L'ESCLUSA, di Luigi Pirandello - pagina 5
...
.
- Marta, ebbene?
E lei, sprofondata sul divano, rispondeva con voce flebile e gli occhi invagati:
- Sono lontano...
lontano...
Maria rideva, e a Marta risonavano ora negli orecchi le risate schiette della sorella.
E seguitava a ricordare, a rivedere col pensiero.
Nel salotto entrava la madre, che le domandava del marito.
- Al solito...
- le rispondeva lei.
- Sei contenta?
- Sì.
E mentiva.
Non che avesse da ridire su la condotta di lui; ma ecco, le rimaneva in fondo all'anima un sentimento ostile, non ben definito; e non da ora: fin dal primo giorno della promessa di matrimonio, allor che a lei, ragazza di sedici anni appena, tolta dal collegio, agli studii seguiti con tanto fervore, Rocco Pentàgora era stato presentato come promesso sposo.
Era un sentimento di vaga oppressione ricacciato dentro e soffocato dalle savie riflessioni dei genitori, che nel Pentàgora avevano veduto un partito conveniente, un buon giovine, ricco...
Sì, sì; e lei aveva ripetuto come sue queste savie considerazioni della madre e del padre alle compagne di collegio dalle quali aveva voluto prendere commiato; come se da bambina tutt'a un tratto fosse diventata vecchia, provata e sperimentata nel mondo.
Qua e là le pareti della cameretta serbavano tuttavia alcune date scritte da lei: ricordi, certo, di antichi trionfi di scuola o d'ingenue feste tra amiche o di famiglia.
E su quelle pareti e su tutti quegli oggetti umili semplici e cari pareva che il tempo si fosse addormentato e che ogni cosa là dentro serbasse l'odore del suo respiro.
E Marta col pensiero rifrugava nella sua vita di fanciulla.
Quante volte non aveva udito, standosene con gli occhi intenti e lo spirito vagante, quel crepitìo delle prime piogge su i vetri delle finestre; quante volte non aveva veduto quella luce scialba, malinconica, nella cameretta raccolta, con la sensazione dolce nell'anima dei prossimi freddi, al declinare dell'autunno nuvoloso, dei brividori che fan le notti invernali, innanzi al mattutino?
Maria guardava la sorella, stupita di quella calma, e quasi non credeva agli occhi suoi, offesa nel cuore dall'indifferenza con cui Marta pareva si fosse ora acchetata alla sciagura, come se la tempesta non le fosse passata or ora sul capo.
"Eppure non ignora" pensava Maria, "in quale stato s'è ridotto il babbo per causa sua!".
E quasi piangeva dalla pena di non veder la sorella come avrebbe voluto, umile cioè, desolata, vinta nel suo cordoglio e inconsolabile, come nei primi giorni dopo il ritorno in casa.
Marta infatti non piangeva più.
Dopo aver confessato tutto alla madre, tutto, fin nei minimi particolari, nei più intimi e segreti sentimenti, aveva sperato che il padre almeno, se non più il marito, le rendesse giustizia, e si rimovesse da quel proposito di non uscire più di casa, ch'era per lei, di fronte a tutto il paese, una condanna anche più grave di quella che il marito con sì poca ragione aveva voluto infliggerle, scacciandola dal tetto coniugale.
Così egli, suo padre, confermava l'accusa del marito e la infamava irrimediabilmente.
Come non lo intendeva?
Aveva domandato con ansia alla madre se avesse riferito al padre la confessione, e la madre le aveva detto di sì.
Ebbene? Irremovibile?
Da quel momento, non aveva più versato una lagrima.
Si era sentita tutta rimescolare, e la rabbia raffrenata s'era irrigidita in lei in un disprezzo freddo, in quella maschera d'indifferenza dispettosa di fronte all'afflizione della madre e della sorella, le quali, anziché condannare il padre per la sua cieca, testarda ingiustizia, si mostravano costernate per lui, per il male che certo gliene sarebbe venuto alla salute, come se n'avesse colpa lei.
E ora Marta domandava apposta a Maria notizie di qualche amica che prima veniva a visitare la madre; e, poiché Maria rispondeva impacciata, ella, sorridendo stranamente, esclamava:
- Adesso, si sa, nessuno vorrà più venire in casa nostra...
Tutto, dunque, doveva finire così? Si doveva rimanere come in prigione, in quell'afa, in quel bujo, in quel lutto, quasi che il mondo fosse crollato?
La famiglia s'era ritirata nelle stanze più remote da quella ove Francesco Ajala se ne stava rinchiuso.
Nessuna voce, nessun rumore giungevano agli orecchi di lui, che, seduto su la poltrona a piè del letto, guardava la soglia illuminata sotto l'uscio nero, spiava il lieve, cauto scalpiccìo su l'assito della stanza attigua e si sforzava d'indovinare chi vi passasse in punta di piedi.
Non LEI, certo: era Agata...
era Maria...
era la serva...
- La concerìa, - volle un giorno rammentargli la moglie.
- Vuoi che proprio tutto si perda così?
- Tutto! tutto! - le rispose egli.
- Morremo di fame.
- E Maria? Non è figlia tua anche lei? Che colpa ha la povera Maria?
- E io? - gridò l'Ajala, levandosi torbido davanti alla moglie.
- Che colpa avevo io? Tu l'hai voluto!
Si frenò, sedette di nuovo; poi riprese con voce cupa:
- Fa' che venga da me tuo nipote, Paolo Sistri.
Affiderò a lui la direzione della conceria.
Non c'è più da aver superbia, ora.
Voleva Marta in moglie? Se la pigli! Ormai può essere di tutti.
- Oh Francesco!
- Basta così! Manda a chiamare Paolo.
Andate via!
Da questo Paolo Sistri, figliuolo d'una sorella defunta della signora Agata, ebbero le tre donne notizia delle prodezze di Rocco Pentàgora, ch'era partito veramente, il giorno dopo lo scandalo, in cerca dell'Alvignani, col professor Blandino e col Madden.
A Palermo, Gregorio Alvignani non aveva voluto dapprima accettare la sfida; era anzi riuscito a persuadere il Blandino d'indurre il Pentàgora a ritirarla; ma allora questi lo aveva pubblicamente investito per costringerlo a battersi con lui.
E s'era fatto il duello e Rocco aveva riportato una lunga ferita alla guancia sinistra.
Ora, da tre giorni, era ritornato in paese in compagnia d'una donnaccia venduta; se l'era portata nella casa maritale, l'aveva costretta a indossare le vesti di Marta e, sollevando l'indignazione di tutto il paese, si offriva spettacolo alla gente, conducendosela a passeggio, in carrozza, così parata.
Ebbene, dopo tali notizie, non riconosceva ancora il padre l'indegnità di quel vile? non si vergognava di sottostare alla condanna infame di colui?
Marta fremeva di sdegno e di rabbia, faceva un continuo violento sforzo su se stessa per contenersi di fronte alla madre e alla sorella, che si mostravano sempre più afflitte e abbattute.
- Piangi, Maria, ma perché? - domandò una mattina, con fare derisorio alla sorella che entrava nella sua cameretta con gli occhi rossi.
- Il babbo...
lo sai! - rispose Maria, a stento.
- Eh, - sospirò Marta.
- Che vuoi farci? Forse si riposa.
Non fa male a nessuno...
Era senza corpetto, davanti allo specchio, in piedi: trasse dal capo le forcinelle di tartaruga, e il nero volume dei capelli le cascò fragrante su le spalle, su le braccia nude.
Rovesciò indietro il capo e scosse così più volte la bella chioma pesante; poi sedette, e l'omero tondo, candidissimo, levigato, le emerse tra i capelli che s'erano partiti tra il seno e le terga.
Su l'omero, il neo di viola, venuto sù con gli anni lentamente, come una stella, dalla scapola, dove prima Maria lo aveva scoperto, quando ancora entrambe dormivano insieme.
- Su, pèttinami, Maria.
Parte 1,5
Lungo lungo, sparuto, dalle gambe sperticate, dal volto sbiancato, pinticchiato di lentiggini, con ciuffetti di peli rossi su le gote e sul mento, Paolo Sistri veniva ora ogni sera a sottomettere all'approvazione dello zio Ajala il rapporto giornaliero dei lavori della concerìa.
