L'ESCLUSA, di Luigi Pirandello - pagina 9
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Un pomeriggio, uscendo dalla chiesa, furono prese d'assalto da un ragazzetto quasi tutto ignudo, con la camicina soltanto, sudicia, che gli cadeva a sbrendoli su le gambette magre, terrose; il visetto, giallo e sporco.
Con una manina egli afferrò lo scialle di Marta e non volle più lasciarlo, pregando che gli facessero la carità: era figlio di un muratore caduto dalla fabbrica.
- E` vero, - confermò Maria.
- Jeri, da un'impalcatura.
S'è rotto un braccio e una gamba.
- Vieni, vieni con me, povero piccino! - disse allora Marta, avviandosi.
- No, Marta...
fece Maria, guardando pietosamente la sorella; ma subito abbassò gli occhi, come pentita, contrariata.
- Perché? - le domandò Marta.
- Nulla, nulla...
andiamo...
- rispose frettolosamente Maria.
Giunte a casa, Marta domandò alla madre qualche soldo per quel ragazzo.
- Oh figlia mia! Non ne abbiamo più neanche per noi...
- Come!
- Sì, sì...
seguitò tra le lagrime la madre.
- Paolo è scomparso da due giorni; non si sa dove sia...
La concerìa chiusa; vi hanno apposto i suggelli...
E` la nostra rovina! State qua, figliuole mie.
Diglielo tu, Maria.
Io debbo recarmi subito dall'avvocato.
Parte 1,9
Prima dell'alba del giorno appresso furono destate di soprassalto da uno strepito indiavolato giù per la strada: urli, grida scomposte che andavano al cielo, fischi spaventevoli di bùccine marine.
- I PESCATORI...
- disse Maria, quasi tra sé, in un sospiro, nel bujo della camera.
Eh sì: quello era il giorno della festa dei santi Patroni del paese.
Chi ci aveva pensato?
Come ogni anno, sù dalla borgata marina venivano in tumulto, su lo spuntar del giorno, i così detti pescatori: quasi tutta la gente che abitava in riva al mare, non dedita alla pesca soltanto.
A loro, a gli abitanti della borgata, era serbato per antica abitudine l'onore di portare in trionfo per le vie della città il fèrcolo de' due santi Patroni, che appunto nel mare avevano sofferto il loro primo martirio, e su i marinaj perciò facevano valere più specialmente la loro protezione.
Così ogni anno la città era destata da quell'invasione fragorosa, come dal mare stesso in tempesta.
Lungo le vie si schiudevano le finestre frettolosamente, da cui si sporgevano braccia nude, subito ritirate, e facce pallide di sonno, avvolte in vecchi scialli, in cuffie, in fazzoletti.
Nessuna delle tre sconsolate pensò di scendere dal letto.
Rimasero con gli occhi aperti nel bujo, e a ciascuna passò innanzi alla mente la visione di quegli energumeni giù per la via, tra il fumo e le fiamme sanguigne delle torce a vento squassate, vestiti di bianco, in camicia e mutande, coi piedi scalzi, una fascia rossa alla vita, un fazzoletto giallo legato intorno al capo.
Tant'altre volte, negli anni lieti, li avevano veduti.
Passata quella furia infernale, la strada ricadde nel silenzio notturno; ma si ravvivò poco dopo festivamente.
Maria affondò la faccia nel guanciale e si mise a piangere in silenzio, angosciata dai ricordi.
S'intese il primo grido degli scalzi miracolati:
- IL SANTO DELLE GRAZIE, DIVOTI!
Erano ragazzi, giovinotti, uomini maturi, che per miracolo dei santi Cosimo e Damiano (di cui il popolo faceva un santo solo in due persone) si ritenevano scampati da qualche pericolo o guariti da qualche infermità, e che, ogni anno, per voto, andavano in giro per il paese, in peduli, vestiti di bianco come i PESCATORI, e con un vassojo davanti sostenuto da una fascia di seta a tracolla.
Sul vassojo erano immagini dei due Martiri, da uno, da due, da tre soldi e più.
- IL SANTO DELLE GRAZIE, DIVOTI!
Salivano nelle case per vendere quelle immagini; ricevevano dalle famiglie, in adempimento dei voti, offerte d'uno o più ceri dorati, d'uno o più galletti infettucciati; offerte e quattrini recavano d'ora in ora alla Commissione dei festajoli nella chiesetta dei Santi.
Oltre ai ceri e ai galletti, offerte maggiori andavano a quella chiesa pompaticamente, a suon di tamburi: agnelli, pecore, montoni, anch'essi infettucciati, dal vello candido, pettinato, e frumentazioni su muli parati con ricche gualdrappe e variopinti festelli.
Nelle prime ore del mattino giunse Anna Veronica, vestita di nero, al solito, col lungo scialle da penitente.
Bisognava adempiere al voto fatto durante la malattia di Marta: recare alla chiesa le due torce promesse e la tovaglietta ricamata.
E Marta doveva andare con lei.
Nello scompiglio di quegli ultimi giorni, dopo la fuga di Paolo, ella non aveva pensato ad avvertirne Marta, la vigilia.
- Sù, sù, figliuola, fatti coraggio.
A un voto non si può mancare.
Marta, tutta chiusa in sé, come avvolta in un silenzio tetro, le rispose subito, urtata:
- Non vengo...
lasciami! Non vengo.
- Come! - esclamò Anna.
- Che dici?
E guardò, ferita, Maria e l'amica.
- Avete ragione, sì, - rispose, scrollando il capo.
- Ma chi può ajutarci?
Marta sorse in piedi.
- Debbo dimostrarmi grata per giunta, è vero? della grazia che ho ricevuto, guarendo...
-
- Ma è facile morire, figliuola mia, - sospirò Anna Veronica, socchiudendo gli occhi.
- Se sei rimasta in vita, non ti par segno che Dio ti vuol viva per qualche cosa?
Marta non rispose; come se queste parole dell'amica, pronunciate con la consueta dolcezza, avessero risposto a un suo segreto sentimento, a un segreto proposito, corrugò le ciglia e s'avviò per la sua camera.
- Ti servirà anche di svago, - aggiunse Anna.
Giù per le vie era un gran fermento di popolo.
Dalla marina, dai paeselli montani, da tutto il circondario, era affluita gente in numerose comitive, che ora procedevano a disagio, prese per mano per non smarrirsi, a schiere di cinque o sei: le donne, gajamente parate, con lunghi scialli ricamati o con brevi mantelline di panno bianco, azzurro o nero, grandi fazzoletti a fiorami, di cotone o di seta, in capo e sul seno, grossi cerchi d'oro a gli orecchi e collane e spille a pendagli e a lagrimoni; gli uomini: contadini, solfaraj, marinaj, impacciati dai ruvidi abiti nuovi, dagli scarponi imbullettati.
Marta e Anna Veronica, che sotto lo scialle nascondeva le torce e la tovaglietta, tra la folla fluttuante, stordita, senza direzione, andavano quanto più sollecitamente potevano.
Giunsero alla fine nella piazza davanti alla chiesuola, rigurgitante di popolo.
Il baccano era enorme, incessante; la confusione, indescrivibile.
S'erano improvvisate tutt'intorno baracche con grandi lenzuola palpitanti: vi si vendevano giocattoli e frutta secche e dolciumi, gridati a squarciagola; andavano in giro i figurinaj con le imagini di gesso dipinte, rifacendo il verso degli scalzi miracolati; i frullonaj, tirando e allargando la cordicella del frullo; i gelataj coi loro carretti a mano parati di lampioncini variopinti e di bicchieri:
- LO SCIALACUORE! LO SCIALACUORE!
E al gajo bando seguiva una distribuzione di scappellotti ai monelli più molesti, che attorniavano i carretti come un nugolo ostinato di mosche.
Contrastava con quel vario allegro berciare dei venditori la cantilena lamentosa opprimente d'una turba di mendicanti su gli scalini davanti al portone della chiesa, dove la gente accalcata faceva a gomitate per entrare.
Marta e Anna Veronica si trovarono prese, quasi schiacciate tra quel pigia pigia e sospinte alla fine senza muover piede entro la chiesa buja, zeppa di curiosi e di divoti.
Deposto in mezzo alla navata centrale s'ergeva il fèrcolo enorme, massiccio, ferrato, per poter resistere alle scosse della disordinata bestiale processione.
Sul fèrcolo, le statue dei due santi dalle teste di ferro, quasi identiche nell'atteggiamento, con le tuniche fino ai piedi e una palma in mano.
In fondo, sotto un arco della navata, a sinistra, tra due colonne, attorno a un'ampia tavola, stava in gran faccende la Commissione dei festajoli, che riceveva dai divoti l'adempimento delle promesse: tabelle votive, in cui era rappresentato rozzamente il miracolo ottenuto nei più disparati e strani accidenti, torce, paramenti d'altare, gambe, braccia, mammelle, piedi e mani di cera.
Tra i festajoli, quell'anno, era Antonio Pentàgora.
Per fortuna, Anna Veronica se n'accorse prima d'accostarsi alla tavola; ristette perplessa, confusa.
- Rimani qua un momentino, Marta.
M'accosto io sola.
- Perché? - domandò Marta, che s'era fatta d'improvviso pallidissima; e aggiunse, con gli occhi bassi: - C'e Nicola in chiesa.
- E` lì al banco, il padre, - disse Anna, sottovoce.
- Meglio che tu stia qua.
Mi sbrigo subito.
Niccolino non s'aspettava quell'incontro con Marta.
Non la aveva più riveduta dalla vigilia della rottura col fratello.
Restò come stralunato a mirarla; poi s'allontanò mogio mogio, si confuse tra la folla, vergognoso.
Ne aveva avuto sempre una gran soggezione; aveva tanto desiderato d'esser voluto bene da lei come un fratello minore, cresciuto com'era senza madre, senza sorelle.
Di tra quel rimescolìo di teste cercò di scorgerla da lontano, senza più farsi vedere: la scorse; rimase a contemplarla, a spiarla; poi, intrufolandosi tra la ressa, la seguì con gli occhi fino all'uscita della chiesa.
Per un pezzo non poté più avere né occhi né orecchi per lo spettacolo della festa.
Si ritrovò, senza saper come, in mezzo alla piazza stipata, soffocato tra la folla enormemente cresciuta, che aspettava ora l'uscita del fèrcolo dalla chiesa.
Dalla calca dei corpi ammaccati si levavano tutt'intorno, su i colli tesi, le facce accaldate, congestionate, smanianti nell'oppressura il respiro; alcune con una espressione supplice, d'avvilimento, negli occhi, altre con una espressione feroce.
Le campane in alto sonavano a distesa su quel fermento, e le campane delle altre chiese rispondevano in distanza.
A un tratto, tutta la folla si commosse, si sospinse premuta da mille forze contrarie, non badando agli urti, alle ammaccature, alla soffocazione, pur di vedere.
- Eccolo! Eccolo! Spunta!
Le donne singhiozzavano, molti imprecavano inferociti, divincolandosi rabbiosamente tra la calca che impediva loro di vedere; tutti vociavano in preda al delirio.
E le campane rintoccavano, come impazzite dagli urli della folla.
Il fèrcolo irruppe a un tratto, violentemente, dal portone e s'arrestò di botto là, davanti alla chiesa.
Allora il grido uscì frenetico da migliaja di gole:
- Viva San Cosimo e Damiano!
E migliaja, migliaja di braccia s'agitarono per aria, come se tutto il popolo si fosse levato in furore, a una mischia disperata.
- Largo! Largo! - si gridò da ogni parte, poco dopo.
- La via al Santo! La via al Santo!
E davanti al fèrcolo, lungo la piazza, la gente cominciò a ritrarsi di qua e di là a stento, respinta con violenza dalle guardie, per aprire un solco.
Si sapeva che i due Santi procedevano per via quasi di corsa, a tempesta: erano i Santi della salute, i salvatori del paese nelle epidemie del colera, e dovevano correre perciò di qua e di là, continuamente.
Quella corsa era tradizionale: senz'essa la festa avrebbe perduto tutto il brio e il carattere.
Ciascuno però temeva di restarne schiacciato.
Squillò davanti alla chiesa stridulamente un campanello.
Allora, tra le poderose stanghe della bara s'impegnò una zuffa tra i PESCATORI che dovevano caricarsela sulle spalle.
A ogni tappa, lungo la via, si ripeteva quella zuffa, sedata a stento ogni volta dai festajoli che dirigevano la processione.
Cento teste sanguigne, scarmigliate, da energumeni, si cacciarono tra le stanghe della macchina, avanti e dietro.
Era un groviglio di nerborute braccia nude, paonazze, tra camìce strappate, facce grondanti sudore a rivi, tra mugolìi e aneliti angosciosi, spalle schiacciate sotto la stanga ferrata, mani nodose, ferocemente aggrappate al legno.
E ciascuno di quei furibondi, sotto l'immane carico, invaso dalla pazzia di soffrire quanto più gli fosse possibile per amore dei Santi, tirava a sé la bara, e così le forze si escludevano, e i Santi andavano com'ebbri tra la folla che spingeva urlando selvaggiamente.
A ogni breve tappa, dopo una corsa, dai balconi, dalle finestre gremite, alcune femmine buttavano per divozione sul fèrcolo e su la folla, da canestri, da ceste, fette di pan nero, spugnoso.
E, sotto, la folla s'azzuffava per ghermirle.
Nel frattempo, i portatori imbottavano fiaschi di vino e s'ubriacavano, sebbene quasi tutto il vino tracannato, di lì a poco, se n'andasse in sudore.
A quando a quando il fèrcolo diventava d'una leggerezza portentosa: procedeva allora con slancio irresistibile, salterellando tra l'allegro schiamazzo della folla.
Tal'altra, al contrario, diventava d'una pesantezza insopportabile: i Santi non volevano andare avanti, rinculavano improvvisamente: accadevano allora disgrazie; qualcuno tra la folla rimaneva pesto.
Un momento di pànico; poi tutti, per rifarsi animo, gridavano: - Viva San Cosimo e Damiano! - dimenticavano e procedevano oltre.
Ma più volte, giunti allo stesso punto di prima, ecco di nuovo il fèrcolo arrestarsi improvvisamente; tutti gli occhi allora si volgevano alle finestre, e la folla, minacciando, imprecando, costringeva coloro che vi erano affacciati a ritirarsi, poiché era segno che fra essi doveva esserci qualcuno che o non aveva adempiuto alla promessa o aveva fatto parlar male di sé e non era degno perciò di guardare i Santi.
Così il popolo in quel giorno si rendeva censore.
Stavano a un balcone, affacciate, Marta e Anna Veronica, tra la signora Agata e Maria.
Antonio Pentàgora già da un pezzo aveva dato il segno ai portatori.
Dapprima, le quattro povere donne non compresero la mossa dei Santi: li videro rinculare, ma non credettero che quella manovra si facesse per loro.
