti e i concetti nuovi che porta con sè il progresso universale di ogni forma del lavoro umano: deve quindi ogni lingua accettare e produrre continuamente nuovi termini.
La maggior parte di questi, a chi vorrebbe la lingua immobile, paiono voci impure, che la deturpino e la snaturino.
Ma le cause [259] dell'alterazione della lingua essendo inevitabili e necessarie, è così illogico e impossibile il respingere le nuove parole per amor della purità linguistica, come sarebbe il respingere le cose e le idee per conservare immutato il modo di vivere e di pensare della propria nazione.
Sono i barbarismi superflui e le parole nostre storpiate o usate in senso improprio e i traslati e i costrutti ripugnanti all'indole della lingua nazionale, quelli che la offendono e la imbastardiscono: non le parole straniere di cui non si può fare di meno.
Si può dire che macchiassero la purità della lingua i primi italiani che nominavano coi termini ora in uso tutte le nuove armi inventate dopo la scoperta della polvere? E quelli che chiamavano coi loro nomi d'origine tutti i concetti e le istituzioni che ci vennero dalla rivoluzione francese, e che fra noi hanno conservato quei nomi, non più discussi ora, e quasi neppur più riconosciuti come stranieri? E quelli che usavano per i primi le parole telegrafo, piroscafo, dagherrotipo, fotografia, e cento altre simili? Non si dia dunque pensiero per questo riguardo, perchè non offenderà la purità della lingua usando le parole nuove, e necessarie, più che non ne offenda l'armonia pronunziando o scrivendo i nomi di personaggi storici o d'amici suoi francesi, inglesi o tedeschi, che le occorra di rammentare nei suoi discorsi o nei suoi scritti.
UN FILOLOGO.
Questi esordì bruscamente: - Anche lei! Ma non c'è che il nostro paese dove la letteratura abbia tanto tempo da perdere.
Che bisogno ha [260] di pareri in una quistione di semplicissimo buon senso? Sulle parole straniere assolutamente necessarie per designar nuove cose, non c'è da discutere: bisogna usarle; e non è nemmeno il caso di dire: bisogna: s'usano, le usan tutti, e la quistione è risolta.
Il dubbio può cadere su tutte quelle voci e locuzioni nuove che servono ad esprimere nuovi aspetti di cose, nuove relazioni fra di esse, modificazioni nuove d'idee e di sentimenti, nuovi ordini di idee, principalmente in politica, in arte, in filosofia; e intendo la filosofia che è materia delle conversazioni comuni.
In questo campo, come ha detto un maestro, ci sono in ogni lingua, in qualunque momento considerata, parole e frasi straniere messe in prova, delle quali alcune rimarranno, altre saranno sostituite da altre, che l'uso formerà e farà prevalere alle prime; parole nazionali di cui si va mutando il significato; processi di differenziazione, per dirla coi matematici, che si vanno compiendo, ma che non sono interamente compiuti.
Ora, rispetto all'uso di questo materiale mobile della lingua, ciascuna nazione fa come una moltitudine in cammino; nella quale c'è chi si spinge alla testa della colonna, chi rimane alla coda e chi si tiene nel mezzo.
Lei, come scrittore, non ha da andare nè tra i primi nè tra gli ultimi; ma deve camminare fra gli uni e gli altri.
Il criterio della scelta lo ha da ricavare dall'uso.
Delle parole nuove usi quelle che s'usano generalmente e che generalmente sono capite.
Fra due parole che s'usino, una straniera e una italiana, con non determinata prevalenza di questa o di quella, ma tutt'e due egualmente intese dai più, si tenga [261] all'italiana.
E in tutti i casi in cui la parola italiana, che alcuni vorrebbero sostituire all'esotica, non è capìta dai più, non c'è da tentennare: poichè si parla e si scrive per farsi capire dai più, usi l'esotica, e non si dia altro pensiero.
Fuor di questa norma, che anche un ragazzo troverebbe da sè, non si fanno che vanissime ciance.
UNA SIGNORA.
Era una signora toscana, coltissima, che avrebbe potuto presedere un'Accademia, e non aveva ombra di pedanteria.
- Io non le posso dire - rispose - che quello che lei certamente pensa.
Si ricorda i versi del Giusti a proposito della parola diligenza?
Il cambio delle voci
Fra gente e gente, come l'ombra al corpo,
Tien dietro al cambio delle cose umane;
Nè straniero vocabolo corrompe
L'intrinseca virtù d'una favella
Quando lo stile riman paesano.
Se lei parla e scrive in buon italiano, una lingua tutta italiana di sostanza, d'impasto e di colore, nessuno dirà che parla o che scrive male per il fatto che a quando a quando usi una parola non italiana per dire una cosa che nella nostra lingua non ha ancora la parola che la esprima.
So bene che ad alcune delle parole straniere già divulgate c'è chi propone di sostituire altre parole nostre, e che, se queste calzano, e se hanno da prevalere, ciò che è desiderabile, bisogna pure che qualcuno le cominci a usare.
Ma in questo io m'attengo a una regola che mi è suggerita da un sentimento più forte di quello [262] della lingua.
Delle parole italiane che si vorrebbero sostituire alle straniere ce n'è che si posson dire senza che ne scapiti la naturalezza del discorso, e quelle le dico.
Ce n'è altre che non si possono dire senza far maravigliare e sorridere chi ascolta e senza passar per saccenti che si voglia in materia di lingua dettar la legge, e queste non le dico e non le scrivo, perchè preferisco usare un barbarismo al far ridere e all'esser tacciata di saputella.
Così non voglio e non posso dire teletta invece di toeletta, nè posa invece di consolle, nè rinfresco invece di buffé, e con buona pace del nostro buon B., dirò cupè, finchè lui od altri non abbiano trovato in luogo di quella parola qualcosa di più spiccio di scompartimento anteriore della diligenza, che quando è detto per non dire la parola barbara, è ridicolo.
Questa è la mia regola riguardo alle parole nuove: parlare e scrivere italiano quanto più puramente si può, senza far ridere; perchè nell'uso delle parole ciascuno ha un suo sentimento proprio della convenienza, al quale nessun'autorità linguistica può comandare.
Ma già dev'esser pure l'opinione sua, com'è di quasi tutti, e lei non m'ha interrogata che perchè gliela confermassi; e se le avessi espresso un'opinione contraria, non ne avrebbe tenuto nessun conto.
Stia dunque col Giusti.
L'importante è che lo stile rimanga paesano.
UN INGEGNERE INDUSTRIALE.
Sono ameni i puristi sine labe che non vogliono le parole nuove.
È perchè non vivono nel nuovo mondo.
Se ci vivessero, se sapessero il [263] numero enorme di nuove parole che hanno portato con sè e rese necessarie i progressi delle industrie minerarie e metallurgiche, il telegrafo, il telefono, l'elettricità, le macchine tessili, la stampa, e cento altre cose; se toccassero con mano che non passa quasi giorno senza che si scopra o s'inventi qualche nuovo strumento, o procedimento, o particolare di congegno o di tecnica, che non può aver altro nome fuor di quello che gli dà chi lo inventa, si sdarebbero dall'impresa per disperati.
Per ogni dieci o cento parole che occorrono, e che son prese da una lingua straniera o coniate alla meglio fra noi dalla gente che n'ha bisogno, essi ne propongono una, che dicono italiana, o meno barbara.
Ma a che pro? Chi la mette in corso? E quale scrittore ha mai fabbricato nuove parole, che sian diventate d'uso comune? D'uno dei più fecondi e popolari scrittori francesi del settecento, si dice che n'abbia coniate di suo e mandate in giro due sole; delle quali una è morta.
E, infatti, l'azione d'uno scrittore, per quanto autorevole, non è che pochissima cosa, per non dire nulla affatto, rispetto all'azione collettiva del popolo, che di certe parole nuove ha bisogno subito, e le piglia dove sono e come le trova, o se le fabbrica da sè, nel modo che gli comoda e gli garba.
Conosco una sola nuova parola italiana che in quest'ultimi anni sia stata coniata da un pubblicista, e abbia avuto una certa fortuna: ed è tramvia, che entrò nei regolamenti e nelle leggi.
Ma moltissimi che scrivono tramvia, dicono parlando tranvai, e tranvai o tram si dice dalla grande maggioranza in Toscana e altrove; e anche di quelli che usano [264] la parola ufficiale, chi la fa femminile e chi maschile, e chi pronunzia tramvia e chi tranvia, poichè il suono amv non è della lingua italiana; e non è ancor certo che a tramvia debba restar la vittoria.
Dunque? Io lascerei gridare i linguisti, e farei il comodo mio, come tutti fanno, senza il loro permesso, e come s'è sempre fatto da per tutto, da che mondo è mondo e le lingue vanno da sè, come i fiumi.
UN BELLO SPIRITO.
