[Pagina precedente]... tenuto diviso Firenze; avvenga che nell'una e nell'altra città diversi effetti partorissero: perché le nimicizie che furono nel principio in Roma intra il popolo e i nobili, disputando; quelle di Firenze combattendo si diffinivano, quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e con la morte di molti cittadini terminavano; quelle di Roma sempre la virtù militare accrebbono, quelle di Firenze al tutto la spensono; quelle di Roma da una ugualità di cittadini in una disaguaglianza grandissima quella città condussono, quelle di Firenze da una disaguaglianza ad una mirabile ugualità l'hanno ridutta. La quale diversità di effetti conviene che sia dai diversi fini che hanno avuto questi duoi popoli causata: perché il popolo di Roma godere i supremi onori insieme con i nobili desiderava; quello di Firenze per essere solo nel governo, sanza che i nobili ne participassero, combatteva. E perché il desiderio del popolo romano era più ragionevole, venivano ad essere le offese ai nobili più sopportabili, tale che quella nobilità facilmente e sanza venire alle armi cedeva; di modo che, dopo alcuni dispareri, a creare una legge dove si sodisfacesse al popolo e i nobili nelle loro dignità rimanessero convenivano. Da l'altro canto, il desiderio del popolo fiorentino era ingiurioso e ingiusto, tale che la nobilità con maggiori forze alle sue difese si preparava, e per ciò al sangue e allo esilio si veniva de' cittadini; e quelle leggi che di poi si creavano, non a comune utilità , ma tutte in favore del vincitore si ordinavano. Da questo ancora procedeva che nelle vittorie del popolo la città di Roma più virtuosa diventava; perché, potendo i popolani essere alla amministrazione de' magistrati, degli eserciti e degli imperii con i nobili preposti, di quella medesima virtù che erano quelli si riempievano, e quella città , crescendovi la virtù, cresceva potenza; ma in Firenze, vincendo il popolo, i nobili privi de' magistrati rimanevano; e volendo racquistargli, era loro necessario, con i governi, con lo animo e con il modo del vivere, simili ai popolani non solamente essere ma parere. Di qui nasceva le variazioni delle insegne, le mutazioni de' tituli delle famiglie, che i nobili, per parere di popolo, facevano; tanto che quella virtù delle armi e generosità di animo che era nella nobilità si spegneva, e nel popolo, dove la non era, non si poteva raccendere, tal che Firenze sempre più umile e più abietto divenne. E dove Roma, sendosi quella loro virtù convertita in superbia, si ridusse in termine che sanza avere un principe non si poteva mantenere, Firenze a quel grado è pervenuta, che facilmente da uno savio datore di leggie potrebbe essere in qualunque forma di governo riordinata. Le quali cose per la lezione del precedente libro in parte si possono chiaramente cognoscere, avendo mostro il nascimento di Firenze e il principio della sua libertà , con le cagioni delle divisioni di quella, e come le parti de' nobili e del popolo con la tirannide del Duca di Atene e con la rovina della nobilità finirono. Restano ora a narrarsi le inimicizie intra il popolo e la plebe, e gli accidenti varii che quelle produssono.