Quando il fèrcolo pervenne di nuovo sotto il balcone e s'arrestò, tutta la folla levò gli occhi e le braccia contro di loro gridando, imprecando, esasperata per la sciagura d'un povero ragazzo tratto allora da terra, fracassato e sanguinante.
Subito Marta e Anna Veronica si ritrassero dal balcone, seguite da Maria che piangeva; la signora Agata pallidissima, tutta vibrante di sdegno, chiuse così di furia le imposte, che un vetro andò in frantumi.
Parve quest'atto un insulto alla folla fanatica: gli urli, gl'improperii salirono al cielo.
E a quella tempesta imperversante sotto la loro casa tremavano le quattro povere donne a verga a verga, tenendosi strette l'una all'altra, rincantucciate; e nell'attesa angosciosa udirono contro la ringhiera di ferro del balcone battere una, due, tre volte, poderosamente, la testa d'uno dei Santi.
A ogni testata tremava la casa.
Poi la furia a poco a poco si quietò; successe nella strada un gran silenzio.
- Vili! vili! - diceva Marta a denti stretti, pallida, fremente.
Anna Veronica piangeva con la faccia nascosta tra le mani.
Maria s'appressò paurosamente al balcone e, attraverso il vetro, vide una bacchetta della ringhiera torta dalle ferree testate.
Parte 1,10
- Troppo, eh? - fece Antonio Pentàgora, col suo solito ghigno frigido rassegato su le labbra e negli occhi uno sguardo di commiserazione per Niccolino.
- Vigliaccheria! - proruppe questi, furibondo.
- Si vergogni! Tutto il paese è pieno dello scandalo di jeri.
Bella prodezza!
- E bravo Niccolino! - esclamò tranquillamente il padre.
- Me ne congratulo davvero! Sentimenti nobili, generosi...
Bravo! Tienteli ben radicati, figliuolo mio, e vedrai col tempo come ramificheranno.
Niccolino scappò via fremendo, per non lasciarsi andare a qualche eccesso.
Così pure era scappato via Rocco la sera avanti, dopo una lite violenta, durante la quale padre e figlio per poco non erano venuti alle mani.
Rimasto solo, Antonio Pentàgora scosse più volte il capo lentamente e sospirò:
- Poveri di spirito!
E rimase a lungo a pensare, col faccione sanguigno, chino sul petto, gli occhi chiusi, le ciglia aggrottate.
Sapeva, sapeva d'essere inviso a tutti, cominciando dagli stessi suoi figli.
Mah!...
E poi? Non era in suo potere portarci rimedio: doveva essere così, per forza.
Per i Pentàgora, cui la sorte s'era divertita a bollare col marchio dei cervi, non c'era remissione.
"Là! o esposti all'odio o al dileggio.
Meglio all'odio.
Era destino!"
Tutti gli uomini, per lui, venivano al mondo con la parte assegnata.
Sciocchezza il credere di poterla cambiare.
Anch'egli, in gioventù, come adesso i figliuoli, lo aveva creduto per un momento possibile: aveva sperato, s'era lusingato: gli era parso d'aver nel cuore, come il povero Niccolino, sentimenti nobili, generosi: s'era affidato ad essi, dov'era giunto? Gira gira, alle corna.
La parte era quella, doveva esser quella.
S'era così fissato in questo suo modo di pensare, che se per caso qualcuno, spinto dal bisogno, veniva a chiedergli ajuto, egli, pur sentendosi talvolta inchinevole a cedere, già commosso, si frenava, sbuffava, poi apriva le labbra al solito ghigno e consigliava a quel povero diavolo di rivolgersi altrove: al tal dei tali, per esempio, buon filantropo del paese:
- Va' da lui, caro mio: è nato apposta per soccorrere la gente.
Io no, vedi.
A me, quest'ufficio non m'appartiene.
Farei un'offesa a quel degno galantuomo che lo esercita da tant'anni e non può farne a meno.
Io, di corna negozio.
Era divenuto così cinico nel linguaggio, involontariamente.
Diceva queste cose con la massima naturalezza.
E derideva lui per primo la sua disgrazia coniugale, per prevenire gli altri e disarmarli.
Si sentiva in società come sperduto in mezzo a un campo nemico.
E quel suo ghigno era come il digrignare d'un cane inseguito, quando si volta.
Per fortuna, era ricco: dunque, forte.
Non aveva da temere.
Tutta la gente, infatti, gli faceva largo: largo al vitello, anzi al bue d'oro!
- Sciocchezze!
Dopo il tradimento, per lui inevitabile, della nuora, si era rallegrato della sfacciata relazione di Rocco con quella donnetta galante:
- Bravo Roccuccio! Mi piace.
Ora sei a posto.
Vedrai che a poco a poco...
Fammi tastar la fronte...
Ma no: quello scioccone non ci s'era sentito a suo agio, nel posto assegnatogli dalla sorte.
Imbronciato sempre, sgarbato, di pessimo umore.
Poi, all'improvviso, era accaduta la morte di Francesco Ajala, del BAU! Ebbene, e quell'animella squinternata s'era d'un subito sentita schiacciare dall'unanime compianto che quel pazzo furioso aveva raccolto in paese.
Zitto zitto, per non dar più luogo a ciarle, s'era liberato dell'amante, e gli era ritornato in casa come un funerale.
- E perché? L'hai forse ucciso tu Francesco Ajala?
Non c'era stato verso, per lungo tempo, d'indurlo a uscir di casa, a divagarsi.
Cavalli, cavalli da tiro e da sella: sei cavalli gli aveva comperati! Dopo quindici giorni non aveva più voluto saperne.
- E allora, che altro? un viaggetto di distrazione, in Italia o all'estero? - No: neppur questo! - Il giuoco, al circolo? - Novemila lire perdute in una sola sera.
E gliele aveva pagate, senza neppur fiatare.
Ebbene, che gli restava da fare? S'era presentata l'occasione della festa dei santi Patroni: a mali estremi, estremi rimedii: e aveva provocato lo scandalo della processione sotto i balconi di casa Ajala.
Non se ne pentiva.
Rocco era scappato via come una mala bestia, sparando calci, alla bollatura di fuoco.
Sì: gliel'aveva data un po' troppo forte, poverino.
Ma ci voleva! Col tempo si sarebbe calmato e lo avrebbe ringraziato.
"Senti, senti la pazza!" fece tra sé Antonio Pentàgora, riscotendosi al fitto bofonchìo precipitoso della sorella Sidora, che s'aggirava smaniosamente per casa.
Anche a lei, forse, era arrivata la notizia dello scandalo.
Che ne pensava? Nessuno poteva saperlo, tranne il fuoco del camino, acceso d'estate e d'inverno, nel quale ella - diceva il Pentàgora - voleva incenerire tutte le corna della famiglia, e non ci riusciva.
Per parecchi giorni Rocco non volle vedere, neppur da lontano, il padre.
Niccolino gli teneva compagnia, gli offriva uno sfogo, da buon fratello.
- Non bastava, non bastava averla scacciata? M'ero vendicato...
Bastava! Ma no: le muore il padre, per giunta.
Non dico che ci abbia avuto colpa io; ma certo in qualche modo vi ho pure contribuito; muore il bambino; anche lei è stata per morire; si rialza a stento dalla malattia; e lui, vigliacco, va a farle sotto gli occhi quella scenata infame! Perché insultarla ancora? Chi glien'aveva dato l'incarico? Vigliacco! Vigliacco!
E si torceva le mani dalla rabbia.
Intanto le notizie di giorno in giorno peggioravano.
La concerìa, chiusa; Paolo Sistri, scappato (e la gente lo incolpava d'aver rubato dalla cassa quel che poi non c'era).
La miseria, dunque, batteva alla porta delle tre povere donne abbandonate.
Come avrebbero fatto? Sole, senza ajuto, mal viste da tutto il paese?
E la notte a Rocco pareva di vedersi comparire davanti la figura gigantesca di Francesco Ajala in atto di scuotere le mani, pallido, gonfio in volto: "ROVINI DUE CASE: LA TUA E LA MIA!".
Vedeva tal'altra la suocera (fin dal primo giorno del fidanzamento tanto buona con lui) scarmigliata, disperata, e Marta piangente, con la faccia nascosta, e Maria quasi istupidita, che mormorava: "CHI CI AJUTA? CHI CI AJUTA?".
Così Rocco, il giorno in cui seppe che la concerìa era messa all'incanto, facendosi violenza, si recò lui per primo dal padre a proporgli - cupo, senza guardarlo in faccia - di acquistarla per suo conto.
- Tu sei pazzo! - gli rispose il Pentàgora.
- Neanche se me l'aggiudicassero per tre bajocchi.
Poi, guarda: fin qui t'ho lasciato fare: denari, adesso, me ne hai buttati via abbastanza.
Non son rena! Anche la carità? Non è affar mio, lo sai.
Nojaltri, di corna negoziamo.
E lo lasciò in asso.
Parte 1,11
Marta, Maria e la madre s'erano da poco levate di letto, quando udirono il campanello della porta tintinnire discretamente.
Maria si recò ad aprire e, guardando prima dalla spia, vide un vecchietto poveramente vestito, insieme con due giovinotti, in attesa dietro la porta.
- Che volete? - domandò, incerta, dalla spia.
- Ziro, l'usciere, don Protògene, - rispose il vecchietto stirandosi i peli bianchi ricciuti della barba a collana.
- Favorisca d'aprire.
- L'usciere? Ma chi cercate?
- Non è questa la casa di don Francesco Ajala? - domandò l'usciere Ziro ai due giovinotti che l'accompagnavano.
Maria aprì timidamente la porta.
- Perdoni, signorina, - disse uno dei giovinotti.
- (Don Protògene, datele la carta).
Ecco, signorina, faccia vedere codesta carta alla mamma.
Noi aspetteremo qua.
La signora Agata si faceva in quel momento anche lei alla porta.
- Mamma, - chiamò Maria, - vieni a vedere...
io non so...
- Ziro, l'usciere, don Protògene, - si presentò di nuovo il vecchietto, levandosi questa volta dal capo risecco il tubino spelato che gli si sprofondava fin su la nuca.
- Non faccio...
diciamo piacere, ma...
la Giustizia comanda, noi portiamo il gamellino.
La signora Agata lo squadrò un poco, stordita; poi spiegò la carta e lesse.
Maria, intimorita, guardava la madre; il vecchio usciere approvava col capo a ogni parola e, quando la signora levò gli occhi dalla carta, non comprendendo bene, disse con voce umile:
- Codesta è l'ordinanza del pretore.
E questi due sono i testimonii.
I due giovinotti si scappellarono, inchinandosi.
- Ma come! - esclamò la signora Agata.
- Se mi avevano detto...
Anche Marta, adesso, s'era fatta alla porta, a sentire; e i due giovinotti se l'ammiccavano dal pianerottolo, dandosi furtivamente gomitate.
- Ma come...
- ripeté la signora Agata, smarrita, rivolta a Marta.
- L'avvocato mi aveva detto...
- Tante cose dicono gli avvocati...
interloquì, con un certo sorrisetto che lo fece arrossire, uno dei giovinotti, tozzo e biondo.
- Lasci fare a noi, signora, e vedrà che...
- Ma se ci tolgono...
- Mamma, - la interruppe Marta, alteramente, - è inutile star qui a discutere.
Lasciali entrare.
Sono comandati: debbono fare il loro dovere.
- Con dolore, sì...
- aggiunse don Protògene.
- Eh, purtroppo...
Chiuse gli occhi, aprì le mani e applicò la punta della lingua al labbro superiore.
- Abbiano pazienza, - riprese poco dopo, - donde dobbiamo cominciare? Se la signora volesse avere la bontà...
- Seguitemi, - ordinò Marta.
- Ecco il salotto.
Aprì l'uscio ed entrò avanti a gli altri per dar luce alla stanza, che da tanti mesi dormiva con gli scuri chiusi, abbandonata.
Poi, rivolta alla madre e alla sorella, soggiunse:
- Andate via.
Attenderò io a costoro.
I due giovinotti si guardarono mortificati; e il biondo, ch'era un forense, già galoppino di Gregorio Alvignani e che aveva pregato insistentemente il vecchio usciere di portarselo con sé come testimonio, per curiosità di veder Marta da vicino, disse, guardandosi le unghie lunghe, scarnate:
- Noi siamo dispiacenti, creda, signora...
Marta lo interruppe, con lo stesso piglio sprezzante:
- Sbrigatevi.
Son discorsi inutili.
Don Protògene, tratto dalla tasca in petto un foglio di carta, un calamajo d'osso con lo stoppino e una penna d'oca, si disponeva a comporre l'inventario del salotto, quando, guardando in giro e vedendo soltanto poltrone e seggiole imbottite, su cui non stimò buona creanza mettersi a sedere, chiese con umile sorriso a Marta:
- Se la signora volesse avere la bontà di farmi portare una seggiola...
- Sedete pur lì, - disse Marta, indicando una poltrona.
E il vecchietto sedette in punta in punta, per obbedire; con la mano tremolante armò di lenti l'estremità del naso e, stendendo la carta sul tavolinetto tondo che stava davanti al canapè, scrisse con solennità in capo al foglio: "SALLOTTO" con due elle.
Ciò fatto, s'inserì la penna su un orecchio e, stropicciandosi le mani, disse a Marta:
- Naturalmente questi mobili rimarranno qua, esimia signora; io adesso fo soltanto, così, sopra sopra, un piccolo inventario, con la stima.
- Ma potete anche portarli via, - disse Marta.
- Fra giorni lasceremo questa casa, e tanta mobilia non entrerebbe nella nuova.
- Vuol dire che si provvederà, - concluse don Protògene.
E cominciò a notare: - Un pianoforte...
Marta guardò il pianoforte che Maria aveva tante volte sonato, e anche lei, da ragazza, fino a tanto che la passione per lo studio non le aveva tolto il tempo d'attendere alla musica.
E man mano che il vecchio e i due giovinotti nominavano, notando, i varii oggetti, gli occhi di Marta vi si affisavano un tratto, rievocando un ricordo.
Era venuta, nel frattempo, Anna Veronica, a cui la signora Agata, avvilita, piangendo, comunicò la nuova sciagura.
- Anche questo! in mezzo alla strada...
Ah, Signore, non avete pietà? neanche di quell'orfana innocente, Signore?
E con la mano indicò Maria che se ne stava con la fronte contro i vetri della finestra, per nascondere alla madre il pianto silenzioso.
- Marta? - domandò Anna Veronica.
- Di là, con LORO...
- rispose la signora Agata, asciugandosi gli occhi.
- Se la vedessi: impassibile; come se non si trattasse della casa nostra..
- Agata mia, coraggio! - disse Anna.
- Dio ci vuol provare...
- No! Dio, no, Anna! - la interruppe la signora Agata, stringendole un braccio.
- Non dire Dio! Dio non può voler questo!
E con la mano accennò di nuovo a Maria, soggiungendo sottovoce:
- Che spina! che spina!
Anna Veronica, allora, per divagarla, le parlò della nuova casetta.