Quello che mi fa dispetto, in quest'affare delle parole nuove, di cui mi son molto occupato per pura curiosità, è l'ipocrisia dei pedanti: è che molti di loro condannano certe parole senza dire quali altre vi si hanno da sostituire, e qualche volta riconoscendo che non ce n'è altre; o ne propongono tre o quattro, che equivale a non proporne alcuna, perchè è un sostituire a una questione un'altra quistione; e che, in ogni caso, combattendo una parola in uso e proponendone un'altra, sono certi certissimi di fare un buco nell'acqua; ciò che vuol dire che seccano la gente sapendo di non ottenere altro effetto che quello di seccare.
Mi fa anche più dispetto il vedere che molte delle parole nuove ch'essi non registrano o bollano di barbarismi nei dizionari e nelle dissertazioni o dispute filologiche, o cancellano con tanto di frego nei componimenti dei loro discepoli, le usano poi essi stessi a tutto pasto, parlando, perchè non possono farne di meno, perchè non si farebbero capire o si farebbero canzonare usando quelle che ci vogliono sostituire.
Per esempio, io giocherei tutti [265] e due gli occhi che di tutti quanti i proscrittori del barbarismo consommé o consumé non ce n'è uno che abbia mai detto, non ci sarà mai uno che dirà in nessun luogo, in nessun caso, a nessun cameriere o cuoco o albergatore o serva d'Italia: - Mi dia un consumato o un brodo ristretto.
- E l'esempio val per cento.
O che razza di gioco a partita doppia è codesto? Se quelle parole le dicono, perchè non le scrivono? Se non osano di scriverle, perchè le dicono? Sono bene costretti a scriverne e a lasciarne scrivere tante altre che ai loro padri fecero orrore.
Ma la lingua s'altera! Ma sono secoli che si va alterando; ma tutto s'altera col tempo: i costumi, le idee, la vita, il mondo: non s'ha da alterare la lingua? Ma la vanno alterando essi medesimi, che usano molte parole non usate dalla generazione antecedente, che ne usano da vecchi molte altre, che non usavano da giovani.
Dicevano essi da ragazzi le parole: patinaggio, scatingring, fonografo, cinematografo, sport, automobile, motocicletta? E bisogna ben che le dicano ora per forza.
Io vorrei che con la macchina maravigliosa del romanziere Wells ci potessimo trasportare tutti quanti nel venticinquesimo secolo, per veder che faccia farebbero a leggere il vocabolario della Crusca del 2400! E allora, a che serve questo dire e non scrivere, prescriver con la penna e accettar con la bocca, e pensar d'arrestare una moltitudine che corre agguantando Tizio e Caio per il colletto?
[266]
*
Ma tu mi dirai che non t'ho riferito che giudizi anonimi.
Ebbene, consultiamo insieme uno scrittore grande e purissimo.
Ecco quello che ti direbbe Giacomo Leopardi, condensando in un breve discorso quanto è scritto sparsamente nei sette volumi dei Pensieri postumi.
- Conservare la purità della lingua è un sogno, un'immaginazione, un'ipotesi astratta, un'idea non mai riducibile ad atto, se non solamente nel caso d'una nazione che, sia riguardo alla letteratura e alla dottrina, sia riguardo alla vita, non abbia ricevuto e non riceva nulla da nessuna nazione straniera.
Le cose vivendo sempre, e modificandosi sempre continuamente e moltiplicandosi le conosciute, e non potendo una lingua esser mai perfettamente fornita del necessario fin ch'ella non esprime perfettamente e convenientemente tutte le cose e tutte le possibili modificazioni delle cose di questo mondo, ne segue la necessità ch'ella s'accresca sempre di nuovi modi; i quali è ben naturale che a noi italiani vengano in gran parte di fuori, perchè la vita ci viene in gran parte d'altronde.
Molte di queste parole e modi nuovi sono comuni a tutte le lingue colte d'Europa, e però sono europeismi, non barbarismi, perchè non è barbaro quello che è proprio di tutto il mondo civile e proprio per ragione appunto della civiltà, com'è l'uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà e dalla stessa scienza d'Europa.
E d'altra parte l'esempio dei nostri classici (quasi tutti) che hanno arricchito la [267] nostra lingua con derivar vocaboli e modi dal latino, dal greco, dallo spagnuolo o donde che sia, e li hanno resi italiani di fatto, ci ammonisce che la lingua italiana è capacissima d'appropriarsi voci e maniere d'altre lingue.
E non solo può, ma lo deve fare, perchè quanto più la nostra lingua è diligente nel non voler perdere (cosa ottima), tanto più per necessaria conseguenza dev'essere industriosa nel guadagnare, per non somigliarsi al pazzo avaro che per amor del danaro non mette a frutto il danaro, ma si contenta di non perderlo e di guardarlo senza pericoli.
Voler respingere le parole nuove è voler mettere l'Italia fuori del mondo.
Tutte sentenze d'oro, come dice il Giusti.
Ma poichè potresti esser tentato d'abusarne, seguendo l'esempio dei molti barbari che dalle lingue straniere pigliano a prestito una parola ogni dieci, ti presento come antidoto un mio amico di gioventù; la cui immagine mi salta sempre davanti quando nel parlare italiano sto per dire una parola o una frase francese, non perchè manchi alla mia lingua il modo corrispondente, ma per iscansare la fatica di cercarlo.
Ho l'onore di presentarti il visconte La Nuance.
[268]
IL VISCONTE LA NUANCE.
La famiglia dei visconti La Nuance è antica e numerosissima.
Il giovine italiano, al quale avevamo posto quel soprannome, era nobile veramente (del che non si boriava punto); ma povero come noi, figliuolo d'un esattore, e impiegato egli stesso, non ricordo in che amministrazione dello Stato.
Essendo cresciuto in Savoia, dove suo padre era stato parecchi anni, aveva imparato il francese prima e meglio dell'italiano, e quella era rimasta la sua lingua preferita, e diventata il suo vanto, la sua gloria, il vero titolo di nobiltà, del quale egli andava superbo; affermando, naturalmente, ch'era la più bella d'ogni lingua antica e moderna, superiore senza confronto e per ogni rispetto alla nostra.
Quindi le continue discussioni e battaglie che seguivano fra lui e gli amici, e le infinite canzonature che gli piovevano addosso; delle quali non si risentiva mai, poichè a un'ostinazione invincibile in quella sua idea, in quella soltanto, egli accoppiava una bonarietà inalterabile, che gli faceva tollerare anche gli scherzi più mordenti.
[269]
Ci stizziva in particolar modo il suo continuo interpolare nel discorso italiano vocaboli e frasi francesi, come se la nostra fosse una mezza lingua, che non bastasse ad esprimere perfettamente nessun pensiero; e non men di questo la ostentazione ch'egli faceva di quell'italiano infranciosato, quasi compiacendosi di non avere della lingua propria che un'infarinatura, quanto gli occorreva appunto per i suoi ristretti bisogni di impiegato.
E usava nella più parte dei casi il modo francese anche sapendo il modo italiano, poichè in ogni parola o frase di quella lingua egli sentiva o diceva di sentire una sfumatura di significato (una nuance, diceva sempre) che nella nostra lingua non si poteva rendere.
Era quasi sempre un'immaginazione sua; ma non c'era verso di sconficcargliela dal capo.
Citava un modo francese, e diceva in aria di sfida: - Sentiamo, come direste in italiano? - Noi gli citavamo un modo nostro che, per consenso di tutti, significava per l'appunto lo stesso.
Ed egli no, s'incapava a negare.
- Ci s'avvicina - rispondeva -; ma è un'altra nuance; no, ce n'est pas ça tout à fait.
- No, far riscontro non voleva dire precisamente faire pendant, averne un ramo non significava tal quale être toqué, dire di uno roba da chiodi o ira di Dio non era propriamente lo stesso che pis que pendre.
- Un'altra nuance, un'altra nuance, qualche cosa di sopraffino, l'idea d'un'idea, un nonnulla, ch'egli non sapeva dire, ma che sentiva.
E quando poi si faceva la prova inversa, aveva la faccia fresca di tradurre disinvolto in dégagé, traccheggiarsi in se dandiner e vattelapesca in que sais-je! Noi gli coprivamo la voce con una [270] urlata, ed egli rispondeva urlando: - Traducete in italiano il Marivaux, se vi riesce! Traducete il Labiche! - E tu traduci il Berni, traduci il Giusti, traduci il Parini! - Fiato sprecato.
Aveva anche il coraggio di sostenere che il francese è più musicale dell'italiano.
- Troppe vocali, troppe vocali - diceva.
- Si parla sempre con la bocca spalancata.
Per esempio, il famoso verso di Dante, nel racconto di Francesca....
- e squarciando le a con una bocca da entrarci una rapa, declamava: - Aaamor che aaa nullo aaamato aaamar perdonaaa! Ma c'è da slogarsi le mascelle! - E noi gli citavamo bellissimi versi francesi che avevano non meno a che il verso dantesco; ma non serviva, perchè l'a francese, per lui, era un'altra a, di suono più discreto dell'italiana.
