L'ADULATORE, di Carlo Goldoni - pagina 1
L'ADULATORE.
di Carlo Goldoni
Commedia di tre atti in prosa rappresentata per la prima volta
in Mantova la Primavera dell'Anno 1750.
A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR
ANTONIO VENDRAMIN
NOBILE PATRIZIO VENETO
Fra i benefizi ch'io riconosco dalla Provvidenza, singolarissimo è quello onde mi fu concesso poter servire l'E.
V.
Cavaliere benignissimo, pieno di merito e di virtù, che alla grandezza del sangue accoppia mirabilmente le più belle doti dell'animo.
V.
E., Padrone di un antico, spazioso, accreditato Teatro, e di una compagnia di Comici valorosi, ha scelto me per Componitore di cose nuove; mi ha per dieci anni avvenire onorato di cotal carico, fidandosi ch'io possa (in questi nostri giorni, in cui si è reso il Popolo oltremodo difficile ad esser soddisfatto) sostenere l'onor delle Vostre Scene e quello degli Attori Vostri.
Un non so che avete Voi, Eccellentissimo Signore, di affabile e di gentile, che obbliga ciascheduno ad amarvi, e fa desiderare a chi che sia di servirvi: ciò mi ha convinto ad essere cosa Vostra, molto più di quell'annua pensione, che Voi mi avete generosamente accordata, poiché giudico io non darsi piacer maggiore in chi serve, oltre quello di avere un Padrone amabile.
Quantunque però conoscessi il gran bene, che da Voi mi veniva offerto, ebbi il coraggio di rinunziarvi per fare un sagrifizio all'amicizia, alla convenienza, e a certa mia medesima predilezione.
V.
E.
mi ha dato i più efficaci segni di benignità, di amore, alloraché penando io a distaccarmi da quella Compagnia Comica, per cui aveva cinque anni sudato, seppe in me compatire le mie onestissime convenienze, diè tempo ad altri di vincolarmi; e allora a braccia aperte mi accolse, quando forse, per il lungo stancheggio, avrebbe potuto ragionevolmente scacciarmi.
Volle il destino ch'io godessi una tal fortuna, e voglio credere che Iddio, il quale vedeva la sincerità delle mie intenzioni, abbia voluto premiarle, concedendomi un bene, che io mi credeva in debito di ricusare.
Faccia Iddio parimenti, che vaglia io a corrispondere al dover mio, alle grazie Vostre, all'espettazione del Mondo.
Questa, confesso il vero, mi reca qualche apprensione.
Da un uomo, che in cinque anni ha dato al Pubblico una sì lunga serie di Comiche Rappresentazioni, alcuni aspetteranno assai più, altri crederanno non poter attendere cosa buona.
I primi, fondati sulla ragione che l'arte si migliori coll'uso; i secondi, sul fondamento che l'intelletto dell'uomo abbia tanto più facilmente ad isterilirsi, quanto più rapidamente si è affaticato.
Può essere l'uno e l'altro; né io medesimo saprei decidere una tal questione, la quale sarà poi sciolta dall'avvenire.
Se fidarmi volessi d'un certo spirito, che mi anima, di un certo fuoco, che mi rende sollecito a digerire una moltitudine di nuove idee, che mi si affollano in mente, spererei darla vinta a quelli che in me avvantaggiosamente confidano.
Tuttavolta niente più abborrisco di una temeraria prosunzione.
Capisco benissimo quanto difficile sia il piacere ad un Pubblico, soggetto anche a stancarsi e a pretendere la novità delle opere e degli Autori.
Preveggo purtroppo le avversità degli emuli, le persecuzioni dei malcontenti, ma sordo mi propongo di essere a qualunque voce ingiuriosa degli appassionati nemici, bastandomi che l'E.
V.
in me riconosca l'ardente brama che ho di servirla, e di corrispondere, per quanto a me sia possibile, alle infinite grazie ch'Ella si degna di compartirmi.
Per un primo attestato dell'umilissima servitù mia, offerisco e dedico all'E.
V.
questa Commedia, che ha per titolo l'ADULATORE, ma quel che le oferisco e dedico con maggior animo, egli è tutto me stesso.
Voglia il Signore, che quanto al mio talento di produr fia concesso, tutto in di Lei pro sia prodotto, e morirò glorioso bastantemente, se finirò i miei giorni, siccome io spero, in di Lei servigio, protestandomi con profondo ossequio
Di V.
E.
Umiliss.
Divotiss.
ed Obbligatiss.
Serv.
CARLO GOLDONI
L'AUTORE A CHI LEGGE
Non vi è fra gli uomini il più pernicioso alla società oltre il perfido adulatore; poiché distrugge negli animi quel rossore, ch'è talvolta freno alle colpe, e colorisce i vizi talmente, che più non si ravvisano da chi li coltiva, ed è disperata l'emenda.