Dopo circa mezz'ora usciva abbattuto e sbalordito dalla stanza del rinchiuso, e alla zia Agata e a Maria che lo aspettavano ansiose rispondeva ogni volta, piegando da un lato la testa:
- Ha detto che va bene.
Ma dell'approvazione pareva non fosse né convinto né soddisfatto, come in sospetto che lo zio lo lodasse per beffa.
Si abbandonava su una seggiola, tirava dentro quanto più aria poteva e la soffiava pian piano per le nari, tentennando il capo.
Ormai, sotto l'imbrigliatura d'uomo d'affari, aveva rinunziato a ogni velleità amorosa.
Nei primi giorni si mostrò impacciatissimo della presenza di Marta; poi, man mano, si rinfrancò un poco; parlando, però, si rivolgeva piuttosto a Maria o alla zia Agata.
Narrava con garbuglio opprimente di parole tutte le peripezie della giornata, e si ripiegava in tutti i versi su la seggiola e girava gli occhi di qua e di là e sudava e inghiottiva.
Ogni periodo di quel suo discorso avviluppato restava in aria o sfumava a un tratto in una esclamazione; se però qualcuno, per disgrazia, gli riusciva alla fine senza impuntature, lo ripeteva tre e quattro volte, prima di rimettersi alla fatica di figliarne un altro.
La zia mostrava d'ascoltarlo con attenzione, assentiva col capo quasi a ogni parola e spesso, alla fine, sapendo ch'egli ormai non aveva più nessuno in casa, lo invitava a rimanere a cena.
Paolo accettava quasi sempre.
Ma erano ben tristi quelle cene in silenzio, interrotte dall'invio del cibo alla stanza del rinchiuso, gelate dall'aspetto di Maria, che ne ritornava ogni volta più oppressa.
Marta osservava ogni cosa con una strana espressione negli occhi, ora quasi derisoria, ora sdegnosa.
Quel dolore impresso negli altri non era un raffaccio a lei della presunta sua colpa? Spesso si alzava, abbandonava la tavola, senza dir nulla.
- Marta!
Non rispondeva: andava a chiudersi nella sua cameretta.
Maria allora, dietro l'uscio, la pregava d'aprire, di ritornare a cena.
Ascoltava con un misto di dolore e di godimento quelle preghiere insistenti della sorella, e non apriva, né rispondeva; poi, appena Maria, stanca di pregare inutilmente, andava via, si stizziva contro se stessa di non aver ceduto e si metteva a piangere.
Ma subito il rimorso si cangiava in odio contro il marito.
Ah, in quella rabbia di cuore, in quel momento, se avesse potuto averlo fra le mani! E se le torceva, le mani, piangendo, smaniando.
E il frutto di quell'uomo, intanto, maturava in grembo a lei...
Sarebbe stata madre, tra poco! Il suo stato le faceva orrore; si dibatteva, cadeva in convulsione; e quelle crisi violente la lasciavano disfatta.
Talvolta Paolo Sistri rimaneva un po', dopo cena, a tener compagnia.
Sparecchiata la mensa, si rinfocolava timidamente, intorno a quella tavola, sotto la lampada, un po' di vita familiare.
Ma la voce usciva dolente da quelle labbra, quasi paurosa del silenzio imposto alla casa dalla sciagura.
Di tratto in tratto Maria si recava in punta di piedi a origliare dietro l'uscio del padre.
- Dorme, - rispondeva, rientrando, alla madre che la guardava in attesa.
E la madre chiudeva gli occhi sul suo cordoglio e sospirava, rimettendosi al lavoro: al corredino per il nascituro.
Bisognava far presto; poiché nessuno, finora, ci aveva pensato, a quel lavoro per il povero innocente che sarebbe venuto al mondo in quelle condizioni.
Ci aveva pensato, da lontano, un'amica d'altri tempi, con la quale la signora Agata, per ordine del marito, aveva rotto ogni relazione.
Si chiamava Anna Veronica, quest'amica.
Quando la signora Agata l'aveva conosciuta la prima volta, ella viveva insieme con la madre, al cui mantenimento era orgogliosa di provvedere, insegnando nelle scuole elementari.
Molti giovani in quel tempo s'erano messi a corteggiarla, sperando di trarre in inganno l'appassionata natura di lei; ma Anna, che veramente si consumava dentro nell'attesa d'un uomo a cui avrebbe consacrato il più ardente e devoto amore, s'era saputa sempre difendere.
Qualche mazzolino di fiori, lo scambio di qualche letterina, discorsi e sogni, fors'anche qualche bacio carpito: e basta poi.
Pure nell'insidia era caduta una volta, poco dopo la morte della madre, e vi era stata vilmente trascinata dal fratello d'una tra le sue più ricche amiche, in casa delle quali soleva spesso recarsi dopo le interminabili ore di scuola, sempre ben accetta, poiché ella le ajutava nei loro lavori di cucito, le rallegrava con le sue barzellette argute e pronte, e spesso rimaneva da loro a desinare e talvolta anche a dormire.
Quella prima caduta era stata tenuta nascosta con interessata prudenza dai parenti del giovine, così che nulla di preciso n'era trapelato in paese.
Anna aveva pianto segretamente la propria giovinezza sfiorita, l'avvenire spezzato, e aveva per qualche tempo sperato nel ravvedimento del giovine.
Molte delle amiche, ignare o generose, le avevano conservato la loro amicizia, e fra queste Agata Ajala, allora da poco maritata.
Dopo alcuni anni, però, Anna Veronica s'era imbattuta per disgrazia in un altro giovine, malato, malinconico, il quale era venuto ad abitare vicino a lei, in tre stanzette umili e ariose, con un terrazzino pieno di fiori.
Costui l'aveva chiesta in moglie; ma Anna, onestamente, aveva voluto confessargli tutto; poi non aveva saputo, né forse potuto negargli quella stessa prova d'amore già concessa a un altro.
Ma questa volta, dopo la disdetta e l'abbandono, era sopravvenuto lo scandalo, perché Anna s'era incinta del seduttore sentimentale, partito all'improvviso dal paese.
Il bimbo, per fortuna, era morto appena nato; Anna, destituita da maestra, aveva per carità ottenuto una misera pensioncina, mercé la quale aveva potuto vivucchiare nella solitudine e nell'ignominia, in cui quel malinconico miserabile l'aveva gettata, e s'era rivolta a Dio per perdono.
La signora Agata vedeva spesso in chiesa Anna Veronica, ma fingeva di non accorgersene; Anna intendeva e non se n'aveva per male: levava gli occhi in alto, e in essi e sulle labbra le ferveva più viva la preghiera, preghiera nutrita ormai d'amore per tutti, per gli amici e per i nemici, come se toccasse a lei dare prima esempio di perdono.
Avvenuto lo scandalo di Marta, Anna Veronica aveva guardato con altri occhi la signora Agata, le domeniche, a messa.
Sapeva che Marta era incinta; e un giorno, uscendo dalla chiesa, s'era accostata umilmente all'amica che pregava ancora e, deponendole in fretta un involtino in grembo, le aveva detto:
- Questo per Marta.
La signora Agata aveva voluto richiamarla; ma Anna s'era voltata appena a salutarla con la mano ed era scappata via.
Nell'involtino la signora Agata aveva trovato alcune trine intrecciate all'uncinetto, tre bavaglini ricamati, due cuffiette.
N'era rimasta intenerita fino alle lagrime.
Delle molte amiche ch'ella contava, nessuna dopo lo scandalo era rimasta fedele; ma, ecco, in cambio, quest'antica amicizia ora si riannodava quasi furtivamente.
Difatti, la domenica appresso, aveva riveduto Anna Veronica in chiesa, le si era seduta accanto e, dopo messa, avevano parlato a lungo, commovendosi ai ricordi della loro antica amicizia e alle vicende e ai tristissimi casi occorsi ad ambedue.
E ora che Francesco Ajala se ne stava sempre rinchiuso, non poteva Anna Veronica venire di nascosto a tener compagnia, ad ajutare come un tempo l'amica nei suoi lavori di cucito?
Poteva, sì.
Ed ecco, Anna Veronica attraversava in punta di piedi la stanza attigua a quella del rinchiuso; si liberava del lungo scialle nero da penitente; e sorridendo a Marta e a Maria con due diversi sorrisi:
- Eccomi qua, figliuole mie, - diceva sottovoce.