Nei versi francesi sentiva armonie misteriose che al nostro grosso orecchio sfuggivano.
- Per esempio, quel celebre verso del La Fontaine, che Victor Hugo giudicò ammirabile:
Six forts chevaux tiraient un coche;
che maravigliosa, inimitabile armonia imitativa! - Di versi italiani, maravigliosi per armonia imitativa, gliene citavamo a decine.
- Ma non così fini - ribatteva - non così fini! - Andava fino a dire che era ben più dolce l'au revoir che l'a rivederci, benchè nel saluto francese ci siano come nel nostro due erre; le quali, per giunta, egli arrotava in tal modo, che, a sentirlo, pareva d'esser salutati da una sega arrugginita.
- Au rrrevoirrr! Ma non sentite che dolcezza? - E allora gli davamo del barbaro, dell'italiano rinnegato, del traditore della [271] patria; al che egli rispondeva invariabilmente: - Des bêtises! des bêtises! - guardandoci con un sorriso compassionevole, come gente di una razza primitiva, parlanti ancora una lingua rudimentale.
Di scrittori italiani parlava il meno possibile, e ci aveva le sue buone ragioni.
Quando gli chiedevamo un giudizio sopra un nostro grande scrittore antico o moderno, egli riconosceva con parole vaghe i meriti che noi ammiravamo in lui; ma soggiungeva sempre che gli pareva lourd, sans souplesse, sans finesse.
La finezza era nel suo concetto la grande superiorità della lingua francese sulla nostra, e affermava che soltanto in francese si poteva parlare con una signora con delicatezza aristocratica, senza mai stonare, senza urtar mai le convenienze e il buon gusto.
Gli domandavamo se credeva davvero che il marchese Gino Capponi e il barone Ricasoli, allora viventi, non sapessero sostenere una conversazione con una patrizia fiorentina senz'urtare il buon gusto e le convenienze.
Egli aveva l'audacia di risponderci che non li aveva mai sentiti.
Lo investivamo qualche volta fieramente.
- Come puoi giudicare della finezza della lingua italiana tu, ostrogoto lacerator d'orecchi, che dici tutto il lungo del cammino, una ragazza non si può più gentile, e giuocare un ruolo, e venir di desinare? - Perchè erano di questo conio i francesismi che egli schiantava.
E allora ribatteva trionfalmente; - Ah! Ah! Voi v'importate! È segno che non avete delle buone ragioni, che vi sentite battuti, battuti a piatta cucitura, ridotti a....
Come direste in italiano aux abois? - O vile Gallo, agli estremi! [272] - rispondevamo noi.
E lui, col suo solito sorriso di commiserazione: - È un'altra nuance; non c'è il senso comico; è un'altra nuance tutt'affatto.
Non disperavamo di persuaderlo, non di meno.
Alle volte lo pigliavamo con le buone, ragionando; gli parlavamo della grande ricchezza della lingua italiana, di cui una gran parte non è nei dizionari; della sua mirabile facoltà di adattarsi a tutti i toni, agli stili più diversi, e alla traduzione d'ogni lingua, serbando il colore dell'originale, senza snaturare l'indole propria; della grande quantità e varietà di "tipi e di conii ch'ella possiede per poter formare voci e modi d'uno stesso genere di significazione", delle innumerevoli desinenze frequentative, diminutive e disprezzative dei suoi verbi, e dell'elasticità e capacità e mutabilità stupenda del suo periodo; e cercavamo di dimostrargli che, nel più dei casi, quando una parola francese non si può tradurre in una italiana dello stesso valore, questo deriva dal fatto che la francese è usata in vari significati, per ciascuno dei quali noi abbiamo una parola propria; e via discorrendo.
Ma era come dire al muro.
Egli rispondeva che noi facevamo della letteratura, ch'egli intendeva parlare della lingua di conversazione, e ribatteva il suo chiodo, che soltanto in francese si poteva conversare con grazia e con spirito, e che al confronto del francese l'italiano era lourd, poco pieghevole, privo di nuances, una lingua d'accademici e di professori.
E noi in coro, come sempre: - Bugiardo rinnegato! - Gallaccio odioso! - Va' fuori d'Italia! - Che il diavolo t'importi! - Smettila, o t'assommiamo [273] a calotte! - E lui, col suo eterno sorriso: - È inutile.
Non mi farete demordere dalla mia opinione.
Ma quello che agli amici non era mai riuscito d'ottenere parve che l'ottenesse il Governo, trasferendolo improvvisamente da Torino, con suo grande rammarico, in non so quale città del Veneto; poichè, forse per lasciarci una buona memoria di sè, per tutto il tempo che rimase ancora fra noi, non solo non mise più sul tappeto e non accettò più nessuna discussione sulle due lingue, ma anche parlò meno francescamente del solito, smettendo, se non altro, d'ostentare certi francesismi per provocazione.
Credemmo d'aver operato noi il miracolo, e ce ne rallegrammo.
Il giorno della partenza lo accompagnammo tutti alla stazione.
Era malinconico.
Quando ci abbracciò, prima di salire nel vagone, si commosse.
- Ricordatevi di me - ci disse -, scrivetemi.
E dimenticate i nostri battibecchi per la lingua.
- Ci strinse ancora la mano dallo sportello, dicendoci con le lacrime agli occhi: - Addio! Addio! A rivederci! - E quel suo salutarci, contro il suo solito, in italiano, ci parve il segno più certo del ravvedimento, e noi pure salutammo con affetto l'amico, ridiventato italiano.
Oppresso dalla commozione, si ritirò in fondo al vagone prima del fischio della partenza.
Ma appena il treno si mosse, si rilanciò al finestrino, e con voce più commossa di prima, agitando il fazzoletto, gridò con diciotto erre: - Au revoir! Au revoir! Au revoir!
Era la frecciata del Parto.
- Trrraître! - gli rispose uno degli amici.
Ma forse egli non ci aveva tradito di proposito: [274] soltanto, nell'impeto della commozione, gli era uscito irresistibilmente dal cuore il saluto che all'orecchio suo sonava più dolce.
E così, nonostante l'ultimo ravvedimento, egli rimase per sempre nella nostra memoria il visconte La Nuance, tipo perfetto e amenissimo dell'italiano con la cresta e coi bargigli.
[275]
PER LA DIFESA DELLA LINGUA.
Fin qui, giovinetto mio, mi sono ingegnato di darti consigli e suggerimenti utili ad acquistare il possesso della lingua.
Ma, in materia di lingua, non basta acquistare, bisogna difendersi.
Tu dovrai badare di continuo a preservarti dal contagio della lingua corrotta che si parla, si scrive e si stampa, non soltanto nella tua, ma in ogni regione del paese; a respingere da te le infinite voci e locuzioni barbare, errate, strampalate, torte ad altro significato dal vero, che pullulano nel comune linguaggio parlato e scritto, e che appunto per la frequenza con cui sono generalmente ripetute, s'attaccano per modo alla lingua e alla penna di tutti, da riuscir quasi impossibile, anche a chi ci metta una cura attentissima, il preservarsene affatto.
Di questi modi da fuggire non ti faccio un elenco, perchè, anche a non citar che mezzi di quelli che conosco, ne dovrei empire decine di pagine, e ti seccheresti a leggerli; ma troverai i più comuni nel dialogo seguente; il quale seguì davvero tempo fa, con poche differenze nell'ordine e nella materia, fra quattro amici; e che, più o meno variato, si ripete certamente spesso, in ogni parte d'Italia, fra persone colte, che hanno a cuore la purità e il decoro della lingua nazionale.
[276]
A CHI LE DICE PEGGIO.
DIALOGO
fra uno scrittore, un avvocato, un professore di chimica, fisica e matematica, e un cronista di giornale, che stanno desinando in una stanzetta di trattoria.
LO SCRITTORE (al Professore).
- Dov'eravamo rimasti?
IL PROFESSORE.
- Aspetta: lascia che m'orienti un poco.
SCRITT.
- Orièntati.
E una.
PROF.
- Ne sentirai dell'altre.
Caro mio, noi non ci abbiamo nessuna colpa nel fatto che la lingua diventi sempre più scientifica, o per dir meglio, scienziata.
Non siamo noi che divulghiamo, portandolo in tutti i campi del pensiero, il nostro linguaggio tecnico, del quale non possiamo far di meno.
È il gran pubblico, sono i giornali e la cattiva letteratura che ce lo pigliano....
SCRITT.
- Già: è effetto del polarizzarsi di tutte le idee verso la scienza.
[277]
PROF.
- Hai detto bene.
Ma è un fatto, te lo confesso, di cui il nostro amor proprio si compiace.
Al vedere che ogni interruzione o lacuna di qualunque cosa diventa una soluzione di continuità, ogni scopo un obbiettivo, ogni caso un fenomeno....
SCRITT.
- E ogni mescolanza un'amalgama.
PROF.
