DISCORSO INTORNO ALLA NOSTRA LINGUA, di Niccolo' Machiavelli - pagina 1
Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua
Niccolò Machiavelli
Sempre che io ho potuto onorare la patria mia, eziandio con mio carico e pericolo, l'ho fatto volentieri; perché l'uomo non ha maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l'essere e, di poi, tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto; e tanto viene a esser maggiore in coloro che hanno sortito patria più nobile.
E veramente colui il quale con l'animo e con le opere si fa nimico della sua patria, meritamente si può chiamare parricida, ancora che da quella fosse suto offeso.
Perché, se battere il padre e la madre, per qualunque cagione, è cosa nefanda, di necessità ne seguita il lacerare la patria essere cosa nefandissima, perché da lei mai si patisce alcuna persecuzione per la quale possa meritare di essere da te ingiuriata, avendo a riconoscere da quella ogni tuo bene; talché, se ella si priva di parte de' suoi cittadini, sei piuttosto obbligato ringraziarla di quelli che la si lascia, che infamarla di quelli che la si toglie.
E quando questo sia vero (che è verissimo) io non dubito mai di ingannarmi per difenderla e venire contro a quelli che troppo presuntuosamente cercano di privarla dell'onor suo.
La cagione per che io abbia mosso questo ragionamento, è la disputa, nata più volte ne' passati giorni, se la lingua nella quale hanno scritto i nostri poeti e oratori fiorentini, è fiorentina, toscana o italiana.
Nella qual disputa ho considerato come alcuni, meno inonesti, vogliono che la sia toscana; alcuni altri, inonestissimi, la chiamono italiana; e alcuni tengono che la si debba chiamare al tutto fiorentina; e ciascuno di essi si è sforzato di difendere la parte sua; in forma che, restando la lite indecisa, mi è parso in questo mio vendemmiale negozio scrivervi largamente quello che io ne senta, per terminare la quistione o per dare a ciascuno materia di maggior contesa.
A volere vedere, adunque, con che lingua hanno scritto gli scrittori in questa moderna lingua celebrati, delli quali tengono, senza discrepanza alcuna, il primo luogo Dante, il Petrarca e il Boccaccio, è necessario metterli da una parte, e dall'altra parte tutta Italia; alla qual provincia, per amore circa la lingua di questi tre, pare che qualunque altro luogo ceda; perché la spagnuola e la francese e la tedesca è meno in questo caso presuntuosa che la lombarda.
È necessario, fatto questo, considerare tutti li luoghi di Italia, e vedere la differenza del parlar loro, e a quelli dare più favore che a questi scrittori si confanno, e concedere loro più grado e più parte in quella lingua e, se voi volete, bene distinguere tutta Italia e quante castella, non che città, sono in essa.
Però volendo fuggire questa confusione, divideremo quella solamente nelle sue provincie, come: Lombardia, Romagna, Toscana, terra di Roma e regno di Napoli.
E veramente, se ciascuna di dette parti saranno bene esaminate, si vedrà nel parlare di esse grandi differenzie; ma, a volere conoscere donde e' proceda questo, è prima necessario vedere qualche ragione di quelle che fanno che infra loro sia tanta similitudine, che questi, che oggi scrivono, vogliono che quelli che hanno scritto per lo addrieto, abbino parlato in questa lingua comune italiana; e quale ragione fa che, in tanta diversità di lingua, noi ci intendiamo.
Vogliono alcuni che a ciascuna lingua dia termine la particula affermativa, la quale, appresso alli Italiani, con questa dizione "sì' è significata; e che per tutta quella provincia si intenda il medesimo parlare dove con uno medesimo vocabolo parlando si afferma; e allegano l'autorità di Dante, il quale, volendo significare Italia, la nominò sotto questa particula "sì', quando disse:
Ahi Pisa, vitupero delle genti
del bel paese là dove il sì suona,
cioè d'Italia.
Allegano ancora l'esemplo di Francia, dove tutto il paese si chiama Francia ed è detto ancora lingua d'uì e d'oc, che significano, appresso di loro, quel medesimo che, appresso l'Italiani, sì.
Adducono ancora in esemplo tutta la lingua tedesca, che dice iò e tutta la Inghilterra, che dice ies.