- Vengo di là.
Se la vedessi! Tre stanzette piene d'aria e di luce.
Non tanto piccole, no: oh, vi starete benissimo...
E poi, un terrazzino! Buono da stendervi il bucato; sì, vi sono anche i cordini di ferro; quattro pali agli angoli; e affacciandovi di là, guarda, possiamo proprio stringerci la mano, così...
La finestra della mia cameretta è proprio dirimpetto...
Le notti di luna...
Anna s'interruppe: in un baleno rivide una notte del tempo passato: il seduttore sentimentale aveva abitato in quella casetta, ove tra pochi giorni sarebbero andate ad abitare le sue amiche.
Turbata, cangiò discorso:
- Mente mia! guarda...
me ne dimenticavo ed ero venuta apposta! Ho da darvi una buona notizia.
Sì...
- e chiamò: - Maria! Vieni qua, figliuola mia...
Sù, asciughiamo codeste lagrime; qua a me il fazzoletto.
Oh, così...
brava! Dunque, vi do parte e consolazione che la figlia del barone Troìsi si marita...
Scommetto che non ve ne importa nulla; ma a me sì, care; perché la signora baronessa, pare impossibile! ha la degnazione di dare ad allestire qua in paese il corredo della figlia, capite? e per buona parte me ne sono tolto il carico io.
Così lavoreremo tutti, e Dio ci ajuterà.
A casa nuova!
- Permesso? - fece a questo punto Ziro, l'usciere, su la soglia, inchinandosi goffamente, con la penna d'oca su l'orecchio, il calamajo e la carta in una mano, la tuba nell'altra.
I due giovinotti lo seguivano.
Sopravvenne Marta.
- Avanti, entrate pure.
Mamma, tu va' di là.
Oh, sei qui, Anna? Conduci, ti prego, Maria e la mamma di là.
- Hai visto? - disse la madre all'amica, alludendo a Marta.
- Come s'è potuta ridurre così?
- Come, Agata? osservò Anna Veronica.
- Perché vuoi credere che non soffra nulla? Non vorrà darlo a vedere in questo momento, per farvi animo...
- Sarà, - sospirò la madre.
- Ma tu lo sai; sei stata qua con noi: mentre l'inferno si scatenava, come si scatena tuttora su la mia povera casa, che ha fatto lei? Se n'è stata chiusa di là, come se non avesse voluto accorgersi di nulla.
Mi par miracolo che oggi si veda per casa, che s'interessi un tantino di noi...
Che scrive? che legge? Mi vergogno, Anna mia, ridotta come sono a badare a certe cose.
Io e Maria andiamo presto a letto per risparmiare il lume, e lei lo tiene acceso fino a mezzanotte, fino alle due del mattino...
Studia...
studia...
Ed io mi domando se la malattia, per caso, non le abbia dato al cervello...
Come! - dico, - sa in quale stato ci siamo ridotte...
il padre morto, la rovina...
la miseria...
e lei può attendere così alla lettura...
appartata, tranquilla, come se nulla fosse?
Anna Veronica ascoltava, addolorata: neppur lei arrivava a comprendere quel modo d'agire di Marta, tanta noncuranza, anzi peggio, insensibilità: non egoismo veramente, giacché anche lei era coinvolta nella rovina.
- Permesso? - venne a ripetere, poco dopo, anche su quella soglia l'usciere, seguito dai testimonii.
E anche da quella stanza le tre donne uscirono; e così, di stanza in stanza, furono quasi respinte da quella casa, che di lì a tre giorni abbandonarono per sempre.
Nella nuova, dopo il malinconico sgombero e il riassetto, Anna Veronica portò la tela odorosa, il bisso molle e delicato, e le trine e i nastri e i merletti della baronessina Troìsi.
La signora Agata, guardando Maria intenta al lavoro, tratteneva a stento le lagrime: ah, ella non avrebbe mai atteso a cucire il suo corredo da sposa: sarebbe rimasta così, povera figliuola, orfana e sola, sempre...
Marta, nella nuova casa, seguitava a tenere lo stesso modo di vita.
Anna Veronica, però, non se ne stupiva più: Marta le aveva confidato un suo proposito, imponendole di non parteciparlo né alla madre né alla sorella.
Lo partecipò lei finalmente, una sera, uscendo rannuvolata dalla sua camera.
S'era preparata agli esami di patente, che sarebbero cominciati la mattina appresso alla Scuola Normale.
Anna Veronica aveva presentato la domanda per lei, pagando, coi suoi risparmii, la tassa.
La madre e la sorella restarono.
- Lasciatemi fare, - disse Marta, urtata dal loro stupore.
- Non mi contrariate, per carità.
-
E tornò a chiudersi in camera.
Giungeva in tempo a dar gli esami con le antiche compagne di collegio.
Le avrebbe dunque rivedute! Non si faceva illusione su l'accoglienza che le avrebbero fatta.
Sarebbe andata incontro a loro col contegno di chi si tenga pronto a lanciare una sfida: sì, e non ad esse soltanto, se mai, ma a tutto il paese, di cui ora rivedeva le vie, per cui la mattina seguente sarebbe passata.
Avrebbe guardato in faccia la vigliacca gente che nel giorno della festa selvaggia l'aveva pubblicamente oltraggiata.
Pensando all'enorme folla imbestiata nel vino e nel sole, tumultuante con le braccia levate sotto i balconi dell'altra casa, Marta sentiva più forte l'impulso alla lotta; sentiva veramente, in quella vigilia, che sarebbe risorta dall'onta vile e ingiusta; armata di sprezzo e con l'orgoglio di poter dire: "Ho sollevato dalla miseria mia madre, mia sorella: esse vivono ora per me, di me!".
A poco a poco, confortata da questi pensieri, e la cura dell'avvenire sovrapponendosi nell'anima di lei alla costernazione per l'imminente prova, giunse a vincere la trepidazione; ma non cessò la smania, e quella si ridestò e crebbe, fino a divenire smarrimento, la mattina, al levarsi da letto.
Non sapeva più ciò che dovesse fare: si guardava attorno, quasi aspettando che la povera e scarsa suppellettile della camera glielo suggerisse, richiamandola: là il catino, in cui doveva lavarsi; qua la seggiola, su cui erano le vesti che doveva indossare.
Poco dopo si diede a far tutto frettolosamente.
Mentre si pettinava, così alla meglio, senza specchio, entrò la madre già pronta per accompagnarla.
- Oh brava, mamma! Finisci di pettinarmi tu, ti prego...
E` tardi!
E la madre si mise a pettinarla, come soleva ogni mattina quando ella si recava a scuola.
Finito, guardò la figlia: Dio! non le era sembrata mai tanto bella...
E provò un vivo ritegno pensando che doveva uscir con lei per la città, condurla tra gli sguardi maligni della gente, a un'impresa che, nella schiva umiltà della propria indole, non sapeva né comprendere, né apprezzare.
Pensava che quella bellezza, quell'aria di sfida che Marta aveva nello sguardo, avrebbero forse dato cagione alla gente d'esclamare: Guarda com'è sfrontata!
- Sei così accesa in volto...
- le disse, schivando di guardarla; e avrebbe voluto aggiungere: "Tieni gli occhi bassi per via".
Scesero finalmente la scala e s'avviarono strette fra loro, mentre Maria, dietro i vetri della finestra, le seguiva cogli occhi, trepidante.
La signora Agata avrebbe voluto essere almeno della metà men alta di statura, per non attirare tanto gli sguardi della gente e passare inosservata; correre in un baleno quella via che le pareva interminabile.
Marta invece pensava all'incontro con le antiche compagne, e non si dava col pensiero tanta fretta di sottrarsi alla via.
Arrivarono per le prime al Collegio.
- Oh signorina bella! Come mai? Qua di nuovo? Guarda come s'è fatta grande! Oh faccia rara...
- esclamò la vecchia portinaja, gestendo, dall'ammirazione espansiva, con la testa e con le mani.
- Nessuno, ancora? - domandò Marta, un po' imbarazzata, sorridendo benevolmente alla vecchia.
- Nessuno! - rispose questa.
- Lei, sempre la prima...
Si rammenta quand'era piccina così e, ogni santa mattina, bum! bum! bum! calci al portone...
Gesù mio, era quasi bujo...
Si rammenta?
- Ah, sì! - Marta sorrideva...
- Ah, i bei ricordi!
- Vogliono entrare in sala? - riprese la vecchia.
- La signora sarà stanca...
E, guardando la signora Agata in volto, sospirò, tentennando il capo:
- Povero signor Francesco! Che pena...
Non ne vengono più al mondo galantuomini come quello, signora mia! Basta.
Il Signore benedetto l'abbia in gloria! Credo che l'uscio della sala d'aspetto sia ancora chiuso.
Abbiano pazienza un tantino, vado a prender la chiave.
- Buona donna! - fece a Marta la signora Agata, grata dell'accoglienza rispettosa.
Dopo un minuto la vecchia portinaja tornò di corsa dicendo:
- Anche mia figlia Eufemia dà oggi gli esami con lei, signorina Marta!
- Eufemia? Sì? Come sta?
- Poveretta, non dorme più da tante notti...
Ah, per questo, buona volontà non gliene manca...
Lei che ha tanto talento, signorina, oggi, se mai, me l'ajuti un po'! Dicono ch'è la prova più difficile! Or ora la faccio venire giù: così le terrà compagnia...
Ecco, loro intanto s'accomodino qua.
E pulì con un lembo del grembiule il divano di cuojo.
- Se Eufemia studia, non la chiamate, - disse Marta alla vecchia che già usciva.
- Ma che! ma che! - rispose la vecchia senza voltarsi.
Eufemia Sabetti era stata, fin dalle prime classi, compagna di scuola di Marta, quantunque maggiore almeno di sei anni.
Cresciuta nella scuola, in mezzo a compagne molto superiori a lei di condizione, aveva assunto una cert'aria signorile che formava l'orgoglio della madre, la quale poi lo scontava a costo d'innumerevoli sacrificii.
Eufemia, è vero, dava del tu a tutte le compagne, portava il cappellino, aveva tratti e lezii da vera "signorina"; ma era pur rimasta nella considerazione delle compagne la figlia della portinaja.
Le compagne veramente non glielo spiattellavano in faccia: no, poverina! ma glielo lasciavano intendere o dal modo con cui le guardavano la veste e il cappellino, o col piantarla lì qualche volta per prestare ascolto a un'altra DELLE LORO.
Ed Eufemia faceva le viste di non accorgersene, per mantenersi in buoni rapporti con esse.
- Oh Marta! Che fortuna! - esclamò entrando e accorrendo a baciar l'amica, senza impaccio.
Salutò, ridendo, la signora Agata, e sedette sul divano, lasciando in mezzo Marta.
- Che fortuna! - ripeté.
- Come va? Qua di nuovo con noi? E farai gli esami?
Era bruna, magrissima, miserina nella veste latt'e caffè, guarnita di nero.
Parlando fremeva tutta, agitava continuamente le pàlpebre su gli occhietti vivi da furetto; ridendo scopriva la gengiva superiore e i denti bianchissimi.
Cominciavano di già le domande imbarazzanti.
E bisognava pur rispondere alla meglio alle più discrete; le altre però che restavano negli occhi d'Eufemia costringevano le parole di Marta a non esser sincere.
La signora Agata si alzò.
- Io torno a casa, Marta.
Ti lascio con l'amica.
Coraggio, figliuole mie!
Uscendo dalla sala d'aspetto, vide nell'atrio un crocchio di signorine in abiti gaj d'estate, tra le quali riconobbe alcune antiche compagne di Marta.
Queste tacquero a un tratto e abbassarono gli occhi mentr'ella passava.
Nessuna la salutò: una sola, Mita Lumìa, le rivolse un lieve cenno del capo.
La vecchia portinaja aveva loro annunziato la venuta di Marta.
- Badate, ci vuol faccia tosta! - diceva una.
- Io, per me, non entro, - dichiarava un'altra.
E una terza:
- Che viene a fare con noi?
- Oh bella, gli esami: potete impedirglielo? - rispondeva Mita Lumìa, urtata anche lei, ma non così accanita come le altre.
- Va bene; ma accanto a lei, - protestava una quarta, - non seggo, neanche se il direttore stesso viene a impormelo!
E una quinta diceva a Mita Lumìa:
- Se non sappiamo neppure come dobbiamo chiamarla! Pentàgora? Ajala?
- Oh Dio! Chiamatela Marta, come la chiamavamo! - rispose la Lumìa infastidita.
Nello stesso tempo Marta, con amaro sorriso, diceva alla Sabetti:
- Chi sa che dicono di me...
- Lasciale cantare! - le rispose Eufemia.
Irruppero e attraversarono la sala quattro del crocchio, di corsa, senza volgere gli occhi al divano.
Marta, quantunque grata in fondo alla Sabetti della compagnia che le teneva, non poteva tuttavia sottrarsi a un senso d'avvilimento nel vedersela accanto; non per sé, ma per quelle pettegole che la vedevano insieme con quella lì, accolta cioè dalla figlia della portinaja.
Si alzarono.
Entrò in quella Mita Lumìa senza fretta.
- Oh, Marta...
Come stai?
E tentò un sorriso e porse la mano, molle molle.
- Cara Mita...
- rispose Marta.
E rimasero lì un breve tratto senza saper dire una parola di più.
Parte 1,12
L'invidia da un canto, dall'altro gl'intrighi spezzati, le aspirazioni deluse trassero agevolmente dalla calunnia una scusa alla loro sconfitta.
Era chiaro!
Marta Ajala avrebbe occupato il posto di maestra supplente nelle prime classi preparatorie del Collegio, solo perché "protetta" del deputato Alvignani.
E vi fu, nei primi giorni, una processione di padri di famiglia al Collegio: volevano parlare col Direttore.
Ah, era uno scandalo! Le loro ragazze si sarebbero rifiutate d'andare a scuola.
E nessun padre, in coscienza, avrebbe saputo costringerle.
Bisognava trovare, a ogni costo e subito, un rimedio.
Il vecchio Direttore rimandava i padri di famiglia all'Ispettore scolastico, dopo aver difeso la futura supplente con la prova degli ottimi esami.
Se qualche altra avesse fatto meglio, sarebbe stata presa a supplire in quella classe aggiunta.
Nessuna ingiustizia, nessuna particolarità...
- Ma sì!
Il cavalier Claudio Torchiara, ispettore scolastico, era del paese e amico intimo di Gregorio Alvignani.
A lui i reclami si ritorcevano sotto altra forma e sotto altro aspetto.
Voleva l'Alvignani rendersi impopolare con quella protezione scandalosa?
E invano il Torchiara s'affannava a protestare che l'Alvignani non c'entrava né punto né poco, che quella della maestra Ajala non era nomina governativa.
Eh via, adesso! Che sostenesse ciò il Direttore del Collegio, TRANSEAT!, ma lui, il Torchiara, ch'era del paese; eh via! Bisognava aver perduto la memoria degli scandali più recenti...