- Che c'è da fare?
Marta assisteva la sera a quel lavoro amoroso della madre e dell'amica; e spesso, fissando quelle fasce, quelle camicine, quei corpettini, quelle cuffiette nel canestro, gli occhi le s'infoscavano o le si riempivano di lagrime silenziose.
Intanto Paolo a bassa voce si sforzava di fare intendere a Maria il congegno della concerìa: la macina ritta per schiacciare le bucce di mortella o di sommacco, le trosce per l'addobbo dei cuoj, il mortajo...
- o le rifaceva la cronaca del paese.
Si era sossopra per le imminenti elezioni politiche.
Gregorio Alvignani aveva posato la candidatura.
I Pentàgora spendevano un banco di denari per combatterlo.
Manifesti, galoppini, comizii, giornaletti d'occasione...
Lui, Paolo, non sapeva da qual parte tenere, come regolarsi; per non essere coi Pentàgora, non voleva parteggiare per l'avversario dell'Alvignani; a questo intanto non avrebbe mai dato il suo voto; per l'autorità che gli veniva dalla direzione della concerìa, in cui lavoravano più di sessanta operai, non gli pareva ben fatto appartarsi dalla lotta.
La povera Maria fingeva di prestar ascolto, per non dargli dispiacere; e quel supplizio durava per lei una e due ore, spesso.
- Vuoi scommettere, - le disse Marta sorridendo, una sera, prima d'andare a letto, - che Paolo è innamorato di te?
- Marta! - esclamò Maria, arrossendo fin nel bianco degli occhi.
- Come puoi pensare a codeste cose?
Marta scoppiò in una stridula risata:
- Che vuoi? Non lo sai? Sono una donna perduta, io!
- Marta! oh Marta mia, per carità! - gemette Maria, nascondendosi il volto con le mani.
Marta allora le afferrò le braccia, e, scotendola con violenza, le gridò, accesa d'ira:
- Volete farmi impazzire con codesta tragedia che mi rappresentate attorno? L'avete giurato? Volete farmi andar via? Ditelo una buona volta! Me n'andrò, me ne vado subito via, ora stesso...
Lasciami, lasciami...
Si lanciò verso l'uscio, trattenuta da Maria.
Accorse la madre.
- Zitta, Marta, per carità! Piano...
Sei pazza? Dove vuoi andare?
- Giù! Per istrada, a gridar giustizia...
Pazza, sì, pazza!
- Non gridar così...
Tuo padre ti sentirà!
- Tanto meglio! Mi senta! Perché se ne sta lì rinchiuso? Non per nulla s'è chiuso al bujo: così, come un cieco, mi condanna...
Non voglio, non voglio più stare con voi...
Così sarete contenti e felici...
Il pianto a un tratto la vinse; si dibatté fino a tarda notte in una tremenda convulsione di nervi, vegliata dalla madre e dalla sorella.
Parte 1,6
Col capo abbandonato su la spalliera dell'ampia poltrona, le belle mani diafane su i bracciuoli, in un'atonìa invincibile, Marta ora si affisava a lungo su qualche mobile della camera; e le pareva che soltanto adesso le si chiarisse, ma stranamente, il significato dei singoli oggetti, e li esaminava, ne concepiva quasi l'esistenza astraendoli dalle relazioni tra essi e lei.
Poi gli occhi le si fermavano di nuovo su la madre, su Maria, su Anna Veronica, che lavoravano in silenzio davanti a lei; abbassava le pàlpebre; traeva un lungo sospiro di stanchezza.
Così passavano lentissimamente i giorni della triste attesa.
Finalmente una mattina, poco prima di mezzogiorno, le sopravvennero le doglie.
Gelata, con la fronte molle di sudore, si agitava per la camera, non trovava più luogo da schermire lo spasimo; e intanto guardava con terrore la vecchia levatrice e un'altra donna assistente che preparavano il letto.
Un fremito di stizza la scoteva tutta a ogni sennato, placido consiglio ch'esse le rivolgevano.
Nella stanzetta accanto, un giovane medico, alto, pallido, biondiccio, chiamato per consiglio della levatrice molto impensierita per lo stato della partoriente, di nascosto disponeva e apparecchiava con minuziosa cura, su un tavolino, fasce, compresse, fiaschi, tubi elastici, strumenti di strana foggia.
E ogni volta, posando con studiata disposizione l'oggetto preparato, pareva dicesse: "E questo è fatto!".
A quando a quando tendeva l'orecchio e sorrideva tra sé per qualche lamento della partoriente.
- Mamma, muojo! - nicchiava Marta, agitando continuamente, regolarmente la testa da un lato all'altro.
- Mamma, muojo! Ah, mamma! ah, mamma!
E stringeva forte un braccio della madre che la sorreggeva guardandola con infinita pietà tra le lagrime che le rigavano il volto, dilaniata dai gemiti sordi o acuti, dal mugolìo continuo della figlia: lì, addossate tutt'e due a un angolo della camera, come se lì soltanto ella potesse soffrir meno.
Maria s'era ritirata con Anna Veronica in una stanza lontana, prossima a quella del padre, e Anna a bassa voce procurava di calmar l'ansia e l'impazienza di lei.
- Quando il bambinello verrà con la sua manina a battere a quell'uscio, chiamando NONNO! NONNO! con l'odore del latte nella vocina, ah, voglio vedere se non aprirà! Aprirà...
E allora, figliuola mia, io non potrò più venire da voi, è vero; ma non importa! Io prego ogni sera il mio Gesù che vi faccia questa grazia.
Improvvisamente, barcollando, urlando, con le braccia levate, furibonda dagli spasimi e dalla paura, irruppe in quella stanza Marta, discinta, scarmigliata, inseguita dalla madre e dalle donne assistenti.
Maria, Anna Veronica si levarono spaventate e le corsero dietro anch'esse.
Marta andò a urtare contro l'uscio del padre e, battendovi con la testa e con le mani, chiamava, supplicava:
- Babbo! Apri, babbo! Non mi far morire così! Apri, babbo! Muojo, perdonami!
Le donne, piangendo, gridando, cercavano di strapparla di là.
Il medico la prese per le braccia.
- Codeste sono pazzie, signora! Via, via: il babbo verrà; si lasci condurre...
Le donne la circondarono, la tolsero quasi di peso, la trascinarono nella camera del travaglio.
Quivi la adagiarono sfinita su i guanciali.
Poco dopo, Maria, ch'era ritornata a origliare all'uscio del padre, entrò nella camera della sorella, con faccia stravolta, tutta tremante, a chiamare la madre; la condusse all'uscio del rinchiuso e, tendendo di nuovo l'orecchio, le disse:
- Senti? senti? Mamma, senti?
Veniva dalla stanza, attraverso l'uscio, un romor sordo, continuo, come un ruglio di cane aizzato.
- Francesco! - chiamò forte la signora Ajala.
- Babbo! - chiamò Maria, lì lì per piangere.
Nessuna risposta.
La madre afferrò con mano convulsa la gruccia dell'uscio e spinse e scosse: invano.
Attese: il rantolo continuava, crescente come in un ringhio.
- Francesco! - chiamò di nuovo.
- Mamma! oh mamma! - fece Maria, presaga, torcendosi le mani.
La signora Ajala diede allora una spallata all'uscio resistente; una seconda; alla terza l'uscio cedette.
Nella camera al bujo giaceva Francesco Ajala, bocconi sul pavimento, con un braccio proteso, l'altro storto sotto il petto.
Al grido acutissimo della madre e di Maria rispose dalla camera della partoriente come un ùlulo lungo, ferino.
Accorse Anna Veronica, accorse il medico; si spalancarono le imposte; e il corpo inerte, fulminato di Francesco Ajala fu deposto con inutile cautela sul letto e messo quasi a sedere, sorretto da guanciali.
- Non gridino, per carità, non gridino! - scongiurò il medico.
- O ne perderanno due!
- Dunque è perduto? - gridò la signora Ajala.
Il medico fece un gesto disperato, e prima di accorrere alla camera della partoriente ordinò alla serva di recarsi per un altro medico, subito, alla prossima farmacia.
Maria, piangendo, asciugava con un fazzoletto su la faccia congestionata del padre il sangue che gli usciva da una lieve ferita alla fronte.