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Doma che fu la potenzia de' nobili, e finita che fu la guerra con lo Arcivescovo di Milano, non pareva che in Firenze alcuna cagione di scandolo fusse rimasa. Ma la mala fortuna della nostra città e i non buoni ordini suoi feciono intra la famiglia degli Albizzi e quella de' Ricci nascere inimicizia; la quale divise Firenze, come prima quella de' Buondelmonti e Uberti, e di poi de' Donati e de' Cerchi aveva divisa. I pontefici, i quali allora stavano in Francia, e gli imperadori, che erano nella Magna, per mantenere la reputazione loro in Italia in varii tempi moltitudine di soldati di varie nazioni ci avevano mandati; tale che in questi tempi ci si trovavano Inghilesi, Tedeschi e Brettoni. Costoro, come, per essere finite le guerre, sanza soldo rimanevono, dietro ad una insegna di ventura, questo e quell'altro principe taglieggiavano. Venne per tanto, l'anno 1353, una di queste compagnie in Toscana, capitaneata da Monreale provenzale; la cui venuta tutte le città di quella provincia spaventò, e i Fiorentini, non solamente publicamente di gente si providdono, ma molti cittadini, intra' quali furono gli Albizzi e i Ricci, per salute propria si armorono. Questi intra loro erano pieni di odio, e ciascuno pensava, per ottenere il principato nella repubblica, come potesse opprimere l'altro: non erano per ciò ancora venuti alle armi, ma solamente ne' magistrati e ne' Consigli si urtavano. Trovandosi adunque tutta la città armata, nacque a sorte una quistione in Mercato Vecchio, dove assai gente secondo che in simili accidenti si costuma, concorse. E spargendosi il romore, fu apportato ai Ricci come gli Albizzi gli assalivano, e agli Albizzi che i Ricci gli venivano a trovare; per la qual cosa tutta la città si sollevò, e i magistrati con fatica poterono l'una e l'altra famiglia frenare, acciò che in fatto non seguisse quella zuffa che a caso, e senza colpa di alcuno di loro, era stata diffamata. Questo accidente, ancora che debile, fece riaccendere più gli animi loro, e con maggiore diligenzia cercare ciascuno di acquistarsi partigiani. E perché già i cittadini, per la rovina de' Grandi, erano in tanta ugualità venuti che i magistrati erano, più che per lo adietro non solevano, reveriti, disegnavano per la via ordinaria e sanza privata violenza prevalersi.
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Noi abbiamo narrato davanti come, dopo la vittoria di Carlo I, si creò il magistrato di Parte guelfa e a quello si dette grande autorità sopra i Ghibellini; la quale il tempo, i varii accidenti e le nuove divisioni avevano talmente messa in oblivione, che molti discesi di Ghibellini i primi magistrati esercitavano. Uguccione de' Ricci per tanto, capo di quella famiglia, operò che si rinnovasse la legge contro a' Ghibellini; intra i quali era opinione di molti fussero gli Albizzi, i quali, molti anni adietro nati in Arezzo, ad abitare a Firenze erano venuti; onde che Uguccione pensò, rinnovando questa legge, privare gli Albizzi de' magistrati, disponendosi per quella che qualunque disceso di Ghibellino fusse condannato se alcuno magistrato esercitasse. Questo disegno di Uguccione fu a Piero di Filippo degli Albizzi scoperto; e pensò di favorirlo, giudicando che, opponendosi, per se stesso si chiarirebbe ghibellino. Questa legge per tanto, rinnovata per la ambizione di costoro, non tolse, ma dette a Piero degli Albizzi riputazione, e fu di molti mali principio: né si può fare legge per una republica più dannosa che quella che riguarda assai tempo indietro. Avendo adunque Piero favorita la legge, quello che da i suoi nimici era stato trovato per suo impedimento gli fu via alla sua grandezza; perché, fattosi principe di questo nuovo ordine, sempre prese più autorità , sendo da questa nuova setta di Guelfi prima che alcuno altro favorito. E perché non si trovava magistrato che ricercasse quali fussero i Ghibellini, e per ciò la legge fatta non era di molto valore, provide che si desse autorità ai Capitani di chiarire i Ghibellini, e chiariti, significare loro, e ammunirgli, che non prendessero alcuno magistrato; alla quale ammunizione se non ubbidissero, rimanessero condennati. Da questo nacque che di poi tutti quelli che in Firenze sono privi di potere esercitare i magistrati si chiamano ammuniti. Ai Capitani adunque sendo con il tempo cresciuta la audacia, senza alcuno rispetto, non solamente quelli che lo meritavano ammunivano, ma qualunque pareva loro, mossi da qualsivoglia avara o ambiziosa cagione; e da il 1357, che era cominciato questo ordine, al '66, si trovavano di già ammuniti più che 200 cittadini. Donde i Capitani e la setta de' Guelfi era diventata potente, perché ciascuno, per timore di non essere ammunito, gli onorava, e massimamente i capi di quella, i quali erano Piero degli Albizzi, messer Lapo da Castiglionchio e Carlo Strozzi. E avvenga che questo modo di procedere insolente dispiacesse a molti, i Ricci infra gli altri erano peggio contenti che alcuno, parendo loro essere stati di questo disordine cagione, per il quale vedevono rovinare la republica e gli Albizzi, loro nimici, essere, contro a' disegni loro, diventati potentissimi.