Era venuta dunque così dall'aria quella nomina dell'Ajala? E in coscienza se il Torchiara avesse avuto una figliuola, sarebbe stato contento di mandarla a scuola da una donna che aveva fatto parlare così male di sé? Che fior di maestra per le ragazze!
Se a Marta, ogni dì più oppressa dalla crescente miseria, mentre furtivamente, non compresa dai suoi, chiusa nella sua cameretta, si preparava a quegli esami, si fosse per un momentino affacciato il pensiero che avrebbe incontrato, sott'altro aspetto, quasi la stessa vigliacca e oltraggiosa rivolta popolare; forse le sarebbe a un tratto caduto l'animo.
Ma spronavano allora la sua baldanza giovanile da un canto troppa ansia di risorgere, dall'altro la miseria in cui senza riparo ella e la sua famiglia precipitavano e la coscienza del proprio valore e la santità del suo sacrifizio per la madre e la sorella.
Pensava allora soltanto a vincere la prova; sarebbe poi riuscita nel suo intento, avvalendosi della prova superata.
Ora, ora intendeva lo stupore doloroso della madre e della sorella all'annunzio della sua animosa determinazione.
E ancora non le era arrivata agli orecchi la calunnia di cui la gente onesta si armava per osteggiarla, per ricacciarla bene addentro nel fango da cui smaniava d'uscire!
La vecchia Sabetti era intanto venuta ad annunziarle, addolorata, che al posto già promesso a lei avrebbe insegnato la Breganze, nipote d'un consigliere comunale.
Nel frattempo, alla notizia inattesa che Marta intendeva darsi all'insegnamento, la pietà di Rocco Pentàgora, prossima a cangiarsi in rimorso, improvvisamente aombrata, s'era cangiata, invece, in dispetto.
Egli non vide in quella determinazione di Marta le strette della necessità, l'urgenza di provvedere ai bisogni primi della famiglia, ai quali lui stesso di nascosto avrebbe voluto provvedere; vide soltanto l'ardita e sprezzante volontà di lei di levar la fronte contro tutto il paese, quasi dicendo: "Basto a me stessa e ai miei: non mi curo della vostra condanna".
E si sentì messo da parte; non solo non curato, ma anche disprezzato e deriso dalla moglie.
E una smania rabbiosa cominciò ad agitarlo, la quale si manifestava specialmente in uno sdegno incomprensibile per la professione ch'ella voleva darsi a esercitare:
- La maestra! La maestra! Colei che fu mia moglie, ora deve fare la maestra!
E non se ne poteva dar pace, come se fare la maestra significasse un disonore per il nome che aveva portato.
Intanto, come impedirglielo? come farsi vivo? come farle sentire che non poteva non curarsi di lui, spezzare la catena, sottrarsi al peso morto d'un legame, a cui non s'era mantenuta fedele?
E le smanie crescevano...
Un nuovo scandalo? una nuova vendetta? Si sarebbe prestato a fomentare la calunnia della pretesa relazione tra Marta e l'Alvignani, pubblicando le lettere che questi le aveva scritte? No, no! Il ridicolo sarebbe caduto più apertamente sopra di lui.
Tanto, il paese credeva a quella relazione scandalosa, e il partecipare alla calunnia gli avrebbe fatto soltanto sentire vieppiù l'impotenza sua contro colei che mostrava di non curarsi né di lui né di nessuno.
Meglio anzi fare in modo che quella calunnia si sventasse.
Sì...
ma come? E qui un sorgere e un immediato abortire di propositi contrarii, ora dettati dall'odio per l'Alvignani, e furibondi, ora dalla stizza, ora dall'amor proprio ferito, ora dalla generosità.
Usciva di casa, senza direzione.
A un tratto, si ritrovava per la strada del sobborgo, presso alla concerìa di Francesco Ajala.
Che era venuto a fare fin qua? Oh, se avesse potuto vederla...
Ecco la vecchia casa...
Adesso ella abitava più giù...
dopo la chiesa...
E si avanzava cauto, guardando furtivamente ai rari balconi illuminati.
Al primo rumore di passi in distanza, per la strada solitaria, tornava indietro per non farsi scorgere in quei dintorni; e rincasava.
Ma il giorno appresso, daccapo.
Perché quella smania di rivedere Marta, o meglio, di farsi rivedere da lei? Non lo sapeva neppur lui.
Se la immaginava vestita di nero, come Niccolino l'aveva veduta quel giorno, in chiesa.
- Sai? Più bella di prima!
Ma ella, certo, non lo avrebbe guardato; avrebbe abbassato subito gli occhi scoprendolo da lontano.
Fermarla per istrada? parlarle? Follie! E che avrebbe pensato la gente? E lui, che le avrebbe detto?
In tali condizioni di spirito, una mattina, si recò in casa di Anna Veronica.
Nel vederselo davanti, pallido, sconvolto, Anna restò.
- Che vuole da me?
- Scusi dell'incomodo...
Stia, stia seduta, prego.
Prendo la seggiola da me.
Ma tutte le seggiole erano ingombre di biancheria ammonticchiata, e Anna dovette alzarsi per liberarne una.
- Quanta bella roba...
- fece Rocco, imbarazzato.
- Della baronessa Troìsi.
- Per la figlia?
Anna accennò di sì col capo, e Rocco trasse un sospiro, contraendo la fronte e infoscandosi.
Si ricordò dei preparativi delle sue nozze, del corredo di Marta.
- Ecco la seggiola, - gli disse Anna, con impacciata premura.
Rocco sedette, cupo.
Non sapeva da qual parte incominciare il discorso.
Restò un momento con le ciglia aggrottate, gli occhi bassi, insaccato nelle spalle, come in attesa di qualche cosa che dovesse cadergli addosso.
Anna Veronica, ancora presa dallo stupore, lo spiava in volto acutamente.
- Lei...
già saprà...
m'immagino, - cominciò egli finalmente, impuntando a ogni parola, senza alzar gli occhi.
- So che è amica di casa di...
e anzi...
S'interruppe; non poteva seguitare in quel tono, in quella positura.
Si scosse, alzò la testa e guardò Anna in faccia.
- Senta, signora maestra, io credo che...
sì, io non credo a ciò che la gente va dicendo contro di...
Marta, adesso, per questa sua nuova pazzia...
- Ah, - fece Anna, crollando il capo con un mesto sorriso.
- La chiama pazzia, lei?
- Più che pazzia! - rispose Rocco, pronto, con ira.
- Scusi...
- Non so che vada dicendo la gente, - riprese Anna.
- Me l'immagino...
E lei fa bene, signor Pentàgora, a non crederci; tanto più che nessuno meglio di lei può sapere.
-
- Non parliamo di questo! non parliamo di questo, la prego! - saltò a dir Rocco, ponendo le mani avanti.
- Non sono venuto per parlare del passato.
- E allora? Scusi, se lei stesso dice che non crede...
- tentò d'aggiungere Anna.
- Che cosa? Sa che dice la gente? - domandò egli con voce alterata.
- Che la corrispondenza con l'Alvignani séguita...
Ecco!
- Séguita?
- Sissignora.
E questo perché? Per l'eterna sua smania di comparire! Ma come...
tu sai ciò che ti pesa addosso, sai quello che hai fatto, e hai il coraggio d'uscire in piazza a sfidare la maldicenza del paese? La gente parla...
Sfido! Come ha ottenuto quel posto?
- Ma si sa! - fece Anna con amarissimo sdegno.
- Così soltanto oggi si ottengono i posti! E sono loro, i tanti guardiani dell'onestà che ha il nostro paese, che insegnano il modo e la via...
Fate così, perché tanto...
lo facciate o no, è tutt'uno; per noi sarà sempre come se l'aveste fatto.
Sciocca Marta, dunque, che non l'ha fatto, è vero? Che le ha giovato? Chi ci crede?
- Io non ci credo, le ho detto, - rispose Rocco, infoscandosi maggiormente.
- E pur nondimeno ritengo che, se la gente sparla, non ha tutti i torti...
Che vuole che si capisca d'esami fatti più o meno bene? Si pensa all'intrigo, si pensa! Eh, non vuol guardarci, lei, da quest'altro lato...
Ecco perché può scusarla!
- Non solo, sa? - gridò Anna, levandosi, - ma anche lodarla, signor Pentàgora! Io lodo Marta e l'ammiro! Perché entro nella coscienza di quella povera figliuola e, se ci vedo un rimorso per gli altri che penano per lei ingiustamente, non ci trovo però né macchia né peccato, davanti a Dio! Ci trovo il bruciore per le offese, per gli oltraggi patiti, ci sento un grido: "Ora basta!".
Ma sa lei come sono ridotte? Sa che non hanno più neanche da mangiare? A chi spettava di sostenere la madre e la sorella? di rialzarle un po' dalla miseria? So io, so io il sacrifizio che le è costato, povera Marta! O dovevano morire di fame per far piacere a lei e al paese?
Rocco Pentàgora si alzò anche lui, stravolto, con la faccia pezzata qua e là di rosso; s'aggirò smaniosamente per la stanza, tastando i mobili, agitando continuamente le dita; poi s'accostò ad Anna, con gli occhi torvi, le afferrò le mani:
- Senta, signora maestra...
Per carità, le dica...
le dica che rinunzii all'idea di...
di far la maestra; che...
che non dia più cagione alla gente di sparlare e...
e provvederò io, dica così, ai bisogni della sua famiglia, senza...
senza farlo sapere a nessuno...
neanche a mio padre, s'intende! Glielo prometto su la santa memoria di Francesco Ajala! Non lo faccio per amore, creda! lo faccio per decoro, di lei e mio...
Glielo dica...
Anna Veronica promise di far l'ambasciata: e poco dopo egli, ripetendo raccomandazioni e promesse, andò via più turbato e smanioso di com'era venuto.
- Per decoro, non per amore...
Glielo dica.
Per decoro! siamo intesi...
Parte 1,13
Anna Veronica scappò in fretta dalle Ajala, appena andato via Rocco Pentàgora.
- Dov'è Marta? - domandò piano a Maria, ponendosi un dito su le labbra.
- Nella sua camera...
Perché?
- Zitta! Piano!
Fece segno alla signora Agata d'accostarsi; si guardò d'attorno:
- Lasciatemi sedere...
Tremo tutta...
Ah, care mie, se sapeste! Indovinate chi è venuto da me, poco fa? Il marito di Marta!
- Rocco! Lui! - esclamarono insieme, sottovoce, Maria e la madre, stupite.
Anna si ripose il dito su le labbra.
- Come un pazzo, - aggiunse, agitando le mani per aria.
- Ah che paura! La ama ancora, ve lo dico io! Se non fosse...
- Ma sentite: dunque, è venuto da me.
Io, dice, non credo alle calunnie della gente...
- E allora? - scappò dal cuore alla madre.
- Giusto così: e allora? gli ho detto io, come te.
Ma egli, Marta, dice, - aspetta! - non doveva, dice, esporsi alla malignità della gente, far la maestra, insomma...
N'è sdegnato, avvilito...
Basta: sapete, care mie, che m'ha proposto? Che io induca Marta a rinunziare alle sue idee...
Provvederà lui, dice, ai bisogni vostri; tanto perché la gente non sparli più.
- E nient'altro? - sospirò a questo punto la signora Agata.
- Ah, con un po' di danaro soltanto, somministrato di furto, come in elemosina, intende di chiudere la bocca alla gente? E domani non si dirà che il denaro ci venga da altra mano? Oh sciocco e vile!
- No! no! - riprese Anna.
- Non dire così...
E` innamorato, credi a me...
Ma c'è quel cane giudeo del padre, capisci? e finché c'è lui...
Se Marta intanto volesse scrivergli un biglietto...
- A chi?
- A lui, al marito! da intenerirlo; una lettera come lei sola sa scriverne...
Questo sarebbe proprio il momento! "Tu sai bene," dovrebbe dirgli, "quanto ci sia stato di vero...
e ora vedi come sono trattata? ciò che si dice di me?" Ah, se volesse scrivergli queste due parole...
Tanto più che me l'ha chiesta lui una risposta...
Che ne dite?
- Marta non lo farà! - disse Maria, scotendo il capo.
- Proviamo! - replicò Anna.
- Volete che le parli io? Dov'è?
- Di là, - accennò la signora Agata.
- Ma temo che non sia il momento...
- Vado io sola, - aggiunse Anna, levandosi.
Marta era stesa sul lettuccio, con le braccia conserte sul guanciale e la faccia nascosta; appena sentì schiudere l'uscio restrinse le braccia e vi cacciò più addentro il volto.
- Sono io, Marta, - disse Anna, richiudendo l'uscio pian piano.
- Lasciami, per carità, Anna! - rispose Marta, senz'alzare la testa, agitandosi sul letto.
- Non tentare di confortarmi!
- No, no, - s'affrettò a soggiungere Anna Veronica, accostandosi al lettuccio e posandole lieve una mano su le spalle.
- Volevo soltanto vederti...
- Non voglio veder nessuno, non posso sentire nessuno, in questo momento! - riprese Marta smaniosamente.
- Lasciami, per carità!
Anna ritrasse subito la mano, e disse:
- Hai ragione...
Attese un pezzo, poi riprese sospirando:
- Troppo bello...
troppo facile sarebbe stato! T'immaginavi che la gente non dovesse impedirti d'andare per la strada che ti sei aperta col lavoro, con l'ingegno, col coraggio...
Ma a che servono, cara mia, queste cose? Protezioni ci vogliono! Ne hai? No...
Si va avanti con queste soltanto; e ognuno giudica come pensa...
Marta levò improvvisamente la testa dal guanciale e disse con ira:
- Ma se l'avevano promesso a me, quel posto!
- Sì, - replicò subito Anna, - ed è infatti bastato questo soltanto, questa semplice promessa non mantenuta, perché la gente cominciasse a gridare che tu eri protetta da qualcuno...
- Io? - fece Marta, non comprendendo dapprima e guardando negli occhi Anna Veronica.
Poi diede un grido: - Ah!...
Io...
io...
- E non poté dir altro; si premette il volto con le mani; poi proruppe: - Eh già! sì...
sì...
così deve credere la gente! Ci sarà chi va spargendo questa nuova calunnia!
- Lui, no, sai? tuo marito, no, - disse subito Anna.
- E` venuto da me apposta, per dirmelo.
- Rocco? - esclamò Marta, sbalordita, tentando invano d'aggrottare le ciglia.
- Rocco è venuto da te?
- Sì, sì, poco fa...
per dirmi che non ci crede!
- Da te? lui?
Lo sbalordimento impediva ancora all'odio di trovare la ragione di quella visita.
- E che vuole?
- Vuole...
- rispose Anna, - vorrebbe che tu...
- Sai che vuole? - scattò Marta, con gli occhi lampeggianti.