Ah se questo solo fosse stato il male! Pure ella metteva tutta l'attenzione, tutto il suo amore, nell'arrestare quelle poche gocce di sangue, come se da questo soltanto dipendesse la salvezza del padre.
La madre pareva impazzita: voleva a ogni costo che il marito parlasse, e l'abbracciava e gli stringeva le mani diacce, già morte.
Francesco Ajala, terreo in volto, continuava a rantolare sordamente, con la bocca spalancata e gli occhi chiusi.
Accorse l'altro medico, ch'era un omacciotto calvo, bircio d'un occhio.
- Largo! che c'è? Mi lascino vedere...
Eh! - fece, con voce oppressa da intasamento nasale, percotendosi le anche.
- Povero signor Francesco! Ghiaccio, ghiaccio...
Qui, alla farmacia dirimpetto, carte senapate, una vescica...
Chi va? chi corre? Si levino d'attorno al letto...
aria! aria! Povero signor Francesco...
Giunse attraverso gli usci chiusi un grido prolungato, quasi di rabbia furibonda.
Il medico si volse di scatto; tutti per un attimo si distrassero e attesero.
- Povera figlia mia! - poté finalmente gemere la signora Agata, rompendo in singhiozzi.
Allora le altre donne piansero e gridarono insieme.
Il medico si guardò intorno smarrito, sbalordito, si grattò con un dito il cranio, poi sedette e si mise a far rincorrere i due pollici delle mani intrecciate sul ventre.
Una lagrima solcò lentamente il volto del moribondo e si arrestò ai folti baffi grigi.
Ogni rimedio fu vano.
L'agonia durò fino a sera.
Solo quel rantolo continuo, monotono, attestava un ultimo resto di vita in quel corpo gigantesco, ripiegato quasi a sedere sul letto.
Sul tardi, la signora Agata pensò a Marta, e si recò alla camera di lei.
Fu colpita, nell'aprir l'uscio, dall'odore dell'ammoniaca e dell'aceto.
Il parto era dunque avvenuto?
Marta giaceva immobile, cerea su i guanciali, e pareva esanime.
La donna assistente reggeva, china su la puerpera, una compressa, e il medico, pallidissimo, sbracciato, buttava fiocchi di ovatta insanguinata in un catino per terra.
- Di là, - diss'egli alla madre, accennando l'uscio della stanza attigua.
La signora Agata, in silenzio, prima d'entrare nell'altra stanza come un automa, guardò la figlia.
- Morto...
- bisbigliò questa, come a se stessa, con voce vuota d'espressione, quasi non le fosse venuta da più lontano che dalle labbra.
La levatrice mostrò di là alla madre, un mostricciattolo quasi informe, tra la bambagia, livido, odorante di musco.
- Morto...
Dalla via sottostante giunse il suono stridulo d'un campanello e un coro nasale, quasi infantile, di donne in frettolosa processione:
OGGI E SEMPRE SIA LODATO
NOSTRO DIO SAGRAMENTATO...
Il Viatico! - disse la vecchia levatrice, inginocchiandosi, col morticino tra le braccia, in mezzo alla stanza.
La signora Agata uscì in fretta, accorse alla sala d'ingresso, mentre già entrava il prete parato, con la pisside in mano, e un uomo che gli veniva dietro, con gli occhi quasi spiritati di paura, chiudeva il baldacchino.
Il sagrestano con un tabernacoletto tra le braccia seguì il prete nella camera del moribondo.
Le donne e i fanciulli che accompagnavano il Viatico s'inginocchiarono nella saletta, parlottando tra loro.
Francesco Ajala non intese, non comprese nulla; ricevette soltanto l'estrema unzione e, presente ancora il prete, spirò.
Appena giù per la strada, il suono stridulo del campanello e il rosario delle donne si confusero con le grida clamorose e gli applausi d'una folla di schiamazzatori, i quali, con una bandiera in testa, esaltavano la proclamazione di Gregorio Alvignani a deputato.
Parte 1,7
Dopo il parto, Marta stette circa tre mesi tra la vita e la morte.
Provvidenza divina, questa malattia, diceva Anna Veronica.
Sì, perché, altrimenti, le due povere superstiti, la vedova e l'orfana, sarebbero certo impazzite.
Invece, nella lotta disperata contro quel male che sembrava invincibile, le loro labbra, che pareva non avessero dovuto mai più sorridere, sorrisero due mesi appena dopo la morte quasi violenta del capo di casa, ai primi accenni della convalescenza di Marta.
Instancabile, Anna Veronica, dopo tante veglie, recava adesso ogni mattina alla convalescente piccole immagini odorose di santi, contornate di carta trapunta, punteggiate d'oro, con nimbi d'oro.
- Qua, - diceva, - dentro la busta, sotto il guanciale: ti guariranno: sono benedette.
E mostrandole i due santi patroni del paese, San Cosimo e San Damiano, con le tuniche fino ai piedi, la corona in capo e le palme del martirio in mano; i due santi miracolosi, di cui presto sarebbe ricorsa la festa popolare, e ai quali ella aveva promesso un'offerta per la guarigione di Marta:
- Questi, - soggiungeva, - valgono più del tuo medico spelato, con un occhio a Cristo e l'altro a San Giovanni.
E contraffaceva il medico e la voce di lui oppressa dal perenne intasamento nasale: - "SOFFRO DI LITIASI, SIGNORA MIA!" - CHE SAREBBE? - "MAL DI PIETRA, SIGNORA MIA, MAL DI PIETRA!".
Marta sorrideva dal letto pallidamente, seguendo con gli occhi i versi di Anna Veronica, e anche Maria e la madre sorridevano.
La sera, prima di tornarsene a casa, Anna recitava il rosario con la signora Agata e con Maria, nella camera di Marta.
La malata ascoltava il borbottìo della preghiera nella camera debolmente rischiarata da un lume guarnito d'una ventola di mantino verde; guardava le tre donne inginocchiate, curve sulle seggiole, e spesso, alla litanìa, rispondeva anche lei alle invocazioni di Anna Veronica:
- ORA PRO NOBIS.
Quel senso di serenità, fresca, dolce e lieve, che suol dare la convalescenza, le si turbava al sopravvenire della sera.
Le pareva che quel lume riparato dal mantino verde fosse poco, troppo poco contro l'ombra che invadeva la casa; e un'ambascia cupa, un'oscura costernazione, un'impressione di vuoto, di sgomento sentiva venirsi dalle altre stanze, in cui spingeva trepidante, dal letto, il pensiero: subito ne lo ritraeva, affisando di nuovo gli occhi al lume, per sentirne il conforto familiare.
In quell'ombra, in quel bujo delle altre stanze, il padre era scomparso.
Di là egli, ormai, non c'era più.
Nessuno più, di là...
L'ombra.
Il bujo.
Che incubo, è vero, era egli stato per lei! Ma a qual prezzo, ora, se n'era liberata...
La cupa ambascia, l'oscura costernazione, il senso di vuoto, di sgomento, non le venivano piuttosto dal pensiero di lui?
- ORA PRO NOBIS.
Spesso si addormentava con la preghiera su le labbra.
La madre le giaceva a fianco, su lo stesso letto; ma stentava tanto, ogni sera, a prender sonno, non solo per il ricordo vivo e straziante del marito, ma anche per la preoccupazione assidua in cui la teneva il nipote, Paolo Sistri, a cui era affidata ormai l'esistenza della famiglia.
Paolo, dopo la disgrazia, non veniva più, puntualmente, ogni sera.
Bisognava che la zia mandasse a chiamarlo due e tre volte per aver notizie della concerìa; e, quando finalmente si risolveva a venire, appariva più abbattuto e sbalordito di prima.
Una sera le si presentò con la testa fasciata.
- Oh Dio, Paolo, che t'è accaduto?
Niente.
In una stanza della concerìa, al bujo, qualcuno (e forse a bella posta!) s'era dimenticato di richiudere la...
come si chiama? sì...
la...
la caditoja, ecco, su l'assito, ed egli, passando, patapùmfete! giù: aveva ruzzolato la...
la come si chiama di legno...
la scala della cateratta, già! Per miracolo non era morto.
Ma tutto bene, benone, alla concerìa.
Forse però, ecco...
sarebbe stato meglio tentare adesso una certa concia alla francese..