- A sentir parlare di forza centripeta e centrifuga dell'istinto, del dinamismo dei partiti politici, di movimenti rivoluzionari sincroni e sinfoni, e di coefficienti della vittoria e d'esponenti della debolezza del Ministero, e di Parlamenti saturi d'elettricità....
AVVOCATO.
- E di atmosfera d'odio....
CRONISTA.
- E di fenomeni di capillarità psicologici....
Questa l'ho letta io.
PROF.
- Forse in una tua cronaca.
Ma io n'ho letta una assai meglio.
- Di queste consuetudini e sentimenti si forma nella gioventù un precipitato di scetticismo.
- Sei battuto.
Lasciami finire.
A sentire quante quistioni particolari sono una faccia del prisma d'una quistione generale; quanti ordini d'idee sono stratificazioni o substrati d'altri ordini d'idee, e quanti uomini e cose, quantità negative; ma più che altro al vedere quanti concetti non si sanno più esprimere senza ricorrere agli strumenti e agli apparecchi dei nostri Gabinetti, come sarebbe il barometro del malcontento popolare....
SCRITT.
- Il termometro dell'opinione pubblica.
CRON.
- Il diapason della moralità nazionale.
AVV.
- E il propulsore degli entusiasmi cittadini?
PROF.
- Benissimo; e la valvola di sicurezza [278] delle passioni....
Al sentir tutto questo, dico, io gonfio di giubilo e d'alterezza....
SCRITT.
- Fino all'ennesima potenza.
PROF.
- Lo volevo dire; perchè penso che, andando innanzi per questa strada, verrà tempo che quanti vorranno imparar l'italiano dovranno venire a scuola da noi, a studiar fisica, chimica, matematica, mineralogia, geologia....; i Vocabolari dell'uso saranno i nostri trattati.
SCRITT.
- E allora tutto si dovrà studiare, fuorchè la letteratura.
E non solo le scienze esatte, ma anche le scienze giuridiche.
Per esempio: la circostanza attenuante, la cerziorazione, la requisitoria, il verdetto, usciti dalle aule dei tribunali, sono oramai entrati da per tutto.
E quante cose si comminano, oltre le pene stabilite dalla legge! E si testimonia affetto, rispetto e riverenza.
E non sono più i soliti testimoni che depongono; sono anche i fatti.
- Una data circostanza depone in favore d'una tal persona....
- Io mi figuro la Circostanza che giura sul Vangelo di dir tutta la verità....
AVV.
- E una Ragione che cammina a suon di tamburo, col facile sulla spalla, te la figuri? È la solita Ragione che milita in favore di qualcuno o di qualcosa.
E poi che siamo nel campo militare, a me piace infinitamente la base d'operazione.
Un innamorato, per esempio, che va a stare in una villa vicina a quella della sua amata, e ne fa la sua base d'operazione! L'ho letta in un romanzo.
Mi piace anche mossa strategica riferito a un atto qualunque di piccola furberia.
E una parola che ha una data portata, come un pezzo d'artiglieria....
SCRITT.
- Io preferisco il linguaggio [279] finanziario, che va prendendo sempre più voga.
Ha certe espressioni così nobili! Fare il bilancio, per esempio, delle buone qualità e dei difetti di un amico; dire d'un uomo politico, venuto in auge, o scapitato d'autorità, che le sue azioni si sono alzate o ribassate, o, accennando ai suoi meriti e ai suoi demeriti verso il paese, che ha al suo attivo certe cose e al suo passivo certe altre....
Mi par di vederlo diviso in due colonne, come il registro d'un negoziante.
AVV.
- E dove lasciate i verbi, che sono i più bei fiori? Suicidarsi, terrorizzare, ostacolare, impossibilitare, prevenzionare, massacrare, acutizzare....
Si va acutizzando il dissidio in seno alla Commissione del Bilancio, signori!
SCRITT.
- O signori, e suggestionare?
AVV.
- Bravo, hai detto il gran verbo, il verbo factotum, che si presta a tutti i servizi.
Ora si è suggestionati da una donna, dalla fame, da un libro, da un luogo, dalle circostanze, da tutto.
Ho letto in un giornale che un certo fanale di luce elettrica, davanti a un teatro, faceva una réclame suggestionante.
PROF.
- Suggestionante, impressionante, emozionante, raccapricciante, son tutta roba del vostro magazzino, signori giornalisti.
CRON.
- Non mia.
SCRITT.
- Tu ce n'hai dell'altra.
Chi scrisse l'altro giorno nel tuo giornale: - L'uomo di Stato che è stato intervistato -? Sei stato tu, sei stato? Io son restato.
AVV.
- Non facciamo quistioni personali.
Per me, del resto, nel linguaggio delle cronache trovo bellezze ammirabili.
Per esempio: il borsaiolo o l'accoltellatore che, dopo fatto il colpo, [280] s'ecclissa, come un astro, mi pare un traslato dantesco.
PROF.
- È uno dei tanti verbi a cui si fa fare un ufficio indegno della nobiltà della nascita, come rivelare, trasfigurare....
SCRITT.
- Già: si dice che un certo puzzo rivela che il pesce è guasto, che una faccia tinta di carbone è trasfigurata.
E sono anche dei credenti nella Rivelazione e nella Trasfigurazione che lo dicono! Questo non è un errore di lingua, è un sacrilegio.
E così tutti creano, tutto si crea....
PROF.
- Un altro verbo che fa cento mestieri, come organizzare, funzionare, sistemare.
Si organizza uno Stato, un ballo, una dimostrazione, una colazione alla romana.
E tutto funziona o non funziona: un arcivescovo, una serratura, un'amministrazione, una vite, una legge, un cavatappi, un governo, la molla d'un gibus.
E c'è chi parla di sistemarsi in un nuovo quartiere....
AVV.
- E perchè no? (accennando con un'occhiata il Cronista).
S'è inteso dire poco fa: - Io ho il sistema di prendere il tè col latte la mattina, come se una colazione fosse una dottrina filosofica....
CRON.
- Sta' zitto, tu, che dicesti un giorno in tribunale che il tuo avversario deragliava.
AVV.
- Deragliai.
Ma deragli tu pure dalla buona lingua quando scrivi che s'è verificato un incendio.
Che bisogno c'è di verificare che una casa è in fiamme? E quando dici o dite che il Ministero ha conglobato in uno due progetti di legge! Oh giusto! Scrive oggi il tuo direttore che "la conversione del Ministero a sinistra s'accentua".
Doveva anche dirci su quale [281] atto o dichiarazione del Governo cade l'accento, e se è acuto o grave.
Ma già ora s'accentua anche una tempesta in mare e la peste nelle Indie.
SCRITT.
- Ma questa diventa una discussione a base di personalità.
Vi richiamo all'ordine.
PROF.
- Anche l'a base è diventato moneta corrente.
Un discorso a base d'insinuazioni, una letteratura a base di pornografia.
Ho letto in un giornale: una rissa fra due erbivendole a base di zoccolate.
SCRITT.
- È un modo di moda fra gli eleganti, come darsi il lusso di fare una cosa, posare a liberale o ad altro, aver esito negativo, fare una cosa su vasta scala, essere all'ordine del giorno.
Gabriele d'Annunzio, per esempio, è all'ordine del giorno...
CRON.
- Come un progetto di legge....
SCRITT.
- Associarsi al dolore....
CRON.
- Come a un giornale....
SCRITT.
- L'opinione pubblica che si commove, si sdegna, inorridisce.
AVV.
- Come un'attrice.
SCRITT.
- Un ministro, uno scienziato che è un valore.
PROF.
- Come una cedola del debito pubblico.
SCRITT.
- Il morale che s'abbatte e si rialza.
AVV.
e CRON.
(a una voce).
- Come un misirizzi.
SCRITT.
- L'avete detto contemporaneamente.
Notate anche quest'avverbio, che abbraccia la durata della vita d'un uomo, e s'usa per dire che due persone si voltano indietro nello stesso punto.
Ma dimenticavo le due più ammirabili.
S'annunzia che s'è fatta non so dove una strage [282] di poveri israeliti: la notizia merita conferma.
Assassini! E una regione che è teatro d'un'inondazione! Bella rappresentazione!
CRON.
- Qualche volta la notizia è meno esatta.
PROF.
- Già: un bel modo delicato di dire che è una pastocchia.
Così, per consolare i poveri disperati, si chiamano cortesemente i meno abbienti.
AVV.
- Ma queste son miserie! Volete ch'io vi dica la più preziosa di tutte? La lessi l'altro giorno.
Si riferisce a un fatto doloroso.
Ma si riesce a far ridere di tutto.
Un suicidio al sublimato corrosivo.
PROF.
- Impossibile.
È di tuo conio.
AVV.
- Ti porterò il giornale.
PROF.
- Nati di cani! Come si dice il risotto al pomodoro!
SCRITT.