E forse da queste ragione mossi, vogliono molti di costoro che qualunque è in Italia che scriva e parli, scriva e parli in una lingua.
Alcuni altri tengono che questa particula sì non sia quella che regoli la lingua; perché se la regolasse, e i Siciliani e li Spagnuoli sarebbono ancor loro, quanto al parlare, Italiani.
E però è necessario si regoli con altre ragioni; e dicono che chi considera bene le otto parti dell'orazione nelle quali ogni parlare si divide, troverrà che quella che si chiama verbo è la catena e il nervo della lingua; e ogni volta che in questa parte non si varia, ancora che nelle altre si variasse assai, conviene che le lingue abbino una comune intelligenza.
Perché quelli nomi che ci sono incogniti ce li fa intendere il verbo, quale infra loro è collocato; e così, per il contrario, dove li verbi sono differenti, ancora che vi fusse similitudine ne' nomi, diventa quella un'altra lingua.
E per esemplo si può dare la provincia d'Italia; la quale è in una minima parte differente nei verbi ma nei nomi differentissima, perché ciascuno Italiano dice amare, stare e leggere, ma ciascuno di loro non dice già deschetto, tavola e guastada.
Intra i pronomi, quelli che importano più sono variati, sì come è mi in vece d'io, e ti per tu.
Quello che fa ancora differenti le lingue, ma non tanto che le non s'intendino, sono la pronunzia e gli accenti.
Li Toscani fermano tutte le loro parole in su le vocali, ma li Lombardi e li Romagnuoli quasi tutte le sospendono su le consonanti, come è pane e pan.
Considerato, dunque, tutte queste e altre differenze che sono in questa lingua italica, a voler vedere quale di queste tenga la penna in mano e in quale abbino scritto gli scrittori antichi, è prima necessario vedere donde Dante e gli primi scrittori furono, e se essi scrissono nella lingua patria o non vi scrissero; di poi arrecarsi innanzi i loro scritti e, appresso, qualche scrittura mera fiorentina o lombarda o d'altra provincia d'Italia, dove non sia arte ma tutta natura; e quella che fia più conforme alli scritti loro, quella si potrà chiamare, credo, quella lingua nella quale essi abbino scritto.
Donde quelli primi scrittori fussino (eccetto che un bolognese, un aretino e un pistolese, i quali tutti non aggiunsono a dieci canzoni) è cosa notissima come e' furono fiorentini; intra li quali Dante, il Petrarca e il Boccaccio tengono il primo luogo, e tanto alto che alcuno non spera più aggiungervi.
Di questi, il Boccaccio afferma nel Centonovelle di scrivere in vulgar fiorentino; il Petrarca non so che ne parli cosa alcuna; Dante, in un suo libro ch'ei fa De vulgari eloquio, dove egli danna tutta la lingua particular d'Italia, afferma non avere scritto in fiorentino, ma in una lingua curiale; in modo che, quando e' se li avesse a credere, mi cancellerebbe, l'obiezioni che di sopra si feciono di volere intendere da loro donde avevano quella lingua imparata.
Io non voglio, in quanto s'appartenga al Petrarca e al Boccaccio, replicare cosa alcuna, essendo l'uno in nostro favore e l'altro stando neutrale ma mi fermerò sopra di Dante; il quale in ogni parte mostrò d'essere, per ingegno, per dottrina e per giudizio, uomo eccellente, eccetto che dove egli ebbe a ragionare della patria sua; la quale, fuori d'ogni umanità e filosofico instituto, perseguitò con ogni specie d'ingiuria.
E non potendo altro fare che infamarla, accusò quella d'ogni vizio, dannò gli uomini, biasimò il sito, disse male de' costumi e delle leggi di lei; e questo fece non solo in una parte della sua Cantica, ma in tutta, e diversamente e in diversi modi; tanto l'offese l'ingiuria dell'esilio! tanta vendetta ne desiderava! e però ne fece tanta quanta egli poté.
E se per sorte, de' mali ch'egli li predisse, le ne fusse accaduto alcuno, Firenze arebbe più da dolersi d'aver nutrito quell'uomo che d'alcuna altra sua rovina.