- quella tal maniera di concia per la quale...
ecco, già! si adopera in polvere la...
come si chiama...
la scorza di leccio, di sughero e di cerro; mentre, alla maniera nostrana, con la vallonèa spenta nell'acqua di mortella...
- Per carità, Paolo! - lo interrompeva la zia, a mani giunte.
- Non facciamo novità! Andava tanto bene la concia all'uso nostro finché ci badò la buon'anima.
- Gesù! che c'entra? - le rispondeva Paolo, saccente, ora che lo zio non c'era più.
- E` un'altra cosa! Perché...
vede com'è? Si piglia...
prima che si pigliava? l'acqua cotta.
Oh, e ora si piglia l'acqua pura..., aspetti! con la polvere di leccio, oppure...
E seguitava per un pezzo, imbrogliandosi, rifacendosi daccapo, a spiegare alla zia quella benedetta concia in rammorto, alla francese.
- Mi sono spiegato?
- No, caro.
Ma forse non comprendo io.
Mi raccomando: attenzione!
- Lasci fare a me.
E veramente per lui non mancava.
Notte e giorno, in continua briga: di giorno, ora qua, ai calcinaj, per sorvegliare la bolleratura; ora là, alle trosce, pei bagni; poi, ai cavalletti, per la pelatura e la scarnatura delle pelli, e così via: di notte, lì, su i libri di cassa, a far conti.
Sentiva su le quattro cantare i galli...
Che ne sapeva sua zia? I galli, parola d'onore, alle quattro...
E lui ancora in piedi! L'inchiostro del calamajo non rispettava nessuna delle sue dieci dita, e n'aveva pur cenciate sul naso e sulla fronte.
- La vorrei qua, a vedere! - sbuffava, in maniche di camicia, col capo rovesciato sulla spalliera del seggiolone come se volesse trovar le cifre del conto tra i ragnateli del soffitto, a cui, distraendosi, voleva far giungere il fumo, che tirava a gran boccate dalla pipa: - FFFFF.
Per la strada, intanto, nel vasto edificio, silenzio di tomba.
Su la parete nuda, ingiallita, la candela verberava il lume tremolante a ogni sbuffo di Paolo, la cui ombra si protendeva enorme e mostruosa sul pavimento.
- Puah! Alla faccia di...
- e nominava un creditore, scaraventando uno sputo contro la parete.
Un ragno gli passava sotto gli occhi, zitto zitto, come impaurito dal lume, traballando leggermente su le otto lunghe esilissime gambe.
Paolo aveva ribrezzo di questi animaletti, come le donne dei topi.
Subito scattava in piedi, si levava una pantofola, e pàffete! - schiacciava con la suola il ragno; poi, col volto atteggiato di schifo, stava un po' a mirar la vittima così appiccicata alla parete.
Dopo la morte dello zio, aveva piantato tenda definitivamente alla concerìa.
Vi mangiava e vi dormiva; e in quella stanzaccia intanfata non permetteva che entrasse mai nessuno.
Lui si apparecchiava da mangiare, lui il letto: tutto lui; ma glien'andasse mai una bene! Cercava le posate? - la carne gli s'abbruciava sul fuoco.
Voleva bere? - trovava scandelle a galla sul vino.
Chi aveva versato olio nel suo bicchiere?
- Puah! Mannaggia...
E restava con la lingua fuori e il volto atteggiato di schifo.
Ma era niente, questo.
Quel che gli toccava combattere con un nugolo di corvi piombati sulla concerìa dopo la morte dello zio! Difendeva con feroce zelo gl'interessi della povera vedova, il cortile della concerìa rimbombava delle sue liti rumorose, violente; ma alla fine doveva cedere e pagare e pagare.
Intanto la vendita scemava di giorno in giorno; crescevano i debiti e i reclami; i mercanti di cuojame disdicevano gl'impegni o rimandavano la merce e si rivolgevano altrove.
La zia, ignara, gli domandava ogni mese per l'andamento di casa quella somma che era solita di prendere per l'addietro, come se gli affari andassero bene allo stesso modo; e lui, che non si sentiva il coraggio di esporle il miserando stato delle cose, s'adoperava in tutti i modi perché, ogni mese, non mancasse almeno il denaro per lei.
Marta finalmente s'era levata di letto, e già moveva i primi passi, sorretta dalla madre e da Maria: dalla poltrona a piè del letto fino allo specchio dell'armadio.
- Come sono, mio Dio!
Levava un braccio dal collo di Maria e si ravviava con la bianca mano tremolante i capelli dalla fronte, lievemente, e sorrideva guardandosi negli occhi, quasi con smarrita pietà per le sue povere labbra arse dal cociore di tante febbri.
Poi andava a sedere nel seggiolone di cuojo presso la finestra.
Veniva Anna Veronica e le parlava con la sua naturale dolcezza dei vespri di maggio consacrati alla Madonna: - La chiesa fresca, tutta fragrante di rose; poi la benedizione, e infine le canzonette sacre cantate al suono dell'organo: gli ultimi raggi d'oro del sole entravano in chiesa per i larghi finestroni aperti in alto, e anche qualche rondine entrava e svolava di qua, di là, smarrita, mentre fuori garrivano le altre com'ebbre, inseguendosi.
Marta ascoltava con l'anima quasi alienata dai sensi.
- Ti ci condurremo noi, andremo tutt'e quattro insieme, prima che finisca il mese.
Oh starai bene, non dubitare.
Ma ella diceva di no, che non le sarebbe stato possibile.
- Sì, la chiesa, a due passi; ma se ancora non mi reggo...
La terza domenica di maggio, dopo la funzione sacra, Anna accorse, esultante, dalla chiesa.
- A te, a te, Marta! uscita in sorte a te!
- Che cosa? - domandò Marta, guardando quasi sgomenta dal seggiolone.
- La Madonna! La Madonna: a te! Senti? Te la portano cantando le Figlie di Maria.
Senti il tamburo? La Madonna ti viene in casa!
Nelle domeniche di maggio, in chiesa, dopo la predica e la benedizione, si faceva tra i divoti il sorteggio d'una Madonnina di cera custodita in una campana di cristallo.
- E come? come mai? - diceva Marta, tutta confusa, sentendo appressare vieppiù alla casa il coro delle divote e il rullo del tamburo.
- Io, tutte le domeniche, ho preso un numero per te.
Oggi il cuore me lo diceva: uscirà in sorte a Marta! E così è stato.
Ho gettato un grido di contentezza così forte nella chiesa, che tutti si sono voltati.
Ecco la Madonna che viene a visitarvi...
Eccola, eccola, Vergine santa!
Entrò nella stanza una commissione di fanciulle che avevano tutte sul seno una medaglina pendente da un nastro azzurro; entrò il sagrestano della chiesa con la Madonna di cera entro la campana di cristallo che tra le grosse mani scabre e nere pareva anche più fragile.
Per la scala rullava fragorosamente il tamburo.
Quelle fanciulle erano abituate a sorridere tutte a un modo, guardando e udendo le espressioni di giubilo con cui i divoti accoglievano la Madonnina: vedendo ora Marta rimanere seduta, pallida, stordita dalla commozione troppo forte per le sue deboli forze, rimasero dapprima un po' sconcertate, poi le si appressarono e presero a parlarle, ripetendo ognuna le parole dell'altra: - Adesso sarebbe guarita, certo...
La Madonna...
La visita della Madonna...
Via medici, medicamenti...
Il rullo del tamburo era intanto cessato: la signora Ajala aveva regalato qualche soldo al tamburino, altri ne regalò al sagrestano, e poco dopo la casa fu sgombra.
Marta non si saziava d'ammirare la Madonnina su le sue ginocchia, reggendola con le mani ceree su la campana.
- Com'è bella! com'è bella! Oh Maria!
E veramente, prima che finisse il mese, poté recarsi in chiesa a ringraziare la Madonna, in compagnia d'Anna Veronica, della madre e della sorella.
Parte 1,8
"Mio buon Gesù, voglio riconciliarmi con Voi, confessando al Vostro ministro tutti i peccati coi quali V'ho offeso.
Grande miseria è la mia, se tanto facile m'è dimenticarmi di Voi.
Ingrata, non so vivere senz'offender Voi, Padre mio e mio amabile Salvatore.
E ora che mi sento colpevole, mi accuso, mi pento, imploro misericordia da Voi.
Piangi, mio cuore, che hai offeso Dio, il quale tanto ha sofferto pe' tuoi peccati.