- Gli è mancato il coraggio; ha rimorso, da un canto; e, dall'altro...
io ho tentato di alzare la testa, è vero? ebbene, e lui, giù! vorrebbe farmela riabbassare, giù! giù! nel fango in cui m'ha gettata! Questo vuole! Io non debbo più respirare; non debbo cancellarmi dalla fronte, qua, il marchio, il marchio con cui ha creduto di bollarmi! Questo vuole! Oh, se gli do questa soddisfazione, di rimanere appiattata nel fango, come una ranocchia ch'egli possa schiacciare col piede, se gliene venga la voglia; se gli do questa soddisfazione, sai? ma sarebbe anche capace di mantenermi, di darmi da vestire e da mangiare, a me e ai miei...
Anna la guardò sorpresa e dolente.
- Non vuole questo, di'? - incalzò Marta.
- Ho indovinato? Vuoi darlo davvero a conoscere a me? Gli leggo in fronte, come in un libro, ciò che gli passa per il capo!
- Se tutto questo volessi scriverglielo...
- arrischiò timidamente Anna.
- Io? a lui?
- Perché vorrebbe una risposta...
- Da me? - fece Marta, con sdegno.
- Io, scrivere a lui? Ma io...
guarda, piuttosto...
giacché nulla è valso per costoro e la mamma e Maria per vivere debbono avvilirsi con me al servizio altrui...
io, guarda, a un altro piuttosto scriverei...
a Roma...
- No, Marta! - esclamò Anna, afflitta.
- No...
no...
- si disdisse subito Marta, rovesciandosi di nuovo sul letto, con la faccia affondata nei guanciali.
- No...
lo so! Morire di fame, piuttosto...
Anna Veronica non seppe dirle più nulla.
Carezzò con gli occhi pietosi, sul letto, quel corpo fiorente, scosso dal pianto; con una mano le rassettò sui piedi un lembo della veste che le si era rimboccato su la gamba.
Sospirò e uscì dalla camera.
Né la signora Agata né Maria, rivedendola, le domandarono nulla.
Tutt'e tre stettero in silenzio un lungo tratto, con gli occhi fissi nel vuoto.
- Se tu andassi dal Torchiara? - suggerì Anna, alla fine.
La signora Agata la guardò, come per dire: "A far che?".
- E` un'ingiustizia, - aggiunse Anna.
- Qualche cosa il Torchiara ti dirà...
Anche per sentire...
Potete durare così?
Da due giorni, infatti, Marta non prendeva quasi cibo, buttata lì sul letto, irremovibile.
- Che vuoi che mi dica? - Sospirò la signora Agata.
- Ormai il posto è dato...
- Ma era stato promesso a Marta, prima! - disse Anna.
- Ti spiegherà...
No, senza farti illusioni, lo so; ma ti dirà almeno qualche buona parola.
Per scuotere questa povera figliuola...
Sù, Agata mia, va'...
Ora stesso! Lo so, è un sacrificio...
- Per me? - fece desolatamente la signora Agata, levandosi e aprendo le braccia.
Tutto per lei, ormai, era come niente.
Non aveva più volontà.
Si appuntò la cuffia vedovile su i capelli divenuti grigi in pochi mesi, e disse:
- Per me, vado subito...
Come se avesse veramente da vergognarsi di qualche cosa, schivava però per via gli sguardi della gente.
Erano tanti, tutto il paese era per l'ingiustizia, per la condanna; e s'era nascosto il marito, l'uomo che non aveva chiesto mai nulla, che non s'era mai inchinato ad alcuno.
Che era lei? Una povera donna era, sbigottita da quella ingiustizia, sbigottita dalla sciagura; e si vergognava, sì, della miseria, si vergognava della veste che aveva indosso.
Marta, Marta avrebbe dovuto starsene rassegnata e dimessa, ad aspettare giustizia dal tempo: avrebbero lavorato tutte e tre insieme, nell'ombra, e tirato innanzi alla meglio; senza andare a suscitare di nuovo tutta questa guerra.
Ecco la casa del Torchiara.
Salì a stento, ansimando, la scala; davanti all'uscio prima di sonare, si nascose il volto con le mani.
- E` solo? - domandò per prima cosa alla serva, che venne ad aprirle.
- No, c'è il professor Blandino, - le rispose questa.
- Allora...
aspetto qua?
- Come vuole...
Intanto, l'annunzio.
Poco dopo, il cavalier Claudio Torchiara, scostando con una mano la tenda dell'uscio e rialzandosi con l'altra sul naso le lenti fortissime da miope che gli rimpiccolivano gli occhi, chiamò:
- Venga avanti, favorisca, signora!
La prese per mano e la condusse davanti al canapè dello studio.
La signora Agata, inchinando il capo con un sorriso mesto, sedette in un angolo del canapè.
- Il professor Luca Blandino, - aggiunse il Torchiara, presentandolo.
- Conosco...
conosco...
- interruppe l'uomo calvo e barbuto, porgendo distrattamente la mano alla signora che guardava imbarazzata.
- La vedova di Francesco Ajala? Gran galantuomo, suo marito!
Il Torchiara sospirò, rialzandosi una seconda volta sul naso le lenti legate in grossi cerchietti d'oro.
Vi fu un momento di silenzio, durante il quale la signora Agata frenò a stento le lagrime.
- Com'è vero, - riprese il Blandino, con gli occhi chiusi, le braccia conserte, - com'è vero che la nostra condotta è per gli altri giusta o ingiusta, non in virtù della sua natura intrinseca, ma in virtù d'ordini estrinseci...
Come abbiamo giudicato noi Francesco Ajala? Lo abbiamo giudicato col vocabolario di cui comunemente ci serviamo parlando d'obblighi e di doveri, cioè senza penetrare affatto nel codice particolare prescritto a lui dalla sua stessa natura e redatto, per così dire, dalla sua educazione.
Purtroppo così giudichiamo noi!
E si alzò.
- Te ne vai? - gli domandò il Torchiara.
Il Blandino non rispose: si mise a passeggiare per la stanza con le ciglia corrugate e gli occhi semichiusi, non intendendo affatto, nella sua distrazione, di quanto impaccio fosse alla signora la sua presenza e quanto sconveniente.
- Ella mi fa l'onore di questa visita per la sua figliuola, è vero, signora? - domandò piano il Torchiara, guardandola con aria di rassegnazione e di scusa per la presenza del Blandino, come se volesse dirle: "Pazienza! bisogna compatirlo: è fatto così...".
Al Torchiara però non rincresceva affatto la presenza del Blandino.
Lo aveva anzi trattenuto apposta all'annunzio della visita, per far che questa non durasse troppo e non riuscisse soverchiamente penosa all'ottimo suo cuore, sensibilissimo.
Gli toccava infatti di togliere le ultime speranze a quella povera madre...
Ma era troppo presto, ecco, per una nomina, fosse pur temporanea, di semplice supplenza...
Carriera difficile, difficilissima, quella dell'insegnamento! Bisognava attendere ancora un po', ecco...
Oh, l'avvenire sarebbe stato piano, ridente di belle promesse per la giovine maestra, senza dubbio! Come, come? La Breganze? Ah sì...
E a questa interrogazione molto imbarazzante per l'ottimo suo cuore, il cavalier Torchiara si grattò il capo con un dito e si rialzò una terza volta sul naso le lenti.
Sì, la Breganze, la nipote del consigliere Breganze, amico suo...
Nessuna inframmettenza, badiamo! Precedenza soltanto, questione di precedenza, ecco...
Non di valore! Per quanto la Breganze, brava insegnante anch'essa, via...
Ma egli sapeva bene che il valore della giovine maestra Ajala era incomparabilmente superiore...
oh sì! oh sì!
A Luca Blandino, mentre passeggiava assorto nei suoi pensieri, con le mani congiunte dietro la schiena, giungevano alcune frasi a mezzo, che gli facevano corrugare vieppiù le ciglia, di tratto in tratto.
Non intese nulla del penosissimo dialogo; notò solo l'espressione d'angoscioso smarrimento, di profonda disperazione sul volto della signora Ajala, quando si alzò e chinò il capo in segno di saluto.
- Auff! - sbuffò il Torchiara, dopo avere accompagnato la signora fino alla porta, rientrando in salotto.
- Non ne posso più di questa maledetta faccenda! La compatisco, povera signora.
Ma che posso farci io, se la figliuola...
Tu m'intendi! Abbiamo la disgrazia di vivere in una piccola città, dove certe cose non si sanno perdonare, né dimenticare...
Non posso mica mettermi, signor mio, contro tutto il paese, Orazio sol contro BEOZIA tutta!
- Di che si tratta? - domandò il Blandino.
- Miserie, caro, miserie! Della più tremenda: quella in abito nero! Di pane si tratta...
Ma che posso farci, signore Iddio benedetto? Me n'affliggo, e basta.
E spiegò al Blandino le ragioni della visita della signora Ajala.
- Come? E tu l'hai mandata via così? - esclamò il Blandino, in risposta.
- Ohi ohi ohi...
m'hai tutto scombussolato...
Come? Perdio! Ma qui bisogna agire, riparare...
e subito!
Il Torchiara scoppiò a ridere.
- Dove vuoi andare adesso?
Il Blandino, tutto agitato, s'era messo a correre per la stanza.
- Il cappello...
Dove ho lasciato il cappello?
- La testa! la testa! - esclamò il Torchiara, ridendo ancora.
- Cerca la testa piuttosto!
Lo afferrò per un braccio.
- Vedi? Poi ti dicono pazzo! Prima hai preso le parti del marito, nel duello; adesso vuoi difendere la moglie?
- Ma io non giudico come voi! - gli gridò Luca Blandino.
- Io giudico secondo i casi: non mi traccio, come voi, una linea: fin qui è male, fin qui è bene...
Lasciami agire da pazzo! Vado a scrivere un letterone d'improperii a Gregorio Alvignani...
Ah, lui, il grand'uomo, se ne deve uscire così, dopo aver gettato nell'ignominia e nella miseria un'intera famiglia? Ma sai che le lettere gliele buttava dalla finestra come un ragazzino? Ti saluto...
ti saluto...
E il Blandino scappò via, tra le risa sforzate del cavalier Claudio Torchiara.
Parte 1,14
Circa tre mesi dopo, inaspettatamente, venne a Marta un invito del Direttore del Collegio.
La vecchia portinaja Sabetti, che aveva recato dolente la cattiva notizia della supplenza accordata alla Breganze, entrò questa volta gridando, tutta esultante:
- Signorina! Signorina! La avremo con noi! Con noi, signorina bella! Tenga, legga questo biglietto...
Fu, nella squallida desolazione, come un raggio di sole improvviso.
Marta diventò in volto di bragia.
- Che felicità! - seguitava la vecchia Sabetti, gestendo con fuoco.
- La maestra Flori della seconda preparatoria, se ne torna lassù, fuorivia! Ha ottenuto il trasloco, Dio sia lodato! Le ragazze rifiateranno.
-
- Debbo recarmi in giornata al Collegio...
annunziò Marta con voce tremante dalla commozione, dopo aver letto l'invito.
- Sissignora! - riprese la vecchia portinaja.
- E vedrà che è per questo! Ne sono sicura!
- Ma come! - osservò Marta.
- La Flori, trasferita?
- Traslocata, sissignora! Fortuna, le dico, per le povere ragazze...
Che pittima!
- Con l'anno scolastico già cominciato? - osservò Marta, non sapendo che pensare.
- Il Torchiara, forse...
- sfuggì alla signora Agata.
E riferì alla figlia la visita fatta di nascosto all'Ispettore scolastico.
Poco dopo, mentre si vestiva per recarsi al Collegio, passata la prima commozione, Marta intuì a chi doveva quella nomina tardiva: n'ebbe una scossa, e sentì mancarsi a un tratto la forza d'agganciare il busto alla vita.
Ricominciò la guerra fin dal primo giorno di scuola.
Già le altre maestre del Collegio, oneste e brutte zitellone, se la recarono subito a dispetto.
Gesù, Gesù! un breve saluto, la mattina, con le labbra strette, e via; un freddo, lieve cenno del capo, ed era anche troppo! Un'onta per la classe delle insegnanti! un'onta per l'Istituto! Il mondo, sì, intrigo: per riuscire, mani e piedi! ma onestamente, oh! Anzi, ONORATAMENTE.
E, sotto sotto, comentavano con acre malignità il modo con cui il Direttore e gli altri professori del Collegio fin dal primo giorno si erano messi a trattare l'Ajala; e rimpiangevano quella cara maestra Flori che non avrebbero più riveduta.
La Flori: che pena!
Riusciti vani i nuovi e più aspri reclami delle famiglie, le ragazze (assentatesi per alcuni giorni dalla scuola all'annunzio della nomina di Marta) cominciarono man mano a ripigliare le lezioni; ma cattive, astiose, messe sù evidentemente dai genitori contro la nuova maestra.
A nulla giovò l'affabilità con cui Marta le accolse per disarmarle fin da principio; a nulla la prudenza e la longanimità.
Si sottraevano sgarbatamente alle carezze, si mostravano sorde ai benevoli ammonimenti, scrollavano le spalle a qualche rara minaccia; e le più cattive, nell'ora della ricreazione in giardino, sparlavano di lei in modo da farsi sentire o, per farle dispetto, accorrevano ad attorniare le antiche maestre e a carezzarle, piene di moine e di premure, lasciando lei sola a passeggiare in disparte.
Ritornando a casa, dopo sei ore di pena, Marta doveva fare uno sforzo violento su se stessa per nascondere alla madre e alla sorella il suo animo esasperato.
Ma un giorno, ritornando più presto dal Collegio, accesa in volto, vibrante d'ira contenuta a stento, appena la madre e Anna Veronica le domandarono che le fosse avvenuto, ella, ancora col cappellino in capo, scoppiò in un pianto convulso.
Esaurita finalmente la pazienza, vedendo che con le buone maniere non riusciva a nulla, per consiglio del Direttore s'era messa a malincuore a trattare con un po' di severità le alunne.
Da una settimana usava prudenza con una di esse, ch'era appunto la figlia del consigliere Breganze, una magrolina bionda, stizzosa, tutta nervi, la quale, messa sù dalle compagne, era giunta finanche a dirle forte qualche impertinenza.
- E io ho finto di non udire...
Ma quest'oggi alla fine, poco prima che terminasse la lezione, non ho saputo più tollerarla.
La sgrido.
Lei mi risponde, ridendo e guardandomi con insolenza.
Bisognava sentirla! "Esca fuori!" "Non voglio uscire!" "Ah! no!" Scendo dalla cattedra per scacciarla dalla classe: ma lei s'aggrappa alla panca e mi grida: "Non mi tocchi! NON VOGLIO LE SUE MANI ADDOSSO!".
"Non le vuoi? Via, allora, via! esci fuori!" e fo per strapparla dalla panca.
Lei allora si mette a strillare, a pestare i piedi, a contorcersi.
Tutte le ragazze si levano dalle panche e le vengono intorno; lei, minacciandomi, esce dalla classe, seguita dalle compagne.