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Per tanto, trovandosi Uguccione de' Ricci de' Signori, volle por fine a quel male di che egli e gli altri suoi erano stati principio, e con nuova legge provide che a' sei capitani di parte tre si aggiugnessero, de' quali ne fussero duoi de' minori artefici; e volle che i chiariti ghibellini avessero ad essere da ventiquattro cittadini guelfi a ciò deputati confermati. Questo provedimento temperò per allora in buona parte la potenza de' Capitani; di modo che lo ammunire in maggiore parte mancò, e se pure ne ammunivano alcuni, erano pochi. Non di meno le sette di Albizzi e Ricci vegghiavano; e leghe, imprese, deliberazioni l'una per odio dell'altra disfavorivano. Vissesi adunque con simili travagli da il 1366 al '71, nel qual tempo la setta de' Guelfi riprese le forze. Era nella famiglia de' Buondelmonti uno cavaliere chiamato messer Benchi, il quale, per i suoi meriti in una guerra contro ai Pisani, era stato fatto popolano, e per questo era a potere essere de' Signori abile diventato; e quando egli aspettava di sedere in quel magistrato, si fece una legge, che niuno Grande fatto popolano lo potesse esercitare. Questo fatto offese assai messer Benchi, e accozzatosi con Piero degli Albizzi, deliberorono con lo ammunire battere i minori popolani e rimanere soli nel governo. E per il favore che messer Benchi aveva con la antica nobilità , e per quello che Piero aveva con la maggiore parte de' popolani potenti, feciono ripigliare le forze alla setta de' Guelfi, e con nuove riforme fatte nella Parte ordinorono in modo la cosa che potevono de' Capitani e de' ventiquattro cittadini a loro modo disporre. Donde che si ritornò ad ammunire con più audacia che prima; e la casa degli Albizzi, come capo di questa setta, sempre cresceva. Da l'altro canto, i Ricci non mancavano di impedire con gli amici, in quanto potevano, i disegni loro; tanto che si viveva in sospetto grandissimo, e temevasi per ciascuno ogni rovina.
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Onde che molti cittadini, mossi dallo amore della patria, in San Piero Scheraggio si ragunorono, e ragionato infra loro assai di questi disordini, ai Signori ne andorono, ai quali uno di loro, di più autorità , parlò in questa sentenza: - Dubitavamo molti di noi, magnifici Signori, di essere insieme, ancora che per cagione publica, per ordine privato; giudicando potere, o come prosuntuosi essere notati, o come ambiziosi condannati; ma considerato poi che ogni giorno, e senza alcuno riguardo, molti cittadini per le logge e per le case, non per alcuna publica utilità , ma per loro propria ambizione convengano, giudicammo, poi che quegli che per la rovina della republica si ristringono non temano, che non avessino ancora da temere quelli che per bene e utilità publica si ragunano; né quello che altri si giudichi di noi ci curiamo, poi che gli altri quello che noi possiamo giudicare di loro non stimano. Lo amore che noi portiamo, magnifici Signori, alla patria nostra ci ha fatti prima ristrignere e ora ci fa venire a voi per ragionare di quel male che si vede già grande e che tuttavia cresce in questa nostra republica, e per offerirci presti ad aiutarvi spegnerlo. Il che vi potrebbe, ancora che la impresa paia difficile, riuscire, quando voi vogliate lasciare indietro i privati rispetti e usare con le publiche forze la vostra autorità . La comune corruzione di tutte le città di Italia, magnifici Signori, ha corrotta e tuttavia corrompe la vostra città ; perché, da poi che questa provincia si trasse di sotto alle forze dello Imperio, le città di quella, non avendo un freno potente che le correggessi, hanno, non come libere, ma come divise in sette, gli stati e governi loro ordinati. Da questo sono nati tutti gli altri mali, tutti gli altri di...
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