Ricevete, o Signore, questa mia confessione; gradite, avvalorate con la grazia Vostra il mio atto di contrizione e il proponimento del cuor mio, che mi fa ripetere con Santa Caterina da Genova: - Amor mio, non più mondo, non più peccati; ma amore, fedeltà, obbedienza ai Tuoi santi comandamenti.
- In nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo.
Così sia".
Segnatasi e chiuso il libro delle preghiere, Marta rivolse uno sguardo angoscioso al confessionale, davanti al quale, dall'altra parte, stava inginocchiata una vecchia penitente venuta prima di lei.
Da quest'altra parte, il legno del confessionale, tutto a forellini, levigato e giallognolo, serbava l'impronta opaca di tante fronti di peccatori.
Marta lo notò con un certo ribrezzo, e si tirò ancora di più sul capo il lungo scialle nero, fin quasi a nascondersi il volto.
Era pallidissima, e tremava.
La chiesa, deserta, aveva un silenzio misterioso, assorbente, nella cruda immobile frescura insaporata d'incenso.
La solenne vacuità dell'interno sacro, quasi sospeso agl'immani pilastri, alle ampie arcate, dava all'anima, in quella penombra, un senso d'oppressione.
Tutta la navata di centro era occupata da due ali di seggiole impagliate, disposte in lunghe file sul pavimento polveroso, ineguale per le antiche pietre tombali, logore.
Marta stava inginocchiata su una di queste pietre, e aspettava che quella vecchia penitente le cedesse il posto nel confessionale.
Quanti peccati, quella vecchia! Ma suoi o della miseria? e quali mai? Il vecchio confessore li ascoltava attraverso i forellini del legno, con volto impassibile.
Ma chinò gli occhi e, per distrarsi, cercò di decifrare l'iscrizione funeraria in parte svanita sulla pietra dalla logora effigie.
Lì sotto, uno scheletro...
Che importava più il nome? Ma come e quanto più raccolto, più sicuro, più protetto, nella pace solenne d'una chiesa, appariva il riposo della morte!
Le due ali di seggiole s'allungavano fino alle colonne che reggevano sul nàrtice la cantorìa.
Dietro queste colonne erano due lunghe panche, su una delle quali Marta, entrando, aveva veduto un vecchio contadino con le braccia incrociate sul petto, rapito nella preghiera, con gli occhi risecchi dagli anni, infossati.
Oh quelle mani scabre, terrose, quel collo dalla floscia giogaja divisa da un solco nero, dal mento giù giù fin sotto la gola, e quelle tempie schiacciate, quella fronte increspata sotto l'ispida canizie! Di tratto in tratto il vecchietto tossiva, e quei colpi di tosse rimbombavano cupamente nel silenzio della chiesa deserta.
Dai finestroni in alto entrava a colpire a fasci i grandi affreschi della vòlta l'ardente pallore in cui il giorno moriva tra uno sbaldore assordante di rondini.
Marta era venuta in chiesa per consiglio di Anna Veronica.
Ma cominciava già, in quella lunga attesa, ad avere di se stessa, inginocchiata lì come una mendicante, una penosissima impressione.
Intendeva in Anna tutta quell'umiltà, fonte per lei di tanta serena dolcezza; Anna era veramente caduta; aveva perciò cercato e trovato nella fede un conforto, nella chiesa un rifugio.
Ma lei? Aveva la coscienza sicura, lei, che non sarebbe mai venuta meno ai suoi doveri di moglie, non perché stimasse degno di tale rispetto il marito, ma perché non degno di lei stimava il tradirlo, e che mai nessuna lusinga sarebbe valsa a strapparle una anche minima concessione.
La gente, ora, vedendola lì in chiesa, umile e prostrata, non avrebbe supposto ch'ella avesse accettato come giusta la punizione e che s'inginocchiasse davanti a Dio a mendicare conforto e rifugio, perché non si riconosceva più il diritto di levarsi in piedi e a fronte alta davanti agli uomini? Non per questi, è vero, non per la punizione immeritata, non per la sciagura del padre, di cui lei non voleva riconoscersi cagione, si era lasciata indurre da Anna a venire in chiesa per confessarsi; ma per sé, per aver lume e pace da Dio.
Che avrebbe detto però, tra poco, a quel vecchio confessore? Di che doveva pentirsi? Che aveva fatto, qual peccato commesso da meritare tutti quei castighi, quelle pene, e l'infamia, la sciagura del padre e del figliuolo, il perpetuo lutto in casa, e forse la miseria, domani? Accusarsi? pentirsi? Se male aveva fatto, senza volerlo, per inesperienza, non lo aveva scontato a dismisura? Certo quel sacerdote le avrebbe consigliato d'accettare con amore e con rassegnazione il castigo mandato da Dio.
Ma da Dio, proprio? Se Dio era giusto, se Dio vedeva nei cuori...
Gli uomini, piuttosto...
Strumenti di Dio? Ma ricevono da Dio forse la misura del castigo? Eccedono, o per bassezza di spirito o per aberrazione d'onestà...
Accettare umilmente la condanna, senza ragionarla, e perdonare? Avrebbe potuto perdonare? No! No!
E Marta levò il capo e guardò la chiesa, come se a un tratto vi si trovasse smarrita.
Quel silenzio, quella pace solenne, l'altezza di quella vòlta, e là quel confessionale piccolo, e quella vecchia prostrata e quel confessore immobile, impassibile, tutto le si allontanò improvvisamente dallo spirito rivoltato, come un sogno vano in cui ella, nel torpore della coscienza, fosse penetrata e che ora, risentendo la cruda e dolorosa sua realtà, vedesse dileguare.
Si alzò, ancora perplessa; sentì mancarsi le gambe, ebbe come una vertigine, si portò una mano agli occhi, e con l'altra si sorresse a una seggiola; poi attraversò quasi vacillante la chiesa.
Su la panca, sotto la cantorìa, vide ancora il vecchietto, nella stessa positura, con le braccia incrociate sul petto, assorto nella preghiera, estatico.
Fino a casa si portò nell'anima l'immagine di lui.
Quella fede ci voleva! Ma non poteva averla lei.
Lei non poteva perdonare.
Dentro il cranio, il cervello le si era ormai ridotto come una spugna arida, da cui non poteva più spremere un pensiero che la confortasse, che le désse un momento di requie.
Era fantastica, forse, questa sensazione; ma le cagionava intanto un'angoscia vera, che invano cercava sfogo nelle lagrime.
Quante, Dio, quante ne aveva versate! Ora, ecco, neanche di piangere le riusciva più.
Sempre quel nodo, sempre, irritante, opprimente, alla gola.
Vedeva addensarsi, concretarsi intorno a lei una sorte iniqua, ch'era ombra prima, vana ombra, nebbia che con un soffio si sarebbe potuta disperdere: diventava macigno e la schiacciava, schiacciava la casa, tutto; e lei non poteva più far nulla contro di essa.
Il fatto.
C'era un FATTO.
Qualcosa ch'ella non poteva più rimuovere; enorme per tutti, per lei stessa enorme, che pur lo sentiva nella propria coscienza inconsistente, ombra, nebbia, divenuta macigno: e il padre che avrebbe potuto scrollarlo con fiero disprezzo, se n'era lasciato invece schiacciare per il primo.
Era forse un'altra, lei, dopo quel FATTO? Era la stessa, si sentiva la stessa; tanto che non le pareva vero, spesso, che la sciagura fosse avvenuta.
Ma s'impietriva anche lei, ora, cominciava a non poter sentire più nulla: non cordoglio per la morte del padre, non pietà per la madre né per la sorella, né amicizia per Anna Veronica: nulla, nulla!
Tornare in chiesa? E perché? Pregava, e la preghiera era solamente un vano agitarsi delle labbra; il senso delle parole le sfuggiva.
Spesso, durante la messa, si sorprendeva intenta a guardare i piedi del sacerdote su la predella dell'altare, le brusche d'oro della pianeta, i merletti del messale; poi, all'elevazione, destata dal rumorìo delle seggiole smosse, dallo scampanellìo argentino, si alzava anche lei e s'inginocchiava, guardando stupita certe vicine che si davano pugni rintronanti sul petto, piangendo lagrime vere.
Perché?