E` andata dal Direttore.
Questi non mi dà torto in loro presenza; rimasti soli, mi dice che io avevo un po' ecceduto; che non si debbono, dice, alzar le mani su le allieve...
Io, le mani? Se non l'ho toccata! Alla fine però accetta le mie ragioni...
Ma Dio, Dio; come andare avanti così? Io non ne posso più!
Il giorno appresso, intanto, il padre della ragazza, il consigliere cavaliere ufficiale Ippolito Onorio Breganze, andò a fare una scenata nel gabinetto del Direttore.
Era furibondo.
L'obesità del corpo veramente non gli permetteva di gestire come avrebbe voluto.
Corto di braccia, corto di gambe, portava la pancetta globulenta in qua e in là per la stanza, faticosamente, facendo strillare le suole delle scarpe a ogni passo.
Alzare le mani in faccia alla sua figliuola? Neanco Dio, neanco Dio doveva permetterselo! Lui, ch'era il padre, non aveva mai osato far tanto! Si era forse tornati ai beati tempi dei gesuiti, quando s'insegnava a colpi di ferula su la palma della mano o sul di dietro? Voleva pronta e ampia soddisfazione! Ah sì, perrrdio! Se la signora Ajala aveva valide protezioni e preziose amicizie, lui, il consiglierrr Breganze, avrebbe rrreclamato rrriparazione e giustizia più in alto, più in alto (e si sforzava invano di sollevare il braccino) - sissignore, più in alto! a nome della Morale offesa non solo dell'Istituto, ma dell'intero paese.
E DRI DRI DRI - strillavano le scarpe.
Il Direttore non riusciva a calmarlo.
Gli veniva quasi da ridere: in paese si diceva che colui non era veramente il padre della sua figliuola.
Ma il consigliere Ippolito Onorio Breganze, paonazzo in volto, non poteva accontentarsi della semplice riprensione fatta a quattr'occhi alla maestra: pretendeva, esigeva una grave, una seria punizione! A lui, adesso, non istava più a cuore soltanto la sua cara piccina, ma anche "la salute morale, signor Direttore, di tutto il paese scandalizzato!".
Non era forse a conoscenza il signor Direttore di quanto era avvenuto? non sapeva a qual donna si era affidata l'educazione delle tenere menti, delle gracili anime?
- E` un'im-mo-ra-li-tà! - tuonò alla fine con tutta la voce, sillabando.
- O ci rrrimedia lei, o ci rrrimedio io.
Vado a far reclamo formale all'Ispettore scolastico! La rrriverisco.
E cacciandosi di furia in capo, puhm! il cappello a stajo, se ne andò.
Entrava il bidello.
Si diedero un inciampone così forte, che per poco non si gettarono a terra tutti e due.
- Scusi...
- Scusi...
E DRI DRI DRI...
Due giorni dopo, il Direttore del Collegio fu chiamato dall'Ispettore scolastico.
Da due mesi il Torchiara notava, costernato, il grave danno che quella nomina della maestra Ajala produceva in paese alla posizione politica non ancora assodata dell'Alvignani.
"Signor mio, il cuore è stato sempre il gran nemico della testa!" aveva ripetuto più volte a se stesso.
Perché si dilettava, il cavalier Claudio Torchiara, di formulare aforismi, intercalandovi di solito quel SIGNOR MIO anche quando gli enunziava a una donna o, per solitario spasso, a se medesimo.
La visita furibonda del consiglier Breganze lo aveva lanciato addirittura in un mare di confusione.
Adesso, dunque, pure il Municipio si sarebbe voltato contro l'Alvignani? Aveva promesso al Breganze riparo e soddisfazione, ora invitava il Direttore del Collegio; vagliando e traendo giudizio dalle opposte versioni del fatto, avrebbe scritto all'Alvignani per provvedere alla meglio e salvare all'uopo, come suol dirsi, capra e cavoli.
In ultima analisi, pazienza per la capra.
I cavoli, in questo caso, erano i voti con cui Gregorio Alvignani era stato eletto deputato.
Il Direttore del Collegio, sebbene stanco ormai delle noje che gli aveva cagionate involontariamente quella maestra, difese pure Marta davanti all'Ispettore, per debito di coscienza.
- Capisco, capisco, gli rispose il cavalier Torchiara.
- Ma l'ingegno, signor mio, e la volontà di far bene non bastano; bisogna pure guardare, guardare nella vita privata, la quale, signor mio, influisce, ha il suo peso e non poco su la considerazione, in cui le allieve debbono tenere la propria maestra, mi spiego?...
la quale...
Ma il Direttore era venuto da poco in paese; non sapeva i precedenti della maestra; ammirato invece del grande valore di lei, credeva meritasse ogni considerazione!
- E ne terremo conto! - esclamò il cavalier Torchiara.
- Come no? ne terremo conto, tanto più che io so in che tristi condizioni versi la famiglia di lei, la quale...
Non dubiti, si provvederà, con un trasferimento, per esempio, vantaggioso per la maestra...
Intanto, signor mio, il naso bisogna pur cacciarlo fuori della scuola...
e...
e tener conto dei reclami del pubblico, il quale...
Ecco, pare tuttavia che la signora maestra, per quanto, non dico di no, provocata e anche in certo qual modo scusabile...
pare abbia..
sì, dico, ecceduto un tantino...
Eh già! Il Breganze, signor mio, personaggio di conto...
eh!...
e anche nell'interesse della maestra, sarà meglio dargli qualche soddisfazioncella, perché la cosa non esca dalle sfere scolastiche, mi spiego?...
Senta, facciamo così.
Lei persuada la maestra Ajala a darsi per ammalata per una quindicina di giorni, e intanto chiami una supplente perché le alunne non abbiano a soffrirne nello svolgimento del programma, il quale...
Nel frattempo si provvederà.
Va bene così?
E lo stesso giorno scrisse una lunga lettera confidenziale al SUO CARO GREGORIO, scongiurandolo di far tutto il possibile per ottenere il trasferimento della sua "raccomandata" - causa per lui di gravissimi danni.
Non s'illudeva su le difficoltà; ma a lui, all'Alvignani, dopo lo splendido discorso alla Camera dei Deputati nella discussione del bilancio della pubblica istruzione (discorso che, d'un colpo - non per adularlo! - gli aveva creato una vera posizione parlamentare, come tutti i giornali assicuravano), nessuna difficoltà doveva riuscire insormontabile.
Per quell'anno, del resto, la maestra Ajala poteva andare come supplente nel Collegio Nuovo in Palermo (posto vacante).
In attesa di così grave decisione, Marta fu costretta a prolungare di altri quindici giorni "la sua malattia".
Dopo circa un mese arrivarono due lettere dell'on.
Alvignani, una per Marta, l'altra per l'ispettore Torchiara.
Nel ricever quella lettera, Marta provò un vivissimo turbamento.
Avvilita dall'impotenza di lottare contro l'ingiustizia patente di tutti; rivoltata della punizione inflittale immeritamente, si sentiva ormai avvelenata d'odio e di bile.
Quella lettera le parve un'arma per la vendetta.
Era sapientemente composta; non una anche vaga allusione al passato che potesse in quel momento urtarla; ma, sotto le amare riflessioni su la vita e su gli uomini, tanta intuizione dello stato d'animo in cui ella si trovava! Meglio, meglio chiudersi in un sogno continuo, sopra le volgarità e le comuni miserie dell'esistenza quotidiana, sopra il giogo livellatore delle leggi a un palmo dal fango, rete protettrice dei nani, ostacolo e pastoja a ogni ascensione verso un'idealità!
Le diceva d'aver saputo quanto a lei era toccato di soffrire in quegli ultimi tempi e le annunziava il trasferimento e la nomina, per liberarla dal fango che l'attorniava.
Si era presa lui, spontaneamente, questa libertà, sicuro d'interpretare un desiderio che ella non gli avrebbe mai manifestato; e la pregava di lasciarlo fare, di concedere almeno che, da lontano, egli si prendesse cura e si ricordasse sempre di lei.
Purtroppo, i mezzi che gli si offrivano per manifestare rispettosamente tutto l'animo suo erano meschini e ristretti!
In capo al foglio, ancora qui, latinamente inciso, il motto: NIHIL - MIHI - CONSCIO.
Un solo rammarico per Marta, per Maria e per la madre, partendo: quello di lasciare Anna Veronica.
Povera Anna! Faceva loro coraggio, ma in fondo al cuore era la più disajutata: esse erano in tre: lei sarebbe rimasta sola, sola, sola, come abbandonata tra nemici.
E di nuovo per lei il silenzio, di nuovo la solitudine, i giorni tristi, lunghi, uguali...
- Mi scriverete, però!
Diceva di non voler piangere, e piangeva.
Le labbra costrette per forza a sorridere, invece di un sorriso, facevano il greppo.
Volle accompagnarle fino alla stazione ferroviaria a piè del colle su cui sorgeva la città.
Durante il tragitto in vettura, non scambiarono una parola.
Era una giornata umida, grigia, e la vecchia vettura rimbalzava su i fradici sassi dello stradone scosceso, scotendo continuamente i vetri mal connessi degli sportelli, i quali davano un frastuono irritante.
Quando poi il convoglio stava per partire, Anna Veronica e la signora Agata, rimaste aggrappate l'una all'altra, soffocando i singhiozzi ciascuna su l'omero dell'altra, furono quasi strappate con violenza dal conduttore.
Già la vaporiera fischiava, lì lì per mettersi in moto.
Anna rimase col volto bagnato di lagrime e le braccia tese che si andavano lentamente abbassando, man mano che il nero convoglio si allontanava; gli occhi fissi a gli sportelli del vagone in cui le tre amiche erano salite, e da cui ancora fin laggiù, fin laggiù, si agitavano in saluto i fazzoletti...
- Addio...
Addio...
- mormorava quasi a se stessa, agitando il suo, l'abbandonata.
Parte 2,1
Una gaja casetta in via del Papireto, all'ultimo piano, ariosa: quattro lucide stanzette, col pavimento di mattoni di Valenza, con carta da parato un po' sbiadita, sì, ma senza strappi e di tinta gentile.
La meno angusta sarebbe servita per la signora Agata e per Maria, che dormivano insieme; quella attigua, per Marta; da letto e da studio: vi si sarebbe adattata volentieri in grazia del balcone che dava su la via del Papireto; le altre due, sala da pranzo e salotto, da metter sù, per bene, col tempo.
Delizia della casa, un terrazzo, la cui balaustrata a pilastrini pareva, a guardarla dalla via, una corona che cingesse l'edificio.
Quanti fiori vi avrebbe coltivati Maria!
Marta aveva trovato questa casa, guidata da un lontano ricordo.
Il padre, nel condurla a Palermo tanti anni addietro, aveva voluto mostrarle il luogo ove da giovane aveva combattuto, il giorno stesso dell'entrata di Garibaldi.
Lì, all'imboccatura di quella via, egli, in compagnia d'altri due volontarii, sparava contro una nuvola di fumo che partiva da lontane case di fronte, ove s'erano appiattate le soldatesche borboniche.
Uno dopo l'altro, i due compagni eran caduti: egli seguitava a far fuoco, quasi aspettando che un'altra palla venisse per lui.
A un tratto, s'era sentito battere leggermente a una spalla, e dir così:
- Giovanotto, levatevi di qua: siete troppo esposto.
Si era voltato, e aveva veduto Lui, Garibaldi, tutto impolverato, calmo, con le ciglia aggrottate, il quale, scostandolo, si era esposto, senza nemmeno pensarci, al posto che aveva stimato pericoloso per un semplice volontario.
Marta aveva voluto, a sua volta, condurre la madre e la sorella a quella via, per indicar loro il posto.
Per caso, alzando gli occhi, aveva scorto un cartello con l'APPIGIONASI giusto lì, al portoncino su l'imboccatura del vicolo.
E avevano preso a pigione quella casa per memoria del padre, quasi perché il padre stesso ve le aveva condotte.
Maria, con quel ricordo nell'anima, vi si sentiva meno sola e come protetta.
Riassettatesi alquanto, dopo il trambusto, cominciarono tutte e tre a provvedere ai primi bisogni della nuova dimora.
Le poche masserizie scampate alla rovina non bastavano più: poveri, malinconici avanzi di naufragio, a cui pur tanti ricordi s'aggrappavano.
Uscivano di casa insieme per qualche compera, senza saper dapprima dove dirigersi.
Si fermavano a guardare nelle vetrine di questo o di quel negozio, fuggendo la tentazione di entrare nei più ricchi.
Smarrite per le vie della città, tra tanta gente ignota e il moto e il frastuono continui, provavano, nello smarrimento, un certo sollievo: nessuno lì le conosceva; potevano andare di qua, di là, indugiarsi a guardare a loro agio, liberamente, senza attirare gli sguardi maligni della gente.
A Marta dava segreto fastidio l'ammirazione che suscitava nei passanti.
Talvolta, per essere meno notata, usciva di casa senza rifarsi a modo i capelli.
- Così, così...
diceva a Maria, appuntandosi il cappellino e ravviandosi poi appena appena, in fretta, le ciocche su la fronte.
Ma s'accorgeva, pur senza volerlo, che quel po' di disordine cresceva grazia alla sua figura: fuggevolmente glielo diceva lo specchio, glielo ripetevano poi gli sguardi dei passanti e le vetrine delle botteghe.
Al Collegio Nuovo, intanto, era stata accolta con benevolenza dalla vecchia Direttrice, vera signora piena di garbo e di gusto, degna di presiedere a quel regio Educandato, ov'era accolto il fiore dell'aristocrazia e del censo.
I modi e la figura di Marta attirarono subito l'attenzione della vecchia Direttrice, la quale non volle nascondere alla signora Agata il gradimento di avere per maestra "una bella figliuola" come quella.
Tutto nella vita, su la terra, per la vecchia signora linda, curata, abbigliata con squisita eleganza, era fatto per la gioventù e per far sospirare i poveri vecchi.
E dicendo ciò sorrideva: ma chi sa da qual fondo d'amarezza affiorava quel sorriso.
Da vecchia, ella ormai non era brutta, anche perché si dimostrava così affabile e buona; ma da giovane non aveva dovuto esser bella.
Tanto maggior merito, dunque, per la sua bontà.
Diede a Marta, con quell'amorevolezza semplice che rassicura, notizia del Collegio, delle altre insegnanti interne, di tre professori, delle convittrici, dipingendo tutti con parole festevoli; parlò dell'orario della scuola, parlò un po' di tutto; e finalmente accordò a Marta quattro giorni di vacanza.
Marta uscì dal Collegio come abbagliata di quell'accoglienza cordiale, che riferì poi a Maria, lodando tutto: l'edificio del Collegio, il lusso interno, l'ordine che doveva regnarvi.
E dopo il primo giorno di scuola tornò a casa raggiante anche dell'accoglienza che le avevano fatto le convittrici dopo la presentazione lusinghiera della Direttrice.