- E se passassimo ai sostantivi? Riguardo a questi, quello che c'è di più curioso per me è l'uso che prevale di adoperarli a sproposito, e che deriva da una tendenza generale, morbosa, a esagerare ogni cosa.
Nove volte su dieci, anche in discorsi e in proclami ufficiali, si dice orgoglio, che è un vizio, per dire alterezza, che è un sentimento nobile, e orgoglioso invece d'altero.
Le parole alterezza e altero pare che vadano cadendo in disuso.
Così non più dignità, ma fierezza.
E si dice l'incarico di scopare come l'incarico di rispondere al discorso della Corona; aver la missione di far l'operazione del catasto in una provincia, come la missione di convertire un popolo al Cristianesimo; l'apostolato della cultura delle barbabietole; il còmpito, che era un lavoro d'ago o di maglia, o un lavoro assegnato agli scolaretti....
[283]
AVV.
- Il còmpito d'unificare la Germania....
fu il lavoro di scuola del Bismark.
SCRITT.
- Far l'apoteosi del formaggio di Gorgonzola....
PROF.
- È il parossismo dell'iperbole.
Dove lasci gl'ismi? Fra cinquant'anni ci saranno nella lingua tanti ismi che si farà rima ogni dieci parole.
Andiamo, io lancio il primo: il nervosismo delle nuove generazioni.....
AVV.
- Il rigorismo del Fisco...
CRON.
- Il confusionismo dei partiti....
SCRITT.
- Il parallelismo delle situazioni.
Ma parossismo è l'ismo prediletto.
Si serve in tutte le salse.
C'è persino chi ama i maccheroni fino al parossismo.
E anche coi sostantivi in à non si scherza.
Se ne fa un tale scialacquo, che a sentir certi discorsi, par che l'oratore picchi delle martellate in un muro....
AVV.
- Garibaldi è una grande individualità.
SCRITT.
- Il Tolstoi una celebrità, una sommità....
CRON.
- Il dottor Carle una specialità.
PROF.
- E ha molte notabilità l'Università della nostra città.
AVV.
- Che è posta in una bella località.
PROF.
- In una delle principali arterie di Torino, poichè ora si chiamano arterie le strade grandi, e non so perchè non si chiamino vene le strade minori....
SCRITT.
- Oh bravo! Poichè hai portato la nota anatomica, ricordiamo il linguaggio medico.
Ce n'è una che vale per cento: l'idiosincrasia.
Le declamazioni d'una liberale e civile idiosincrasia.
C'è chi ne va matto.
Ma anche il portar la nota è una perla.
Ora si porta la nota amena in un [284] banchetto, la nota patriottica in un'assemblea, la nota trista in una conversazione.
Di uno che ammazzò il rivale in un ballo disse ieri l'altro un giornale: che vi portò la nota tragica.
La grazia di quella nota! E a proposito: tragedia, un'altra parola che ha fortuna.
Non ci son più delitti volgari: son tutte tragedie e drammi.
(Al Cronista): Ma questa è una vostra industria letteraria per far comprare il giornale.
CRON.
- Manco a dirlo.
SCRITT.
- L'hai detta finalmente! Mi maravigliavo che non ti fosse ancora scappata.
O dove l'avete scovato codesto manco a dirlo odiosissimo che inciampiamo a ogni passo?
CRON.
- O come vuoi ch'io lo sappia? Chi è imbevuto di letteratura classica, non può dire da che classico abbia preso questo o quel modo.
Da Dante, forse.
SCRITT.
- Avete preso da Dante anche la piattaforma elettorale?
PROF.
- In questo hai torto.
Piattaforma è una parola che mi piace: larga, solida, maestosa.
Come superfetazione, che mi piace anche di più, per la sua gentilezza.
Quando sento dire che un tal progetto di legge non è che una superfetazione d'un altro, presentato da un altro Ministero, vado in solluchero.
Mi par così poetica l'immagine di quei due feti!
SCRITT.
- Ciascuno ha i suoi gusti.
Io ho il gusto degli aggettivi nuovi, semplici e partecipati, dei quali faccio uno studio particolare.
Ce n'è di deliziosi, come ora si dice.
Per esempio: sensazionale; schiacciante, riferito a un argomento; toccante: un oratore toccante: mi par di vederlo suonar la chitarra.
E scollacciato, d'un romanzo! [285] L'immagine di quel sostantivo mascolino col seno troppo scoperto, m'affascina.
E così macabro è uno dei miei amori.
Si scopre il cadavere d'una povera bimba strozzata: - scoperta macabra.
- Com'è a proposito l'immagine d'una danza, che desta quell'aggettivo! E calza bene anche l'aggettivo drammatico che accoppia all'idea d'un assassinio quella d'un'opera d'immaginazione dilettevole! E imponente detto ad un modo d'una signora d'alta statura e d'un grande incendio! E l'innocenza completa, come un tranvai! E la commedia movimentata! E il partito politico compatto, come il legno del sorbo! Elettori, andate alle urne compatti!
AVV.
- Camminerebbero un po' impacciati.
SCRITT.
- Dovresti dire marcerebbero.
Marciano anche gli avvenimenti.
Più curiosa è la voga che hanno preso cert'altri aggettivi in un nuovo significato, come grandioso, che è dei più abusati.
In questi giorni, per esempio, in un manifesto d'un'associazione è chiamato grandioso l'avvenimento dell'andata del re d'Italia a Parigi, e hanno creduto di dire, non qualche cosa di meno, ma di più che grande; perchè grande, oramai, è un aggettivo scaduto.
Ora non basta più dire che un attore è grande in una data parte: si dice che è immenso.
Anche famoso si dice a tutto pasto.
Una buona salsa? Famosa.
Un potente schiaffo? Famoso.
Una sbornia maiuscola? Famosa.
Questo vino, per esempio, è bonino; ma non così famoso come a voi pare.
PROF.
- E superbo? E magnifico? E splendido?
AVV.
- Un magnifico paio di scarpe....
CRON.
- Che calzano magnificamente.
SCRITT.
- Anzi, divinamente! Ma splendido è [286] l'aggettivo re del tempo che corre.
Splendido un par di calzoni, un viale, un artista, un programma politico, un risotto.
È diventato un aggettivo irresistibile.
Sapete che il Guerrini, per combatterne l'abuso, tenne una volta una conferenza satirica a un uditorio d'amici? Tutti ne furono persuasi; ma quando egli ebbe finito, e domandò un giudizio sul suo discorso, risposero tutti a una voce: - Splendido! - Non c'è forza che valga più a sradicarlo.
Come fanatico.
Che c'entra la superstizione religiosa? Ora si è fanatici di tutto quello che piace: d'una grande idea umanitaria come d'un bel servizio da tavola, della Divina Commedia come delle triglie alla livornese.
AVV.
- Ben detto, ben definito, come dice Azzeccagarbugli.
PROF.
- Stupendamente bene!
CRON.
- Hai il nostro plauso.
SCRITT.
- Non mi basta.
Voglio un'ovazione.
Oggi si fa a tutti e per ogni cosa.
Ma non ho finito.
Il discorso che ho fatto sugli aggettivi non è esauriente.
Quello che è più strano nell'uso invadente, a mio parere, è l'accompagnamento degli aggettivi coi sostantivi, nel quale non si riconosce più alcuna legge nè di convenienza nè di logica, mettendo fra gli uni e gli altri dei legami forzati, repugnanti al buon gusto e al buon senso.
Basterà che vi citi un esempio per suggerirvene altri cento.
Possiamo fare una gara.
CRON.
- Si dice record.
SCRITT.
- Fu un lapsus, perdonami.
Un pregiudizio riguardo a una quistione d'ordinamento delle strade ferrate si chiama pregiudizio ferroviario.
Non lo vedete correre sulle rotaie?
AVV.
- Lo vedo.
Animo.
La gara è aperta.
I [287] disinganni dei proprietari nel raccolto dell'uva: - delusioni vinicole.
PROF.
- Ansietà agrarie.
CRON.
- Ravvedimenti costituzionali.
AVV.
- Un monumento operaio! Quello eretto dagli operai cattolici a Leone XIII.
Questa è delle meglio, mi pare.
SCRITT.
- Fermi là! Vinco la gara io.
Vi porterò il documento in prova.
Il titolo d'un articolo sui miliardai americani che vanno in automobile.
Indovinate! Cedo il premio a chi indovina.
CRON.
- Tempo perso.
Favella.
SCRITT.
- Motorismo miliardario!
AVV.
- Splendido.
PROF.
- Grandioso.
CRON.
- Famoso.
L'ho scritto io!
SCRITT.
- Allora il premio è tuo.
Tu sei immenso.
La gara è chiusa.
AVV.
- Se ne può aprire un'altra.
SCRITT.
- Immediatamente.
Quella delle locuzioni frequentissime, delle quali dovrebbe bastar la ragione, il semplice buon senso a far avvertire l'erroneità e il ridicolo, perchè contengono una contraddizione di termini manifesta, o di idee, che non possono stare insieme.