Io abborrisco in sì fatto modo gli adulatori, che non mi sazierei d'ingiuriarli, per quanto scrivessi in discredito della loro arte maligna, scandalosa, inumana.
Mi sono contro di essi sfogato un poco nella presente Commedia, e non l'avrei finita sì presto, se dalle leggi del tempo non fossi stato costretto a non oltrepassar le misure.
Avevami trasportato il mio irritamento contro costoro a far avvelenare l'Adulatore, e a presentarlo al Popolo moribondo a confessar le sue trame, mandandolo a finir di vivere tra le scene, accompagnato dalle ingiurie e dalle maladizioni de' spettatori.
Ho conosciuto col tempo, che il tragico fine dell'uomo indegno non lasciava di rattristare i più sensitivi all'umanità, e che l'orror della morte, benché dovuta ad un empio, facea partir melanconici gli uditori, onde ho cambiato il di lui destino, mandandolo in ferri in potere della Giustizia, da che si prevede, se non si vede, il di lui castigo, con meno orrore del Popolo, e con più lieto fine della Commedia.
So che taluni han detto non essere Don Sigismondo un Adulatore, ma un Ministro infedele, un uomo disonesto, un usurpatore.
Egli è tutto quel ch'essi dicono, ma servendosi, per arrivare a' suoi fini, dell'adulazione io lo trovo un accortissimo adulatore.
Niuno adula per il semplice piacer di adulare.
Non lo farebbe, se non aspirasse a profittare dell'arte indegna, ed è necessario che si veggano i tristi effetti di chi gli crede.
Io non ho scelto un adulator del bel sesso, contento di cattivarsi la buona grazia soltanto di qualche vana bellezza; sarebbe troppo leggiero il carattere per colpir dalle scene.
Né tampoco mi son contentato di un Adulatore grazioso, vago di amicizie e di protezioni.
I vizi mezzani non imprimono tutto quell'odio che si vuol destare contro la ribalderia, ed è necessario tingere di colori forti il Protagonista, perché sia rimarcato.
Ecco un Adulatore sfacciato; eccolo al fianco di un Padrone semplice e malaccorto; eccolo immerso nel pelago delle insidie, degl'inganni, delle ragioni.
Odiatelo, amici, ch'ei ben lo merita, e Dio vi guardi dalle pessime arti di cotal gente, che sono l'ira del Cielo e l'obbrobrio degli uomini.
PERSONAGGI
Don SANCIO Governatore di Gaeta;
Donna LUIGIA di lui consorte;
Donna ISABELLA loro figliuola;
Don SIGISMONDO segretario, adulatore;
Donna ELVIRA moglie di don Filiberto, che non si vede;
Donna ASPASIA moglie di don Ormondo, assente;
Il conte ERCOLE romano, ospite del Governatore;
PANTALONE de' BISOGNOSI mercante veneziano;
BRIGHELLA decano della famiglia bassa del Governatore;
ARLECCHINO buffone del Governatore;
COLOMBINA cameriera della Governatrice;
Un STAFF.
Genovese;
Uno STAFFIERE bolognese;
Uno STAFFIERE fiorentino;
Uno STAFFIERE veneziano;
Un PAGGIO;
Un GABELLIERE;
Il BARGELLO.
tutti parlano
La Scena stabile rappresenta una camera nobile, con varie porte, nel palazzo del Governatore.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
DON SANCIO a sedere, DON SIGISMONDO in piedi.
SIG.
Eccellenza, ho formato il dispaccio per la Corte.
Comanda di sentirlo?
SANC.
È lungo questo dispaccio?
SIG.
Mi sono ristretto più che ho potuto.
Ecco qui, due facciate di lettera.
SANC.
Per ora ho poca volontà di sentirlo.
SIG.
Compatisco infinitamente Vostra Eccellenza: un cavaliere nato fra le ricchezze, allevato fra gli agi, pieno di magnifiche idee, soffre mal volentieri gl'incomodi.
(Tutto ciò vuol dire ch'egli è poltrone).
(da sé)
SANC.
Scrivete al Segretario di Stato, che mi duole il capo; e con un complimento disimpegnatemi dallo scrivere di proprio pugno.
SIG.
A me preme l'onore di Vostra Eccellenza quanto la mia propria vita.
Se mi fa l'onore di riportarsi alla mia insufficienza nel formare i dispacci, ho piacere che di quel poco ch'io so, si faccia ella merito.
SANC.
Se vi ordino i dispacci non è perché non abbia io la facilità di dettarli, ma per sollevarmi da questo peso.