Al lieto umore di Marta rispondevano in quei giorni i primi accenni in terra e in cielo della rinascente primavera.
L'aria era fredda ancora, frizzante nel mattino, quand'ella si recava al Collegio; ma era così limpido il cielo e così puro e saldo quel rigore del tempo che gli occhi erano felici di guardare e il seno d'allargarsi in larghi respiri.
Pareva che l'anima delle cose, serenata finalmente dalla lieta promessa della stagione, si componesse, obliando, in una concordia arcana, deliziosa.
E quanta serenità, quale freschezza nello spirito, in quei giorni, e che pace interiore! Si ridestava in Marta il lucido e gajo senso che, da bambina, possedeva della vita.
Era paga: aveva vinto; sentiva di far bene, e le piaceva di vivere.
Oh che brulichio sommesso avevano le foglie nuove, al levarsi del sole, quand'ella passava sotto gli alberi di Piazza Vittorio davanti alla Reggia normanna, e poi sotto quelli del Corso Calatafimi oltre Porta Nuova.
La chiostra dei monti pareva respirasse nel tenero azzurro del cielo, come se quei monti non fossero di dura pietra.
E andando così, senza fretta, Marta pensava alle lezioni da impartire, e dal benessere che sentiva, non solamente le idee sgorgavano spontanee, ma quasi le zampillavano le parole che avrebbe dette, i sorrisi con cui le avrebbe accompagnate.
Provava uno stringente bisogno d'essere amata dalle allieve, eppure indugiava in quell'aria fresca della via per godere poi maggiormente del calore di quell'amore riverente delle alunne, nella tiepida stanza della scuola.
Davvero, davvero erano passati i lugubri giorni; la primavera davvero ritornava anche per lei.
Non la terra soltanto scoteva le ombre invernali; anch'ella poteva sottrarsi all'incubo delle tristi memorie.
In casa, anche la madre e Maria parevano a Marta contente, e ne gioiva in fondo al cuore, con la coscienza ch'esse erano così per lei.
Vivevano tutte e tre l'una per l'altra, schivando ogni ricordo del passato che le riconducesse col pensiero al paese natale, donde una sola immagine cara veniva: quella di Anna Veronica, della quale parlavano spesso, rileggendo le lunghe lettere ch'ella inviava.
Così Anna rimaneva ancora la loro unica amica, l'unica compagna in quella separazione, quasi istintiva ormai, dal mondo.
Degli altri inquilini della casa ricevettero soltanto una visita, che offrì loro in seguito e per parecchio tempo cagione di molte risa.
Si era anche novamente stabilita in Marta la disposizione a scoprire e a rappresentare il ridicolo nascosto un po' in fondo a tutte le cose e a tutte le persone, ch'ella rifaceva negli atteggiamenti e nella voce con straordinaria facoltà imitativa.
Le gambe di don Fifo Juè, l'inquilino del secondo piano, e il suo modo di sedere, la parlantina e i gesti romantici di sua moglie furono da lei resi con tanta comicità, che la madre e Maria si tenevano i fianchi dal troppo ridere:
- Basta, Marta, per carità!
Questo don Fifo Juè e la moglie, che si chiamava Maria Rosa, si presentarono parati di strettissimo lutto, con gli occhi bassi, l'espressione compunta, come se tornassero allora allora da un accompagnamento funebre.
- Visita di convenienza...
siamo gl'inquilini del secondo piano, - dissero con voce flebile a Maria che, aperta la porta, era rimasta perplessa davanti a quei due sconosciuti.
Ed emisero, con un lamento della gola, un breve sospiro.
Introdotti nel "futuro" salotto, don Fifo, lungo e magro, sedette con le gambe unite, i piedi congiunti, toccando appena il pavimento con la punta delle scarpe; le braccia conserte, come un ragazzo in castigo.
I suoi pantaloni erano così stretti, che parevano cuciti su le gambe.
Donna Maria Rosa, grassa e rubiconda, si rialzò su una spalla il lunghissimo e fitto velo di crespo che le pendeva dal cappello sul volto e, sedendo, trasse un altro sospiro lamentoso.
Erano marito e moglie da tre mesi.
Da un anno soltanto era morto il primo marito di donna Maria Rosa, don Isidoro Juè, detto don Dorò, fratello maggiore di don Fifo.
E donna Maria Rosa, durante la lunga visita, non parlò che del marito defunto e del suo primo matrimonio, con le lagrime agli occhi e nella voce, come se don Dorò fosse morto ieri.
Don Fifo, immobile, ascoltava con gli occhi bassi e le braccia conserte quell'eterno elogio funebre del fratello, di cui egli pareva il sarcofago e la moglie il cenotafio.
Ah, nessuno, nessuno avrebbe saputo ridire tutte le virtù di don Dorò (LE VELTù - diceva donna Maria Rosa per parlare in lingua).
Ella e don Fifo, mentre Dorò viveva, si erano data la mano per circondarlo di cure e di rispetto.
Egli, Dorò, era stato la loro guida nella vita, il loro maestro.
Marito, moglie e cognato erano vissuti sempre insieme, un'anima in tre corpi.
- Nella pace degli angeli, signora mia!
E Dorò stesso, con le sue labbra, sant'anima! morendo, aveva balbettato ai due infelici superstiti: - Fifo, - dice, - ti raccomando Maria Rosa! Consolatevi! Consolatevi! Seguitate a vivere l'uno per l'altra...
- Ah, signora mia! - proruppe a questo punto donna Maria Rosa già al colmo della commozione, ricordando quelle parole e asciugandosi gli occhi che erano divenuti due fontane di lagrime, con un fazzoletto listato di nero.
- Noi del resto, - riprese poco dopo, rassettatasi alquanto e soffiatosi strepitosamente il naso, - noi, del resto, abbiamo domandato consiglio, signora mia, a tutti i conoscenti, uno per uno, raccomandando che ci ajutassero con la loro esperienza, che ci dicessero coscienziosamente ciò che avremmo dovuto fare noi due poveretti rimasti soli, senza la Sant'anima! La nostra condizione era questa: cognati...
e dovevamo vivere insieme, sotto lo stesso tetto...
la gente avrebbe potuto sparlare...
E tutti, tanto buoni, bisogna dire la verità, ci hanno consigliato di far questo passo, tutti! Siamo entrambi d'una certa età, è vero; ma sa, signora mia, la maldicenza com'è? dove non può mettere i piedi, mette le scale...
E in questa città poi...
- Oh, da per tutto! - sospirò la signora Agata.
- Da per tutto, da per tutto, dice bene, signora mia...
Così, ci siamo sposati ch'è poco...
Abbiamo dovuto aspettare i nove mesi prescritti dalla legge, benché per me, sa, non ci fosse pericolo, come volevo far notare ai signori del Municipio: figli, niente; Dio non m'ha voluto consolare; Dorò malaticcio sempre e deboluccio, signora mia...
Basta, ci siamo sposati.
Don Fifo pareva tutto appiccicato, e che, movendosi a parlare, si spiccicasse tutto: le labbra, la lingua, le palpebre, le pinne del naso.
Soltanto le gambe gli restavano appiccicate l'una all'altra.
Ma, in fin dei conti, non parlò molto.
A un certo pulito, ruppe in questa esclamazione:
- Ah, dolori, signora, dolori! Cristo solo lo sa!
E per poco Marta e Maria non scoppiarono a ridergli in faccia.
Parte 2,2
Marta avrebbe voluto rifare tanto alla madre quanto a Maria la vita comoda e lieta d'una volta, allor che il padre viveva, e prosperava la concerìa.
E non risparmiava sacrifizii e lavoro.
Aveva ottenuto dalla Direttrice del Collegio di dare lezioni particolari alle piccole convittrici delle classi inferiori; e quel che traeva da queste lezioni e lo stipendio mensile dava intatto alla madre, a cui proibiva di lamentarsi della troppa fatica alla quale si sottoponeva giornalmente, senza godere più nulla dei frutti.
Ma la madre s'ingannava.
Marta non godeva? O non erano frutti del suo lavoro la rinata fiducia nella vita tanto della madre quanto della sorella, e la presente pace? non era premio al suo lavoro il sorriso che ora ritornava spontaneo alle loro labbra? Avrebbe dato il sangue delle vene per vederle ancora più contente, per godere della vista d'altri sorrisi su le loro labbra.
E in fondo al cuore si sentiva inebriata della propria generosità, giacché ella nell'intimo suo non s'era mai acchetata all'offesa che il padre le aveva fatto, condannandola cecamente e precipitando la famiglia nella miseria.
L'unica passione di Maria pareva la musica? Ebbene, un pianoforte a Maria, quasi nuovo, da pagare a un tanto al mese.
Tenere nella piccola dispensa le derrate per tutto un mese contribuiva a rendere più quieta e paga la madre? Ebbene, contenta anche la madre; e la piccola dispensa era sempre ben provvista.
Don Fifo Juè e la moglie salivano qualche sera a tenere compagnia alle tre donne, e il defunto Dorò continuava a fare le spese della conversazione.
Per loro mezzo Marta venne a sapere che la signora Fana, moglie del Pentàgora, viveva ancora nella più squallida miseria.
- Noi abbiamo una casa in via Benfratelli, signora mia, - disse una sera donna Maria Rosa, - e nell'ultimo piano, in due stanzette, abita una povera donna divisa dal marito.
Il marito è un regnicolo delle loro parti...
Forse loro lo conosceranno...
si chiama...
di', Fifo, ti rammenti?
- Fana: Stefana, - rispose Fifo spiccicandosi.
- No, dico lui, il marito...
- Ah, sì...
aspetta, Pentàgono!
Maria rise involontariamente.
- Pentàgora, - corresse la signora Agata, per scusare il riso della figlia.
- Lo conoscono?
Donna Maria Rosa volle sapere che uomo fosse, e parlò a lungo della moglie infelice...
Né Marta né la signora Agata riuscirono a farle cangiar discorso per quella sera.
Maria s'era ridata con fervore allo studio del pianoforte; e la sera, dopo cena, sonava, mentre la madre cuciva, e Marta nella stanza attigua correggeva i còmpiti di scuola.
Così chiusa, non vista dalla madre e dalla sorella, spesso Marta sospendeva l'ingrato lavoro e, coi gomiti appoggiati sul tavolino e la testa tra le mani, rimaneva attonita, quasi in un'ansia d'ignota attesa, o s'inteneriva fino alle lagrime alla patetica musica di Maria.
Una profonda malinconia le stringeva la gola.
Non pensava a nulla, e piangeva.
Perché? Vago, ignoto dolore, pena d'indefiniti desiderii...
Si sentiva un po' stanca, non di spirito, ma nel corpo: stanca...
Mentre la madre e la sorella lodavano il suo coraggio, la paragonavano al padre per l'energia, per la volontà; a lei, quelle sere, quasi non riusciva ingrata la sua amarezza, quell'intenerimento indefinito che la faceva piangere e quel languore greve a cui abbandonava con triste voluttà le membra rilassate; la coscienza infine che in quel momento ella si faceva d'esser debole e donna...
No, no: non era forte...
E infatti, perché piangeva così? Oh, via, via: sciocchezze da bambina...
E cercava il fazzoletto, scotendosi; e si rimetteva al lavoro, con nuova lena.
Di questa condizione di spirito di Marta né la madre né Maria s'accorgevano.
Ella si guardava bene dal lasciarla trapelare; cercava anzi con ogni arte di non venire mai meno al concetto ch'esse si erano formato di lei.
Il suo còmpito era questo, doveva esser questo.
E aveva finanche nascosto alla madre una lettera di Anna Veronica, in cui si parlava a lungo di Rocco, delle furie di costui dopo la loro partenza, di minacce di nuovi scandali, di pazzie...
Perché affliggere la madre con tali notizie? E Marta aveva risposto ad Anna Veronica, che ella non si curava né voleva più sentir parlare di colui, prima sciocco, adesso pazzo; tristo prima e adesso.
Vedeva intanto la madre e la sorella ritornate alle abitudini, alla calma d'una volta, alla vita semplice e tranquilla di prima; e maggiormente, per forza di contrasto, sentiva penetrarsi dal convincimento che lei sola era l'esclusa, lei sola non avrebbe più ritrovato il suo posto, checché facesse; per lei sola non sarebbe più ritornata la vita d'un tempo.
Altra vita: altro cammino...
La pace, la felicità dei suoi, lo studio, la scuola, le alunne: ecco quello che le restava, ecco la meta del nuovo cammino...
- null'altro!
Se ne doleva? No: erano momenti di passeggera tristezza.
Dopo la fosca invernata, durante la quale il colore del tempo s'era accordato coi suoi pensieri, si ridestava adesso per quella nuova via al gaio sole di primavera, di cui un raggio era penetrato a frugare, a sommuoverle la torbida posatura di tanti dolori in fondo al cuore: ed era triste per questo; o era effetto della lettera di Anna Veronica o della musica di Maria?
Non voleva più curarsi di sé.
La madre si era rimessa a pettinarla ogni mattina; ma lei non voleva che perdesse tanto tempo ad acconciarla.
- Basta, mamma, lascia, così va bene...
E allontanava lo specchietto a bilico che teneva sul tavolino, quasi infastidita della propria immagine, dello splendore intenso degli occhi, delle labbra accese.
Se poi la madre la costringeva a stare ancora seduta, sotto il pettine, sbuffava dall'impazienza, diventava irrequieta, smaniosa, come se sottostesse a una tortura.
Perché, a che pro, adesso, tanto studio e tanto amore per la sua acconciatura? Non intendeva la madre che a lei, adesso, non doveva importare proprio nulla di comparire più o meno bella?
E un giorno che la madre volle provarle i ricci sulla fronte, non ostante le vivaci ripulse, terminata l'acconciatura, Marta piangeva.
- Come? Piangi? Perché? - le domandò, sorpresa, la madre.
Marta si sforzò di sorridere, asciugandosi gli occhi.
- Per nulla...
Non ci badare...
- Santa figliuola, ma perché? Ti stanno tanto bene...
- No, non voglio...
Disfa', disfa'...
Sta meglio senza.
Non era una crudeltà incosciente della madre? E intanto, ella, che bambina! Piangere così, per nulla, in presenza di lei...
Durante il giorno si mostrò più vivace del solito, per cancellare l'impressione di quelle lagrime nell'animo della madre.
Provava un turbamento nuovo, un incomprensibile timore, un'apprensione strana, adesso, nel vedersi sola, senza nessuno accanto, per le vie aperte, tra la gente che la guardava.
Nessuno, è vero, l'aveva molestata; ma si sentiva ferita da tanti sguardi; le pareva che tutti la guardassero in modo da farla arrossire; e andava impacciata, a capo chino, mentre gli orecchi le ronzavano e il cuore le batteva forte.
Perché? E come mai, tutt'a un tratto, la sua presenza di spirito s'era rintanata così in quello sciocco timore? di che temeva? non aveva tante volte riso di certe zitellone che avevano ritegno a uscire sole per la città paventando a ogni passo un attentato al loro pudore?