Per sottrarsi al vaneggiamento in cui ogni suo pensiero, ogni sentimento naufragava, provò se le riusciva di rimettersi allo studio, o almeno a leggere.
Riaprì i vecchi libri abbandonati, e n'ebbe un'indicibile tenerezza.
Le memorie più dolci rivissero e quasi le palpitarono sotto gli occhi: rivide la scuola, le varie classi, le panche, la cattedra: ecco, a uno a uno, tutti i professori che si susseguivano nel giro delle lezioni, e poi il giardino della ricreazione, il chiasso, le risa, le passeggiate a braccetto per i vialetti tra le compagne più care: poi il suono della campana, e la classe di nuovo; il direttore, la direttrice...
le gare...
i castighi...
Sul tavolino le stava aperto sotto gli occhi un libro, un trattato di geografia; sfogliò alcune pagine: sul margine di una, un segno, e queste parole scritte di sua mano:
"MITA, DOMANI PARTIREMO PER PEKINO!".
Mita Lumìa...
Che abisso ora tra lei e quella compagna di collegio!
Come mai in certe anime non sorgeva alcuna aspirazione a levarsi un po' sopra gli altri, foss'anche in una minima cosa?
Questo, sù per giù, Marta aveva notato in tutte le sue compagne di scuola, questo notava in sua sorella, nella buona Maria.
Suo marito era poi proprio dell'armento, e lieto e pago di appartenervi.
Oh se ella avesse seguitato gli studii! A quest'ora!
Si ricordò di tutte le lodi che i professori le avevano fatto, e anche...
sì, anche delle lodi che UN ALTRO le aveva fatte: l'Alvignani, per le risposte alle sue lettere.
Che gli aveva risposto? Aveva discusso con lui delle condizioni della donna nella società...
"Ella sa accomodare i sensi acutissimi" le aveva scritto in una delle sue lettere l'Alvignani, "i sensi acutissimi all'osservazione della realtà." L'aveva fatta ridere tanto questa lode.
E quell'ACCOMODARE i sensi! Forse era detto bene...
perché, cultissimo, l'Alvignani...
ma scriveva, secondo lei, troppo dipinto; mentre, quando parlava...
Oh, a Roma, lei, se non l'avessero così incatenata...
A Roma, moglie di Gregorio Alvignani, in altro ambiente, largo, pieno di luce intellettuale...
lontano, lontano da tutto quel fango...
Chinava il capo su i libri, animata improvvisamente dall'antico fervore, quasi per un bisogno irresistibile di rinutrire comunque un'aspirazione che pur non resisteva al minimo urto della realtà; al cigolare dell'uscio, quand'ella doveva recarsi nelle altre stanze, ove erano la madre e la sorella vestite di nero.
Di ciò che avvenisse in famiglia, non sapeva nulla.
Aveva notato soltanto che la madre e Maria la guardavano, come se volessero nasconderle qualcosa: una impressione, un sentimento.
Non erano forse contente che ella se ne stésse quasi tutto il giorno appartata? La scusavano? la compativano? La madre aveva spesso gli occhi rossi di pianto; Maria s'assottigliava sempre più, spighiva, aveva preso un'aria sbalordita, una gramezza che affliggeva.
Per farle piacere, le domandava:
- Andiamo in chiesa, Maria?
Questa domanda per la sorella significava:
"Andiamo a pregare per il babbo?" E rispondeva sempre di sì; e andavano.
Un pomeriggio, uscendo dalla chiesa, furono prese d'assalto da un ragazzetto quasi tutto ignudo, con la camicina soltanto, sudicia, che gli cadeva a sbrendoli su le gambette magre, terrose; il visetto, giallo e sporco.
Con una manina egli afferrò lo scialle di Marta e non volle più lasciarlo, pregando che gli facessero la carità: era figlio di un muratore caduto dalla fabbrica.
- E` vero, - confermò Maria.
- Jeri, da un'impalcatura.
S'è rotto un braccio e una gamba.
- Vieni, vieni con me, povero piccino! - disse allora Marta, avviandosi.
- No, Marta...
fece Maria, guardando pietosamente la sorella; ma subito abbassò gli occhi, come pentita, contrariata.
- Perché? - le domandò Marta.
- Nulla, nulla...
andiamo...
- rispose frettolosamente Maria.
Giunte a casa, Marta domandò alla madre qualche soldo per quel ragazzo.
- Oh figlia mia! Non ne abbiamo più neanche per noi...
- Come!
- Sì, sì...
seguitò tra le lagrime la madre.
- Paolo è scomparso da due giorni; non si sa dove sia...
La concerìa chiusa; vi hanno apposto i suggelli...
E` la nostra rovina! State qua, figliuole mie.
Diglielo tu, Maria.
Io debbo recarmi subito dall'avvocato.
Parte 1,9
Prima dell'alba del giorno appresso furono destate di soprassalto da uno strepito indiavolato giù per la strada: urli, grida scomposte che andavano al cielo, fischi spaventevoli di bùccine marine.
- I PESCATORI...
- disse Maria, quasi tra sé, in un sospiro, nel bujo della camera.
Eh sì: quello era il giorno della festa dei santi Patroni del paese.
Chi ci aveva pensato?
Come ogni anno, sù dalla borgata marina venivano in tumulto, su lo spuntar del giorno, i così detti pescatori: quasi tutta la gente che abitava in riva al mare, non dedita alla pesca soltanto.
A loro, a gli abitanti della borgata, era serbato per antica abitudine l'onore di portare in trionfo per le vie della città il fèrcolo de' due santi Patroni, che appunto nel mare avevano sofferto il loro primo martirio, e su i marinaj perciò facevano valere più specialmente la loro protezione.
Così ogni anno la città era destata da quell'invasione fragorosa, come dal mare stesso in tempesta.
Lungo le vie si schiudevano le finestre frettolosamente, da cui si sporgevano braccia nude, subito ritirate, e facce pallide di sonno, avvolte in vecchi scialli, in cuffie, in fazzoletti.
Nessuna delle tre sconsolate pensò di scendere dal letto.
Rimasero con gli occhi aperti nel bujo, e a ciascuna passò innanzi alla mente la visione di quegli energumeni giù per la via, tra il fumo e le fiamme sanguigne delle torce a vento squassate, vestiti di bianco, in camicia e mutande, coi piedi scalzi, una fascia rossa alla vita, un fazzoletto giallo legato intorno al capo.
Tant'altre volte, negli anni lieti, li avevano veduti.
Passata quella furia infernale, la strada ricadde nel silenzio notturno; ma si ravvivò poco dopo festivamente.
Maria affondò la faccia nel guanciale e si mise a piangere in silenzio, angosciata dai ricordi.
S'intese il primo grido degli scalzi miracolati:
- IL SANTO DELLE GRAZIE, DIVOTI!
Erano ragazzi, giovinotti, uomini maturi, che per miracolo dei santi Cosimo e Damiano (di cui il popolo faceva un santo solo in due persone) si ritenevano scampati da qualche pericolo o guariti da qualche infermità, e che, ogni anno, per voto, andavano in giro per il paese, in peduli, vestiti di bianco come i PESCATORI, e con un vassojo davanti sostenuto da una fascia di seta a tracolla.
Sul vassojo erano immagini dei due Martiri, da uno, da due, da tre soldi e più.
- IL SANTO DELLE GRAZIE, DIVOTI!
Salivano nelle case per vendere quelle immagini; ricevevano dalle famiglie, in adempimento dei voti, offerte d'uno o più ceri dorati, d'uno o più galletti infettucciati; offerte e quattrini recavano d'ora in ora alla Commissione dei festajoli nella chiesetta dei Santi.
Oltre ai ceri e ai galletti, offerte maggiori andavano a quella chiesa pompaticamente, a suon di tamburi: agnelli, pecore, montoni, anch'essi infettucciati, dal vello candido, pettinato, e frumentazioni su muli parati con ricche gualdrappe e variopinti festelli.
Nelle prime ore del mattino giunse Anna Veronica, vestita di nero, al solito, col lungo scialle da penitente.
Bisognava adempiere al voto fatto durante la malattia di Marta: recare alla chiesa le due torce promesse e la tovaglietta ricamata.
E Marta doveva andare con lei.
Nello scompiglio di quegli ultimi giorni, dopo la fuga di Paolo, ella non aveva pensato ad avvertirne Marta, la vigilia.