Il tipo di queste locuzioni è la famosa sentenza del Prudhomme: - Il carro dello Stato naviga sopra un vulcano.
- Come si fa a dire che una data Amministrazione o un Istituto è una baracca che cammina male? Che il tal ministro ha esorbitato dalla linea retta? Un'orbita rettilinea! E suscitare un'impressione, che è come dire: sollevare una cosa in giù? Ed è scoppiato un attrito? Avanti, signori!
AVV.
- Vediamo.
Abbracciare una carriera.
[288]
SCRITT.
- È un bell'amplesso!
PROF.
- Farsi una posizione.
AVV.
- È un bel fare.
Ve ne dico una della nostra fabbrica.
Gli elementi che vanno in esilio.
"Da questo scritto, considerato a mente serena, esulano gli elementi della minaccia e dell'ingiuria."
SCRITT.
- Buona; ma non di prim'ordine.
È meglio, e si sente ogni momento: - M'è accaduto un aneddoto.
PROF.
- Come chi dicesse: m'è accaduto un racconto.
Ma val di più questa: - Una voce amica che addita la via del dovere.
- Una voce con le dita.
Trovami l'uguale.
AVV.
- Non è possibile che si possa trovare, lo riconosco.
SCRITT.
- Bella anche questa, e comunissima; ma non è premiabile.
Ci avrei un esempio del verbo trattare, in vece del semplice essere, arcifrequente.
L'ho letto in una cronaca di giornale (al cronista) non tua.
A un tale par di vedere un uomo travolto dalle acque d'un fiume; si butta giù per salvarlo; ma riconoscendo che si trattava d'un cane....
CRON.
- Ti darei quasi la palma.
PROF.
- La palma è mia.
Ve ne do una freschissima.
- Con quest'atto il Governo ha ribadito la corrente della sfiducia pubblica....
AVV.
e SCRITT.
- La gara è chiusa!
SCRITT.
- Sì! Ribadire una corrente è senza dubbio la più maravigliosa di tutte.
CRON.
- Un momento.
Ammettetene ancor una al concorso.
Son sicuro di vincere.
Attenti bene.
Il teatro era completamente vuoto!
GLI ALTRI TRE INSIEME, con una risata: - Tombola!
[289]
SCRITT.
- Facciamo un brindisi al vincitore!
CRON.
- Voi mi emozionate.
Fate troppo onore a una quantità trascurabile come son io.
(Allo scrittore): Ma, barbaro, non si dice: facciamo un brindisi; si dice brindiamo.
E poi...
GLI ALTRI TRE.
- E poi?
CRON.
- Perchè bere alla mia salute? È superfluo.
Io sto magnificamente.
Beviamo invece alla salute della lingua italiana, che, poveretta, per colpa un po' di tutti, sta male assai.
GLI ALTRI TRE.
- Evviva!
CRON.
- Non si grida più evviva.
Si grida: - Hoch! - È più di moda, e poi....
non è italiano.
TUTTI INSIEME, alzando i bicchieri: - Hoch! Hoch! Hoch!
UN CAMERIERE (tra sè, passando nel corridoio:) - Che siano artisti del Circo equestre?
[290]
CONTRO I LUOGHI COMUNI
(APPENDICE AL DIALOGO).
Caro amico,
Ieri sera, dopo il nostro desinare cruscaio, mi parlasti d'un libro che stai ponzando intorno allo studio della lingua.
Non ne ricordo gran che, perdonami, perchè avevo un po' di Chianti nel capo; ma ti suggerisco una buona idea, che mi venne in mente dopo averti dato la buona notte: a me le idee migliori vengono quasi sempre in ritardo di qualche minuto; ciò che è una gran disgrazia per un avvocato.
Dovresti scrivere un capitolo feroce, come direbbe l'Alfieri, contro i luoghi comuni.
Che vuoi? In materia di lingua io sono un mezzo barbaro: parlo male, non scrivo meglio di come parlo, e quanto a materiale linguistico appartengo alla classe dei meno abbienti, come si diceva ieri sera.
Ma odio i luoghi comuni.
Di questo stupirai.
Ma non dovresti stupire.
C'è dei poveri diavoli che hanno per istinto gusti e tendenze di [291] gran signori.
Tu hai capito ch'io intendo parlare di quel gran numero di vocaboli e traslati triti e di frasi fatte, che ricorrono continuamente nei giornali, nelle conversazioni, nei discorsi parlamentari, necrologici, inaugurali e convivali, e anche nelle lettere private dei nostri concittadini.
Ebbene, queste parole e frasi mi son venute in ira a tal punto che ogni volta che me ne cade una sotto gli occhi o m'arriva all'orecchio, mi dà il senso come d'una botta nel gomito o d'un urtone nel petto.
È irragionevole; ma preferisco a un luogo comune uno sproposito, e quasi quasi un'impertinenza.
Dipende dai nervi, mio caro.
Sì, tutte queste maniere viete che tutti usano, anche nel linguaggio famigliare (per iscansare altre maniere più semplici, le quali paion volgari perchè son semplici), come tributare elogi, rendere omaggio, prodigar carezze, largire favori, esser largo di cure, dar lustro al paese e a sè stesso, dare ospitalità a un articolo, render sentite azioni di grazie (questa mi fa fremere), poggiare a un'altezza (ci s'aggiunge spesso, per vezzo, non comune); e tutte quell'altre perifrasi muffite, come l'elemento divoratore, per il fuoco, e la malattia che non perdona, per la tisi, e il lenocinio della forma, e le veneri dello stile, e l'aureola della pubblica stima, e la carità del loco natìo, e le nubi che offuscano ogni specie d'orizzonti metaforici, e i guiderdoni e gli usberghi e i Palladii e i fior fiore della cittadinanza, son diventati l'afflizione della mia vita.
Ma come mai chi le rimastica non ci sente il rancidume che ammorba la bocca e vince lo stomaco? È una smania universale di fuggir la parola ovvia come un malanno.
Vedi se c'è uno [292] su cento dei necrologisti quotidiani che si contenti di dire che un galantuomo è morto! Ha esalato l'ultimo respiro, ha reso l'anima, è uscito di vita, è mancato ai vivi, ha cessato di vivere, ha chiuso gli occhi, si è estinto, si è spento; ma non è morto.
La stessa parola morte, così solenne, e che al nostro cuore par che suoni sempre per la prima volta, è giudicata ignobile: si dice dipartita, decesso, la fine.
Confessato e comunicato è troppo comune: si dice munito dei conforti religiosi.
Bella quella munizione di conforti! E quando si metterà a riposo quella decrepita Parca col suo putrefatto inesorabile? E quando si finirà di profondere la larga eredità d'affetti? Ah, chi l'ha detta per il primo si può ben vantare di non aver seminato nella sabbia! E quell'insopportabile intelletto d'amore, di cui si fa toppe da scarpe, tanto da scrivere che è fatto con intelletto d'amore anche un quadro statistico dell'esportazione dei formaggi? E quella inevitabile traccia onorata di sè, che si lascia dietro ogni scalzacane? E quella misteriosa eloquenza di cui Tizio soltanto possiede il segreto, come d'uno specifico farmaceutico? E quella maledetta ostinazione a non voler mai dire che una riunione fu allegra, cordiale, triste, per mettere invece lo scettro in mano all'allegria, alla cordialità, alla tristezza, e farla regnare? E quell'eterna banda musicale che rallegra tutti i banchetti coi lieti concenti? E quel sempiterno brillare per la loro assenza delle Autorità e degl'invitati che mancano? Il contagio di queste affettazioni obbligatorie, e dei vezzi latini in ispecie, è penetrato fin dove la luce del gas non è giunta ancora.
Vedi nelle corrispondenze [293] mandate ai giornali fin dai più piccoli villaggi.
I matrimoni, i funerali, le rappresentazioni teatrali, le deliberazioni del municipio (espressioni troppo comuni) sono annunziate come nuptialia, funeralia, theatralia, municipalia: che spocchia! Dire: nel consiglio comunale? Miserie! In seno al consiglio.
Il più vecchio dei Consiglieri, o di qualunque adunanza, è sempre il Nestore: il paese è pieno di Nestori.
E quando si seppellisce un cristiano, gli si augura leggiera la terra: una leggerezza diventata più pesante del monolito di Pianezza.
E a proposito di villaggi, non immagini la stizza che mi fa quel popolo Ebreo esulante dall'Egitto, tirato sempre in ballo nell'autunno per dire che i villeggianti se ne vanno: l'esodo dei villeggianti! Non c'è che un'altra eleganza che mi dia ai nervi a egual punto, ed è il senza por tempo in mezzo o in men che non si dica, o con la rapidità del fulmine, che intoppo a ogni passo.
Ma che Dio vi benedica con una pertica, se volete dire che un tale ha fatto una cosa in un lampo, imitatelo, ditela alla più lesta possibile, per rendere la rapidità dell'azione, con una sola parola, e non con una filastrocca.