Ma la fortuna, per farlo mendace e per ricoprire con la gloria sua la calunnia falsa di quello, l'ha continuamente prosperata, e fatta celebre per tutte le provincie del mondo, e condotta al presente in tanta felicità e sì tranquillo stato che, se Dante la vedessi, o egli accuserebbe se stesso o, ripercosso dai colpi di quella sua innata invidia, vorrebbe, essendo risuscitato, di nuovo morire.
Non è, pertanto, maraviglia se costui, che in ogni cosa accrebbe infamia alla sua patria, volse ancora nella lingua torle quella riputazione la quale pareva a lui d'averle data ne' suoi scritti; e per non l'onorare in alcun modo compose quell'opera, per mostrar quella lingua nella quale egli aveva scritto non esser fiorentina.
Il che tanto se li debbe credere, quanto ch'ei trovassi Bruto in bocca di Lucifero maggiore, e cinque cittadini fiorentini intra i ladroni, e quel suo Cacciaguida in Paradiso, e simili sue passioni e opinioni; nelle quali fu tanto cieco, che perse ogni sua gravità, dottrina e giudicio, e divenne al tutto un altro uomo; talmente che, s'egli avessi giudicato così ogni cosa, o egli sarebbe vivuto sempre a Firenze o egli ne sarebbe stato cacciato per pazzo.
Ma perché le cose che s'impugnano per parole generali o per conietture possono essere facilmente riprese, io voglio, a ragioni vive e vere, mostrare come il suo parlare è al tutto fiorentino, e più assai che quello che il Boccaccio confessa per se stesso esser fiorentino, e in parte rispondere a quelli che tengono la medesima opinione di Dante.
Parlare comune d'Italia sarebbe quello dove fussi più del comune che del proprio d'alcuna lingua; e similmente, parlar proprio fia quello dove è più del proprio che di alcuna altra lingua; perché non si può trovare una lingua che parli ogni cosa per sé senza avere accattato da altri, perché, nel conversare gli uomini di varie provincie insieme, prendono de' motti l'uno dell'altro.
Aggiugnesi a questo che, qualunque volta viene o nuove dottrine in una città o nuove arti, è necessario che vi venghino nuovi vocaboli, e nati in quella lingua donde quelle dottrine o quelle arti son venute; ma riducendosi, nel parlare, con i modi, con i casi, con le differenze e con gli accenti, fanno una medesima consonanza con i vocaboli di quella lingua che trovano, e così diventano suoi; perché, altrimenti, le lingue parrebbono rappezzate e non tornerebbono bene.
E così i vocaboli forestieri si convertono in fiorentini, non i fiorentini in forestieri; né però diventa altro la nostra lingua che fiorentina.
E di qui dipende che le lingue da principio arricchiscono, e diventono più belle essendo più copiose; ma è ben vero che col tempo, per la moltitudine di questi nuovi vocaboli, imbastardiscono e diventano un'altra cosa; ma fanno questo in centinaia d'anni; di che altri non s'accorge se non poi che è rovinata in una estrema barbaria.
Fa ben più presto questa mutazione, quando egli avviene che una nuova populazione venisse ad abitare in una provincia.
In questo caso ella fa la sua mutazione in un corso d'un'età d'un uomo.
Ma in qualunque di questi duoi modi che la lingua si muti, è necessario che quella lingua persa, volendola, sia riassunta per il mezzo di buoni scrittori che in quella hanno scritto, come si è fatto e fa della lingua latina e della greca.
Ma lasciando stare questa parte come non necessaria, per non essere la nostra lingua ancora nella sua declinazione, e tornando donde io mi partii, dico che quella lingua si può chiamare comune in una provincia, dove la maggior parte de' suoi vocaboli con le loro circustanze non si usino in alcuna lingua propria di quella provincia; e quella lingua si chiamerà propria, dove la maggior parte de' suoi vocaboli non s'usino in altra lingua di quella provincia.
Quando questo che io dico sia vero (che è verissimo) io vorrei chiamar Dante, che mi mostrasse il suo poema; e avendo appresso alcuno scritto in lingua fiorentina, lo domanderei qual cosa è quella che nel suo poema non fussi scritta in fiorentino.
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