- Sù, sù, figliuola, fatti coraggio.
A un voto non si può mancare.
Marta, tutta chiusa in sé, come avvolta in un silenzio tetro, le rispose subito, urtata:
- Non vengo...
lasciami! Non vengo.
- Come! - esclamò Anna.
- Che dici?
E guardò, ferita, Maria e l'amica.
- Avete ragione, sì, - rispose, scrollando il capo.
- Ma chi può ajutarci?
Marta sorse in piedi.
- Debbo dimostrarmi grata per giunta, è vero? della grazia che ho ricevuto, guarendo...
-
- Ma è facile morire, figliuola mia, - sospirò Anna Veronica, socchiudendo gli occhi.
- Se sei rimasta in vita, non ti par segno che Dio ti vuol viva per qualche cosa?
Marta non rispose; come se queste parole dell'amica, pronunciate con la consueta dolcezza, avessero risposto a un suo segreto sentimento, a un segreto proposito, corrugò le ciglia e s'avviò per la sua camera.
- Ti servirà anche di svago, - aggiunse Anna.
Giù per le vie era un gran fermento di popolo.
Dalla marina, dai paeselli montani, da tutto il circondario, era affluita gente in numerose comitive, che ora procedevano a disagio, prese per mano per non smarrirsi, a schiere di cinque o sei: le donne, gajamente parate, con lunghi scialli ricamati o con brevi mantelline di panno bianco, azzurro o nero, grandi fazzoletti a fiorami, di cotone o di seta, in capo e sul seno, grossi cerchi d'oro a gli orecchi e collane e spille a pendagli e a lagrimoni; gli uomini: contadini, solfaraj, marinaj, impacciati dai ruvidi abiti nuovi, dagli scarponi imbullettati.
Marta e Anna Veronica, che sotto lo scialle nascondeva le torce e la tovaglietta, tra la folla fluttuante, stordita, senza direzione, andavano quanto più sollecitamente potevano.
Giunsero alla fine nella piazza davanti alla chiesuola, rigurgitante di popolo.
Il baccano era enorme, incessante; la confusione, indescrivibile.
S'erano improvvisate tutt'intorno baracche con grandi lenzuola palpitanti: vi si vendevano giocattoli e frutta secche e dolciumi, gridati a squarciagola; andavano in giro i figurinaj con le imagini di gesso dipinte, rifacendo il verso degli scalzi miracolati; i frullonaj, tirando e allargando la cordicella del frullo; i gelataj coi loro carretti a mano parati di lampioncini variopinti e di bicchieri:
- LO SCIALACUORE! LO SCIALACUORE!
E al gajo bando seguiva una distribuzione di scappellotti ai monelli più molesti, che attorniavano i carretti come un nugolo ostinato di mosche.
Contrastava con quel vario allegro berciare dei venditori la cantilena lamentosa opprimente d'una turba di mendicanti su gli scalini davanti al portone della chiesa, dove la gente accalcata faceva a gomitate per entrare.
Marta e Anna Veronica si trovarono prese, quasi schiacciate tra quel pigia pigia e sospinte alla fine senza muover piede entro la chiesa buja, zeppa di curiosi e di divoti.
Deposto in mezzo alla navata centrale s'ergeva il fèrcolo enorme, massiccio, ferrato, per poter resistere alle scosse della disordinata bestiale processione.
Sul fèrcolo, le statue dei due santi dalle teste di ferro, quasi identiche nell'atteggiamento, con le tuniche fino ai piedi e una palma in mano.
In fondo, sotto un arco della navata, a sinistra, tra due colonne, attorno a un'ampia tavola, stava in gran faccende la Commissione dei festajoli, che riceveva dai divoti l'adempimento delle promesse: tabelle votive, in cui era rappresentato rozzamente il miracolo ottenuto nei più disparati e strani accidenti, torce, paramenti d'altare, gambe, braccia, mammelle, piedi e mani di cera.
Tra i festajoli, quell'anno, era Antonio Pentàgora.
Per fortuna, Anna Veronica se n'accorse prima d'accostarsi alla tavola; ristette perplessa, confusa.
- Rimani qua un momentino, Marta.
M'accosto io sola.
- Perché? - domandò Marta, che s'era fatta d'improvviso pallidissima; e aggiunse, con gli occhi bassi: - C'e Nicola in chiesa.
- E` lì al banco, il padre, - disse Anna, sottovoce.
- Meglio che tu stia qua.
Mi sbrigo subito.
Niccolino non s'aspettava quell'incontro con Marta.
Non la aveva più riveduta dalla vigilia della rottura col fratello.
Restò come stralunato a mirarla; poi s'allontanò mogio mogio, si confuse tra la folla, vergognoso.
Ne aveva avuto sempre una gran soggezione; aveva tanto desiderato d'esser voluto bene da lei come un fratello minore, cresciuto com'era senza madre, senza sorelle.
Di tra quel rimescolìo di teste cercò di scorgerla da lontano, senza più farsi vedere: la scorse; rimase a contemplarla, a spiarla; poi, intrufolandosi tra la ressa, la seguì con gli occhi fino all'uscita della chiesa.
Per un pezzo non poté più avere né occhi né orecchi per lo spettacolo della festa.
Si ritrovò, senza saper come, in mezzo alla piazza stipata, soffocato tra la folla enormemente cresciuta, che aspettava ora l'uscita del fèrcolo dalla chiesa.
Dalla calca dei corpi ammaccati si levavano tutt'intorno, su i colli tesi, le facce accaldate, congestionate, smanianti nell'oppressura il respiro; alcune con una espressione supplice, d'avvilimento, negli occhi, altre con una espressione feroce.
Le campane in alto sonavano a distesa su quel fermento, e le campane delle altre chiese rispondevano in distanza.
A un tratto, tutta la folla si commosse, si sospinse premuta da mille forze contrarie, non badando agli urti, alle ammaccature, alla soffocazione, pur di vedere.
- Eccolo! Eccolo! Spunta!
Le donne singhiozzavano, molti imprecavano inferociti, divincolandosi rabbiosamente tra la calca che impediva loro di vedere; tutti vociavano in preda al delirio.
E le campane rintoccavano, come impazzite dagli urli della folla.
Il fèrcolo irruppe a un tratto, violentemente, dal portone e s'arrestò di botto là, davanti alla chiesa.
Allora il grido uscì frenetico da migliaja di gole:
- Viva San Cosimo e Damiano!
E migliaja, migliaja di braccia s'agitarono per aria, come se tutto il popolo si fosse levato in furore, a una mischia disperata.
- Largo! Largo! - si gridò da ogni parte, poco dopo.
- La via al Santo! La via al Santo!
E davanti al fèrcolo, lungo la piazza, la gente cominciò a ritrarsi di qua e di là a stento, respinta con violenza dalle guardie, per aprire un solco.
Si sapeva che i due Santi procedevano per via quasi di corsa, a tempesta: erano i Santi della salute, i salvatori del paese nelle epidemie del colera, e dovevano correre perciò di qua e di là, continuamente.
Quella corsa era tradizionale: senz'essa la festa avrebbe perduto tutto il brio e il carattere.
Ciascuno però temeva di restarne schiacciato.
Squillò davanti alla chiesa stridulamente un campanello.
Allora, tra le poderose stanghe della bara s'impegnò una zuffa tra i PESCATORI che dovevano caricarsela sulle spalle.
A ogni tappa, lungo la via, si ripeteva quella zuffa, sedata a stento ogni volta dai festajoli che dirigevano la processione.
Cento teste sanguigne, scarmigliate, da energumeni, si cacciarono tra le stanghe della macchina, avanti e dietro.
Era un groviglio di nerborute braccia nude, paonazze, tra camìce strappate, facce grondanti sudore a rivi, tra mugolìi e aneliti angosciosi, spalle schiacciate sotto la stanga ferrata, mani nodose, ferocemente aggrappate al legno.
E ciascuno di quei furibondi, sotto l'immane carico, invaso dalla pazzia di soffrire quanto più gli fosse possibile per amore dei Santi, tirava a sé la bara, e così le forze si escludevano, e i Santi andavano com'ebbri tra la folla che spingeva urlando selvaggiamente.
A ogni breve tappa, dopo una corsa, dai balconi, dalle finestre gremite, alcune femmine buttavano per divozione sul fèrc
...
[Pagina successiva]