Ma no, c'è un altro luogo comune che detesto più di quanti n'ho citati, ed è la moglie di Cesare che non dev'essere sospettata.
Chi ci libererà una volta da questa signora, Dei superiori! E siamo anche a questa, in fine: che non si possa più dire nei giornali, nè in Parlamento, nè dove diamine tu voglia, che c'è del marcio in una banca, in un ministero, in una classe sociale, o anche in una cesta di cavoli, senza tirarvi per i capelli Amleto e la Danimarca? Io c'inverdisco, parola d'onore.
[294]
Flagella dunque gagliardamente i luoghi comuni.
Per me sono uno dei primi segni che servono a distinguere gli scrittori veri dagli scrittori di dozzina.
Io che, non per finezza d'educazione letteraria, ma per istinto, ne sento il puzzo un miglio lontano, non ne trovai uno solo nel Manzoni, nel Leopardi, nel Carducci, in nessuno dei grandi maestri.
Mostrali ai ragazzi studiosi per quello che sono: germi d'infezione; perchè, non badandovi, essi s'avvezzano a usarli, e se ne fanno una provvista, e questa, ingrossando a poco a poco, finisce con soffocare in loro il sentimento della semplicità, e anche, se l'hanno, la dote rara dell'originalità della forma.
Flagella senza misericordia.
Ti parrò troppo inviperito.
Ma è perchè, pure abbominando il luogo comune, di tanto in tanto, alla sbarra, me ne lascio scappare qualcuno; non serve ch'io stia in guardia; è come un influsso dell'aria, al quale è forza ch'io soggiaccia.
Ah, vedi che ci son cascato! È forza ch'io soggiaccia! Disgraziato! Me ne vergogno, mi schiaffeggio, e ti saluto.
IL TUO AVVOCATO.
[295]
"GLI ARDIRI".
Confessioni d'uno scrittore pusillanime a uno senza paura.
Il dialogo segue in casa del primo, di nome Leone, che sta seduto allo scrittoio, coperto di fogli.
L'altro, Rompicollo di pseudonimo, gli siede di faccia.
Età dei due personaggi: vicini al pendìo dove l'età precipita.
LEONE (che ha finito di leggere un manoscritto).
- Che te ne pare? Sii sincero.
ROMPICOLLO.
- Sincerissimo.
La narrazione è ordinata, lucida, scritta bene come tutto quello che tu scrivi.
Ma c'è il difetto che è in tutti i tuoi scritti.
Ci manca una bella qualità, una sola.
L.
- Tira il colpo.
R.
- Mettiti in guardia.
Si può riferire a te il giudizio che diede un editore illustre sul modo di scrivere d'un romanziere che tu conosci: - Scrive da maestro; ma....
non c'è caso di vedergli una volta la cravatta per traverso.
L.
- Spiègati meglio.
R.
- Per spiegarmi meglio, bisogna che te la faccia un po' lunga.
[296]
L.
- Purchè tu la faccia di corsa.
R.
- Mi rifaccio a ottant'anni addietro, quando già un grande maestro osservava che negli scrittori del suo tempo la lingua italiana s'andava geometrizzando, riducendo al linguaggio magro e asciutto della ragione e delle scienze che si chiamano esatte, con grave pericolo di cadere nella timidità, povertà, impotenza, regolarità eccessiva, ch'egli rimproverava alla lingua francese dell'età sua.
Egli voleva dire che s'andava perdendo l'uso di quella libertà, di quei tanti idiotismi e irregolarità felicissime, di quelle tante licenze, o ardiri, per servirmi d'una sua parola, nei quali consistevano principalmente "la facilità, la varietà, la volubilità, la pieghevolezza, la forza insomma e la bellezza, il genio e il gusto della lingua italiana." Gli ardiri, capisci! Li definisce bene anche il Padre Cesari dove dice che i nostri antichi scrittori non procedevano sempre a passi di stretto costrutto grammaticale, che alcune cose, scrivendo, lasciavano da mettercele i leggitori, che prendevano spesso un giro o legamento che usciva dal comune, che s'allargavano fuori della via trita, tenendo l'occhio più alla sentenza che alla costruzione delle parole.
C'erano insomma nella loro lingua (tanto lontana per questo dal cader nell'arido e nel matematico) scorci, ellissi, annodature e snodature, travolgimenti di costrutto, ogni specie d'idiotismi efficaci e di belle licenze, che le davano una naturalezza e un vigore ammirabile; c'era una franchezza, un far da padroni, un coraggio....
L.
- Che io non ho.
R.
- Hai voluto la sincerità.
La maggior parte di quelle licenze o ardiri, consacrati dall'uso dei [297] classici, d'errori che erano a rigor di grammatica, son diventati bellezze.
Vezzi e grazie, dice il Cesari.
Ma sono anche concisione e forza.
Ebbene, tu non te ne servi mai.
Ma non tu solo: pochissimi se ne servono, e con parsimonia paurosa, anche fra gli scrittori toscani.
Scriviamo tutti col compasso e con le seste.
E scrivendo così, disconosciamo, offendiamo la natura della nostra lingua.
Tu m'intendi.
Le lingue, ha detto un grande scrittore francese, sono somiglianti ad antiche foreste, dove le parole e le frasi vennero su come vollero o come poterono.
Ce n'è di bizzarre e anche di mostruose; ma formano tutt'insieme, riunite nel discorso, armonie bellissime; ed è da barbari e da insensati il potarle come i tigli dei passeggi pubblici.
La lingua, aggiunge lo stesso scrittore, esce da un fondo popolare: è piena d'ignoranze, d'errori, di capricci, e le sue più grandi bellezze sono ingenue....
Perchè mi fai quel risolino ironico?
L.
(buttando il manoscritto con dispetto).
- Perchè t'affanni a sfondare una porta aperta, figliuol mio.
(Balzando in piedi).
Ah, tu non sai che tasto ingrato mi tocchi! Ma io sono più persuaso di te della verità di quanto mi dici.
Ma io sento e riconosco meglio di te quello che mi manca, e questo appunto è il tormento della mia vita.
Ma delle belle licenze, dei solecismi efficaci, degli ardimenti felici, che tu mi decanti, io ho fatto nei nostri scrittori uno studio amoroso e paziente come nessuno l'ha fatto mai, e te lo posso far toccare con mano...
R.
- E allora...
perchè non ti si vede mai la cravatta per traverso?
L.
(lasciandosi ricader sulla seggiola e con [298] accento sconsolato).
- Perchè sono un vigliacco.
R.
(ridendo).
- Eh via, amico; non ti calunniare.
L.
(con un movimento impetuoso apre un cassetto, e ne tira fuori e sbatte sul tavolino un grosso scartafaccio).
- Vedi se ti dico la verità.
Qui ci sono esempi cavati da scrittori di tutti i secoli, dai trecentisti ai contemporanei, dal Villani al Machiavelli, dal Machiavelli al Bartoli, dal Bartoli a Gino Capponi...
Guarda, sfoglia; questa è la prova della mia vigliaccheria.
R.
- Ma è una raccolta preziosa.
Io non ho mai pensato a farla.
Te l'invidio.
Tu me la devi far leggere.
L.
- E vedi se l'ho fatta con amore.
Ho diviso e ordinato gli esempi: esempi dell'uso di certe preposizioni, di certi pronomi, di certi avverbi, di certi costrutti.
Ah, tu credevi ch'io fossi compassato e geometrico per non sapere come si violano bellamente le buone regole! Ma io sento la bellezza delle licenze classiche quant'altri mai al mondo, e n'ho a mia disposizione un magazzino.
Solo ch'esse ci stanno come le monete d'oro nella cassa forte d'un avaro fradicio.
Io non le spendo per vigliaccheria.
Vedi qui, soltanto intorno all'uso del che, quante n'ho ammucchiate...
R.
- Leggi, te ne prego.
Sono curiosissimo.
L.
- Quel che, che è la mia tortura e la mia vergogna! Ti voglio svelare tutta la mia dappocaggine.
Vedi qui il Villani: - Una cosa ebbero i rettori di quello (del popolo di Firenze), CHE furono molto leali e diritti a comune.
- Vuoi credere ch'io non sarei da tanto d'usare il che in quella maniera, che mi parrebbe temerario? [299] Che ne dici? E quest'altro esempio del Sacchetti: - E pone questa sua pultiglia a mensa, CHE non è porco in terra di Roma che n'avesse mangiato.
- E neanche quest'altro che io m'arrischierei ad usare.
- Udite le mie parole, e non le abbiate a schifo per la nostra etade, CHE siamo giovani.
- E anche questo che, che sta lì a maraviglia, mo lo rimangerei.
- E uscì di Parigi, e cavalcò tante giornate ch'egli giunse a Narbona, CHE sono cento venti leghe.
- E io, cane, scriverei: - che è distante da Parigi cento venti leghe.
- E campò da quel morbo, CHE non ne campò uno sul centinaio.