Per altro so il mio mestiere, e la Corte fa stima delle mie lettere.
SIG.
(Appena sa scrivere).
(da sé) Eccellenza sì: so quanto si esalti alla Corte, e per tutto il mondo, lo stile bellissimo, terso e conciso de' di lei fogli.
Io, dacché ho l'onore di servirla in qualità di segretario, confesso aver appreso quello che per l'avanti non era a mia cognizione.
SANC.
Lasciatemi sentire il dispaccio.
SIG.
Obbedisco.
(legge)
Sacra Real Maestà.
Da che la clemenza della M.V.
mi ha destinato al governo di questa Città, si è sempre aumentato in me lo zelo ardentissimo di secondare le magnanime idee del mio adorato Sovrano, nell'esaudire le preci de' suoi fedelissimi sudditi.
Bramano questi instituire una Fiera in questa Città, da farsi due volte l'anno, ed hanno già disegnato il luogo spazioso e comodo per le botteghe e per li magazzini, facendo essi constare, che da ciò ne risulterà un profitto riguardevole alla Città, e un utile grandioso alle regie finanze.
Mi hanno presentato l'ingiunto Memoriale, ch'io fedelmente trasmetto al trono della M.V., dalla di cui clemenza attendesi il favorevol rescritto, per consolar questi popoli intenti a migliorar la condizione del loro paese, e aumentare il real patrimonio...
SANC.
Fermatevi un poco.
Io di questo affare non ne sono informato.
SIG.
Quest'è l'affare, per cui, giorni sono, vennero i Deputati della città per informare V.
E., ed ella, che in cose più gravi e serie impiegava il suo tempo, ha comandato a me di sentirli, e raccogliere le istanze loro.
SANC.
Mi pare ch'essi venissero una mattina, in cui col mio credenziere stava disegnando un deser.
SIG.
Gran delicatezza ha V.
E.
nel disegno! In verità tutti restano maravigliati.
SANC.
In ogni pranzo che io do, sempre vedono un deser nuovo.
I pezzi sono i medesimi, ma disponendoli diversamente, formano ogni volta una cosa nuova.
SIG.
Ingegni grandi, talenti felici!
SANC.
Ditemi, quant'è che non avete veduto donna Aspasia?
SIG.
Ieri sera andai alla conversazione in sua casa.
SANC.
V'ha detto nulla di me?
SIG.
Poverina! Non faceva che sospirare.
SANC.
Sospirare? Perché?
SIG.
V.
E.
se lo può immaginare.
SANC.
Sospirava forse per me?
SIG.
E chi è quella donna, che dopo aver trattato una volta o due con V.
E., non abbia da sospirare?
SANC.
Voi mi adulate.
SIG.
Perdoni, aborrisco l'adulazione come il peccato più orribile sulla terra.
Il marito di donna Aspasia è ancora presso la Corte, per impetrare da S.M.
di poter venire colla sua compagnia a quartiere d'inverno a Gaeta.
SANC.
Come lo sapete?
SIG.
Evvi la lettera del Segretario di Stato.
SANC.
Io non l'ho letta.
Che cosa dice?
SIG.
Egli ne dà parte a V.
E., e siccome si sa alla Corte che don Ormondo, marito di donna Aspasia, aveva un'inimicizia crudele col duca Anselmo, chiede per informazione se siano reconciliati, e se può temersi che il ritorno di don Ormondo alla patria possa riprodurre de' nuovi scandali.
SANC.
Mi pare che queste due famiglie sieno da qualche tempo pacificate.
SIG.
È verissimo.
SANC.
Dunque don Ormondo verrà a Gaeta.
SIG.
Piace a lei ch'egli venga?
SANC.
Se ho da dire il vero, non lo desidero molto.
SIG.
Ebbene, si vaglia della sua autorità.
Risponda al Segretario di Stato, che la quiete di questa città esige che don Ormondo ne stia lontano.
Con due righe d'informazione contraria al memoriale di don Ormondo, è fatto tutto.
SANC.
Fatele, ed io le sottoscriverò.
SIG.
Sarà ubbidita.
(Giovami tenerlo occupato negli amori di donna Aspasia, per maneggiarlo a mio modo).
(da sé)
SANC.
Ditemi, e voi come ve la passate con donna Elvira?
SIG.
Qualche momento che mi avanza, l'impiego volentieri nell'onesta conversazione di quella onoratissima dama.
SANC.
Mi dicono che suo marito sia molto geloso.
SIG.
Lodo infinitamente don Filiberto.
Egli è un cavaliere onorato, e tutto fa ombra alla delicatezza del suo decoro.
SANC.
Mi pare però ch'egli non abbia gran piacere che voi serviate la di lui moglie.
...
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