Pure, appena entrata nel Collegio, si rinfrancava.
E la presenza di spirito le ritornava di fronte ai tre professori, che spesso trovava in sala, e coi quali scambiava qualche parola, prima che ciascuno si recasse a impartire la propria lezione nelle varie classi.
S'era accorta che due di essi intendevano farle velatamente, e ciascuno a suo modo, la corte.
E non che temerne, ne rideva tra sé; fingeva di non accorgersi proprio di nulla, e pigliava a goderseli segretamente, notando il vario effetto che il suo contegno produceva in quei due.
Il professor Mormoni, Pompeo Emanuele Mormoni, autore di ben quattordici volumi in ottavo di Storia Siciliana, CON APPENDICE DEI NOMI E DEI FATTI PIù MEMORABILI, CON DATE E LUOGHI, alto, grasso, bruno, dai grand'occhi neri e dal gran pizzo qua e là appena brizzolato come i capelli, dignitoso sempre nella sua napoleona e col cappello a stajo, si gonfiava dal dispetto come un tacchino e, così gonfio, pareva volesse dire a Marta: "Oh, sai, carina? se tu non ti curi di me, neanch'io di te: non t'illudere!".
Ma se ne curava, invece, e come! e quanto! Certi momenti pareva fosse lì lì per scoppiare.
Aveva finanche perduto, sedendo, i suoi atteggiamenti monumentali, per cui tutte le seggiole diventavano quasi tanti piedistalli per lui: "SCOLPITEMI COSì!".
Marta di tanto in tanto sentiva scricchiolare la seggiola, su cui il Mormoni stava seduto, e tratteneva a stento un sorriso.
Tutte le seggiole della sala d'aspetto, da un mese a quella parte, erano sfilate; a una era saltata la cartella, a un'altra qualche stecca.
Attilio Nusco, l'altro insegnante, chiamato comunemente nel Collegio il PROFESSORICCHIO, era al contrario fino fino, piccolo, gracile, timido, tutto vibrante, tutto impacciato.
Povero Nusco, come se diffidasse di trovare il suo posticino nella vita, pareva che con lo sguardo, coi sorrisi, con gl'inchini frettolosi della miserrima personcina, volesse accaparrarsi il favore degli altri, per non essere cacciato via.
E occupava, sedendo, il minor posto possibile (SCUSI! SCUSI!); parlando, la voce gli tremava; non contraddiceva mai nessuno; era come imbarazzato sempre dall'eccessiva sua compitezza.
Avrebbe voluto pesare su gli altri meno che un fuscellino di paglia.
E intanto, il cuore...
Ah, quella Marta: non s'accorgeva proprio di nulla?
Il poveretto si provava man mano a uscire un tantino dalla propria timidezza, come dalla tana una lucertolina insidiata: prima la punta del musetto; poi un altro tantino, fino agli occhi; poi tutta la testina, quasi aspettando d'esser colta dal cappio alla posta.
Si era spinto a temerità inaudite: fino a domandare a Marta, sudando: - SENTE FREDDO STAMANI? -.
Portava a scuola qualche primo fiore della stagione; ne rigirava il gambo tra le gracili dita irrequiete; ma non ardiva offrirlo.
Marta notava tutto ciò, e ne rideva.
Un giorno egli volle dimenticarsi il fiore sul tavolino della sala d'aspetto: dopo un'ora, vi ridiscese: il fiore non c'era più.
Ah, finalmente! Marta aveva capito e se l'era preso...
Ma, ridisceso in sala dopo l'altra ora, disinganno crudele: il fiore era all'occhiello della napoleona di Pompeo Emanuele.
- Ciao, cardellino! Ciao, violetto mammolo!
Eppure il Nusco non era uno sciocco: laureato in lettere, giovanissimo ancora, occupava per concorso il posto di professore d'italiano al liceo e insegnava anche per incarico nel Collegio Nuovo; scriveva poi in versi con gusto e gentilezza non comuni.
Marta lo sapeva; ma che volevano da lei tanto il Nusco quanto il Mormoni?
Il terzo professore pareva non si fosse ancora accorto della presenza di lei.
Si chiamava Matteo Falcone; insegnava disegno.
Pompeo Emanuele Mormoni lo chiamava l'ISTRICE e, da imperatore romano, lo avrebbe condannato AD PURGATIONEM CLOACARUM.
Era veramente d'una bruttezza mostruosa, e aveva di essa coscienza, peggio anzi: un tragico invasamento.
Sempre cupo, raffagottato, non levava mai gli occhi in faccia a nessuno, forse per non scorgervi il ribrezzo che la sua figura destava; rispondeva con brevi grugniti, a testa bassa e insaccato nelle spalle.
I lineamenti del suo volto parevano scontorti dalla rabbiosa contrazione che gli dava la fissazione della propria mostruosità.
Per colmo di sciagura aveva anche i piedi sbiechi, deformi entro le scarpe adattate alla meglio per farlo andare.
Il Mormoni e il Nusco erano già avvezzi ai modi di lui, più d'orso che d'uomo, e non ne facevano più caso; Marta, nei primi giorni, ne fu urtata, non ostanti le prevenzioni della Direttrice.
In fondo in fondo, mentr'ella non badava alle smorfie e ai lezii degli altri due, se non per riderne, provava una certa stizza per la noncuranza quasi sprezzante di quel terzo per lei affatto innocuo.
In quel po' di tempo che si tratteneva in sala, aspettando l'ora precisa della lezione, egli s'immergeva nella lettura d'un giornale, senza badare a nessuno.
Spesso Marta volgeva uno sguardo fuggevole alla fronte di quell'uomo sempre contratta, e poi si dava a immaginare che sorta di pensieri sotto tal fronte dovesse albergare quel testone ispido: - sciocchi, no, certamente; ma forse brutali.
Una sola volta aveva udito la voce di lui, e fu una mattina, in cui, avendole il Mormoni accennato con gli occhi l'ISTRICE sprofondato al solito nella lettura del giornale, ella, per non condividere l'ironia ch'era in quell'accenno e per fare stizza al "grand'uomo", si lasciò sfuggire dalle labbra inconsultamente:
- Buon giorno, professor Falcone.
- Riverisco, - grugnì in risposta colui, senza levare gli occhi dal giornale.
Un'altra mattina, Marta, entrando in sala, fu molto sorpresa di trovarvi accesa una disputa tra il Falcone e il Nusco.
Questi, col volto infiammato, un sorriso nervoso su le labbra e le mani tremolanti, cercava di far valere la propria opinione con molti SARà, MA...
investiti dalla dura voce del Falcone, il quale senza dar retta all'avversario seguitava a parlare con gli occhi al giornale spiegato davanti.
Il Mormoni ascoltava in uno dei suoi atteggiamenti monumentali, non degnando di una parola quelle "scempiataggini".
Il Falcone s'era scagliato contro quei letterati che inacidivano i loro versi e le loro prose d'una certa ironia, mentre poi in fondo rimanevano ossequentissimi alle opinioni imperanti nella società.
- Le opinioni sono false? Le credete ingiuste e dannose? Ribellatevi, perdio, invece di scherzarci sù, di farvi sù sgambetti e smorfie, camuffando l'anima da pagliaccio! No: voi da un canto piegate il collo al giogo, e deridete dall'altro la vostra supinità.
E` arte da tristi buffoni!
- Sarà, ma...
- ripeteva il Nusco.
E avrebbe voluto osservare come anche il ridicolo fosse un'arma, e che il Dickens, Heine...
Ma il Falcone non lo lasciava dire:
- Tristi buffoni! Tristi buffoni!
- Sentiamo la signora Ajala, - propose il Mormoni con un gesto consentaneo alla magnificenza dell'atteggiamento.
- La donna per sua natura è conservatrice, - sentenziò bruscamente il Falcone.
- Conservatrice? Per me, ferro e fuoco! - esclamò Marta con tale espressione, che il Falcone alzò gli occhi a guardarla per la prima volta in faccia.
Marta rimase profondamente turbata da quegli occhi che illuminarono un volto affatto nuovo, occhi d'una belva sconosciuta, intelligentissimi.
Un'altra mattina, poco tempo dopo, il Falcone entrò in sala d'aspetto col cappello ammaccato e impolverato, la falda rotta sul davanti, il naso sgraffiato, pallidissimo in volto e pur con un tristo sorriso che gli si storceva sulle labbra in orribile smorfia; strappata la giacca sul petto e anch'essa impolverata.
- Che le è accaduto, professore? - esclamò il Mormoni, vedendolo in quello stato.
Marta e il Nusco si voltarono a guardarlo con paurosa maraviglia.
- Una lite?
- No, niente...
- rispose il Falcone, con voce tremante, ma con la smorfia del riso ancora su le labbra.
- Mi trovavo a passare sotto la chiesa di Santa Caterina da tre anni puntellata...
Questa mattina santa madre chiesa aspettava proprio me per rovesciarmi addosso un pezzo del suo cornicione.
Marta, il Nusco, il Mormoni allibirono.
- Sì...
- continuò il Falcone.
- Mi è caduto addosso proprio così: a radermi il corpo...
E intanto - (aggiunse con un ghigno atroce, accennando i piedi sbiechi deformi) - ammirate la provvida natura! Lei, Nusco, a quest'ora non ce li avrebbe avuti più codesti piedini da ballerino.
Invece io, i miei, ce l'ho ancora, e m'arrabatto!
Così dicendo, s'avviò per la lezione.
Parve quella veramente al Falcone una tremenda risposta della "provvida natura" a tutte le imprecazioni ch'egli le aveva scagliate a causa della propria deformità? Sentì veramente come una voce che gli avesse detto: "Lodami dei piedi che t'ho dati"?
Certo, da quel giorno, cominciò a poco a poco a uscire dalla cupezza abituale.
O non piuttosto operava il miracolo la presenza di Marta?
Questo era il sospetto del Mormoni.
- Perché, vedi, - diceva al Nusco, - noi due, è vero, adesso ci saluta pure; ma grugnisce come prima; non ci dice: "OSSEQUIO, SIGNOR NUSCO!" con la stessa voce per dir così domenicale, con cui dice: "OSSEQUIO, SIGNORA AJALA!".
Morbidezza setolosa, capisco, ma...
E poi, hai notato? Colletti nuovi, oh! , come usano adesso, abito nuovo! cappello nuovo! Evviva il cornicione di Santa Caterina.
Né l'uno né l'altro potevano seriamente ingelosirsi del Falcone, il quale faceva loro finanche pietà, via! Ma né il Mormoni s'ingelosiva del Nusco, né questi del Mormoni.
Per il Nusco il gran Pompeo Emanuele era troppo grosso, troppo sciocco, ed egli aveva troppa stima dell'ingegno di Marta da temerlo; il Mormoni invece aveva troppa stima del gusto di Marta da temere il piccolo Attilio con quell'animella sempre spaventata.
Così, tutti e due s'appajavano per commiserare "il povero Falcone" e segretamente poi si commiseravano l'un l'altro.
Intanto, la scoperta di quell'animo nuovo del Falcone verso di lei produsse a Marta ribrezzo e timore insieme.
Sapeva e sentiva di non poter ridersi di lui, come degli altri due.
La bruttezza di quell'infelice pur così sdegnoso le destava pietà e le incuteva orrore a un tempo.
Probabilmente colui non aveva mai amato alcuna donna.
Se Marta pensava che il Falcone, non ostante la coscienza della propria deformità, poteva pretendere amore da lei, si sentiva offesa e sdegnata; ma d'altro canto intendeva che quella passione, forse la prima germogliata in quel cuore, poteva essere così forte da vincere e ottenebrare quella coscienza stessa, per quanto tragicamente invasata.
Ma un pensiero la rassicurava, che cioè non aveva fatto nulla, proprio nulla, perché quest'affetto mostruoso nascesse.
Ora, quasi ogni giorno sul tramonto, vedeva il Falcone passare per la via del Papireto e alzare gli occhi al balcone della sua stanza.
Il primo giorno, volle mostrarlo a Maria; non s'aspettava ch'egli dovesse alzare il capo a guardare.
- Guarda qua? Come mai?
Così ebbe la prima prova di quell'amore, a cui già per tanti segni men chiari non aveva saputo né voluto prestar fede.
D'allora in poi, non si lasciò più scorgere dietro la vetrata; ma di nascosto vedeva il Falcone ripassare ogni giorno e guardare in alto, due, tre volte.
Adesso, dopo i sogni della notte gravi d'incubi e di visioni strane, agitati da continue smanie; dopo il duro urto nel riaprire gli occhi stanchi alla realtà nuda e monotona della sua esistenza, in mezzo a quel rifiorire fascinoso della stagione; ogni mattina l'apprensione di sentirsi sola le cresceva; i nervi le vibravano, andando, quasi fosse sotto l'imminenza d'ignoti pericoli; né sapeva più rinfrancarsi appena entrata nel Collegio.
Come contenersi di fronte al Falcone? Mostrargli che si fosse accorta, non voleva; ma come dissimulare, se ogni mattina era ancora invasa dall'orrore dei sogni, nei quali la figura del Falcone le appariva quasi sempre e talvolta meno mostruosa della realtà? A trattarlo come prima, temeva che quella passione non si nutrisse di qualche lusinga, di qualche inganno pietoso.
Né il Mormoni la divertiva più come nei primi giorni.
La sola vista di lui ora le produceva anzi tal rabbia, che lo avrebbe schiaffeggiato.
E stizza e fastidio le cagionava la timidezza angosciosa del Nusco.
"Lei non mi secchi!" avrebbe voluto gridargli in faccia, sicura di sprofondarlo con quelle quattro parole un palmo sotterra, dalla vergogna.
Parte 2,3
Anche lui forse, Attilio Nusco, nell'intimo suo sentiva la povertà delle proprie maniere, e come dovesse parere compassionevolmente ridicola la sua invincibile ritrosia; forse se n'adontava e, non visto, si ribellava contro se stesso, perché tra sé non doveva stimarsi affatto uno sciocco.
Chi sa quant'altri, invece, pensando, stimava egli sciocchi!
Proprio in quei giorni aveva mandato a stampa su un giornale letterario della città un sonetto per Marta.
Pompeo Emanuele Mormoni lo aveva scoperto.
Il sonetto, veramente, portava un titolo misterioso: A LEI.
"A LEI?...
A chi? Ci sono tante donne a questo mondo: più delle mosche! Io fo le viste di non aver capito a chi si riferisca."
E il giorno dopo, approfittandosi del pudore del Nusco, diede egli stesso il giornale a Marta, sicuro di farle stizza.
- C'è un sonetto del Nusco: A LEI.
- A me? - disse Marta, sorpresa, invermigliandosi.
- No, no: A LEI, intitolato così...
Ma come s'è fatta rossa! Sono cose che fanno piacere.
Lo legga, glielo lascio...
Scappo, perché a momenti piove e sono senza ombrello.
Un saluto, e via, a naso ritto.
Marta ebbe i
...
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