- E vorrei che fosse qualche uccello nuovo, CHE non se ne trovano molti per l'altre genti, come sono fanelli e calderelle.
- Come scriverei io, per non usar quei due che, non ho la faccia di dirtelo.
Questo del Machiavelli: - Perchè dai Tarquini ai Gracchi, CHE furono più di trecent'anni.
- Io avrei scritto un orrore: - fra i quali e i primi corsero più di trecent'anni -, o forse peggio.
- Mi pasco di quel cibo che solum è mio, e CHE io nacqui per lui.
- Un anacoluto bellissimo, non è vero? E io non lo scriverei neppure sotto il bastone.
E vado innanzi, senza citar gli autori: - Diedegli un colpo in su l'elmo, CHE tutto il grifone d'ariento andò per terra.
- Io ci avrei premesso un tale o un così forte, per salvar l'onore.
- Un teatro CHE non ci toccava d'entrarvi che cinque o sei volte in tutto il carnevale...
- Cosa CHE me ne dispiace anche adesso.
- Per bisogno di danari arrandellò quella villa, CHE avrebbe potuto pigliarci il doppio.
- Epopea e storia sono due termini CHE l'uno ammazza l'altro.
- Il magnanimo fa le grandi cose con l'agevolezza CHE il comune degli uomini fa le cose [300] comuni...
Io, vile, avrei usato in quest'ultimo caso un vile con la quale, e commesso altre piccole viltà compagne nei casi precedenti...
R.
- O perchè mai, se di quei modi senti l'efficacia, e sai che sono legittimati dagli scrittori?
L.
- Te lo dirò poi.
Senti sull'uso dell'avverbio dove, che è un'altra mia afflizione, perchè lo saprei usar bene, e vi sostituisco ogni specie di locuzioni odiose.
- Con questi m'ingaglioffo...
- Hai già ricosciuto messer Niccolò, non è vero? - Con questi m'ingaglioffo per tutto il dì, giuocando a cricca, a trictrac, DOVE nascono mille contese.
- In questo caso è DOVE si riconosce la virtù dell'edificatore.
- In queste cose bisogna esser cauto, ma DOVE ne va 'l capo, cautissimo.
- Vollero farli malgrado loro santi, DOVE non era poco che fossero cristiani.
- Accanto a DOVE ora è San Francesco di Paola.
- Si fecero molte ricerche a Meda, DI DOV'era la conversa.
- Io sarei capace di scrivere: - che era il paese nativo della conversa.
- Non uno dei dove citati avrei l'animo d'usare in quella maniera.
Che te ne pare? Andiamo innanzi.
Ti secco?
R.
- Ma no; sèguita, che mi ci godo.
L.
- Sull'uso della preposizione da.
Vedrai se io so a quante belle locuzioni abbreviative e svelte si può far servire.
- Fin DA abatonzolo (da quando era abatonzolo) il fatto suo era uno spasso.
- Quello non è luogo DA andarvi di notte.
- La passione il fe' dare in falli DA non inciamparvi altro che un cieco.
- Gli dia un tema tale che i due vocaboli cadano DA dover adoperare.
- Le son cose queste DA farle e DA lodarle le donne della santa nazione; ma noi...
- Il [301] penultimo esempio è del Tommaseo, l'ultimo del Carducci.
Io farei il viso rosso, vedi, se dovessi dirti il giro ignobile di parole che avrei fatto per esprimere l'uno e l'altro pensiero!
R.
- Ma perche, in nome di Dio?
L.
- E riguardo all'uso del se, senti che ellissi efficaci, che scorci d'espressione io rifiuto per codardìa.
- Brancolando con le mani, SE a cosa nessuna si potesse appigliare.
- Il desiderio che questi signori Medici mi cominciassero adoperare, SE (quand'anche) dovessero cominciare a farmi voltolare un sasso.
- Erano saliti sui tetti, SE di là potessero veder la cassa, il corteggio, qualche cosa.
- Sei persuaso che non mi mancherebbe l'arte, se non mi mancasse il fegato?
R.
- Ma dunque!
L.
- Ma aspetta.
Io ti voglio ben persuadere che so, e che soltanto per poltroneria, non per ignoranza, scrivo come un tanghero.
Mi voglio schiaffeggiar con le mie mani quanto merito.
Passo all'uso dell'infinito.
Ecco del Sacchetti: - Il lupo entrava domesticamente nelle case, senza far male a persona, e senza ESSERNE fatto a lui.
- O nobile duca, dov'è la tua saviezza A SEDERE dove tu non dèi per dignità di re? - Tu devi essere un ladroncello A ENTRARE per le case altrui.
- E se alcuno dicesse (è Niccolò da capo) -: i modi erano straordinari, e quasi efferati: VEDERE il popolo insieme gridare contro il Senato, il Senato contro il popolo, CORRERE tumultuosamente per le strade, PARTIRSI tutta la plebe da Roma ecc., dico come ogni città...
- Com'è detto bene! E io non direi così per un biglietto da mille.
- Venendo alla seconda inginocchiazione, la fatica della prima aggiungendosi alla seconda, [302] e VOLERE far presto e non POTERE, (bellissimo!) lo costrinse a far sì, che la parte di sotto si fe' sentire.
- Ed ecco il saluto che meriterebbero da chi legge gli scrittori poltroni del mio stampo.
R.
- Ma le ragioni della poltroneria!
L.
- E quelle proposizioni incidenti, interpolate fra gli elementi d'un'altra, quasi indipendenti, e per così dir sospese nel periodo, che imitano così bene il linguaggio parlato, e dànno al discorso un andamento così disinvolto e spigliato, un così bel colore di naturalezza....
R.
- Giusto; qui t'aspettavo: sono la mia predilezione.
Vediamo se n'hai qualcuna della mia raccolta.
L.
- Ce n'ho un cassone.
- Per mia fè, che CHI MI DONASSE L'ORO DEL MONDO, non t'offenderei.
- Come pienamente si legge per Lucano poeta, CHI LE STORIE VORRÀ CERCARE.
- Il Chiodo è un chirurgo che, CHI LO PAGA BENE, tien segreti gli ammalati.
- E se tira vento, t'acceca, poichè non può stare se non intinge ogni momento le cinque dita in una gran tabacchiera, E SU SU, E QUEL CHE NON C'ENTRA SEMINA, movendo i polpastrelli aggruppati.
R.
- È detto con un garbo ammirabile.
E tu non useresti nemmeno codeste forme di sintassi, che tutti usano?
L.
- No, ch'io sia dannato! Nemmen queste.
E tutti quegli altri modi semplici e ingenui, tolti dal linguaggio famigliare, di legare un pensiero ad un altro, e d'accozzar l'uno all'altro senza legame, che sono una bellezza! Per esempio: - Il quale manifesta agli uomini certe cose che non sanno, ED EGLI LE SA.
- Questi piani, che sono in mezzo di queste montagne, sono spazzati e [303] puliti come la palma della mano, E TUTTO QUESTO FA IL VENTO.
- Venendo San Francesco a Santa Maria degli Angeli con frate Leone a tempo di verno, E IL FREDDO GRANDISSIMO FORTEMENTE IL CRUCCIAVA....
E il grande verso di Dante:
Vedi che non rincresce a me, E ARDO.
Sostituiamo all'e un che, come avrei fatto io, vigliacco, e facciamo un verso mediocre e floscio d'un verso che fa fremere: non è vero? Ah, tu credevi ch'io scrivessi come scrivo per ignoranza! Per esempio, ci ho un tesoro di modi ellittici preziosi, che tengo a muffire.
- Ora perchè si sappia come morì, UDII DIRE a mio padre che gli venne voglia d'andare alla stufa....
- Com'è garbata l'omissione del dirò che, ch'io mi sarei ben guardato dall'omettere! - E avendo dato a questo suo figliuolo certe carte, E CHE ANDASSE INNANZI CON ESSE, e aspettasselo da lato della badìa di Firenze....
- Disse: i nemici esser oltre numero molti: quaranta che essi erano, non far corpo da sostener contro a tanti, E I PAESANI DA NON FIDARSENE IN TALE ESTREMO.
- Per dir questo io avrei fabbricato un periodaccio doppio.
- Confortate la donna E ELLA VOI.
- Io c'avrei rificcato un conforti.
Io rispetto bassamente tutte le concordanze, io bacio la terra purchè sia sempre in perfetta corrispondenza il soggetto col verbo, e rovini il mondo! Vedi, per me è una bellezza la frase: - In questo, I SIGNORI CHI ANDAVA IN QUA E IN LÀ, E CHI 'NSÙ E CHI 'NGIÙ, e il restante, chi si nascose in un luogo, chi in un altro; - e quest'altra: - dubbiosi, mutoli, attratti, ciechi ed OGNI ALTRA INFERMITÀ VENNERO dal re -; ma (scrollando il [304] capo, con un sorriso ironico) mi farei levar la pelle prima di metter sulla cart
...
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