D'ANGELICA
DI M. PIETRO ARETINO
DUE PRIMI CANTI
A LA MARCHESA DEL VASTO
PIETRO ARETINO
Per essere, Altissima Signora, l'audazia non pur il seggio et il diadema de tutte le dignità de l'animo, ma una virtú piú d'ogni altra riguardata da la Fortuna, con l'ardire de la sua fronte vi mando le rime presenti, tenendo fatal ventura se aviene che ciò me si dedichi per temerità , però che da sà fatta prosunzione nascono due illustrissimi effetti: l'uno intitola i versi al sopraumano consorte vostro; l'altro gli porge a voi, che sua divina mogliere sete. Per la qual cosa egli, che vi adora, vedendoci MARIA gli prenderà con la destra de l'affezzione, e voi, che l'adorate, leggendoci ALFONSO gli riceverete con quella del core; e cosà lo stil mio, come uscisse da vena celeste, de indegno e basso diventerà gradito e supremo. Et è dono de le stelle che permettano che siate tale per dar qualità ad altri, et erra chi non se inchina ad accendervi lumi et a chiedervi grazie, perché non solamente risplendete come rami de la sacra arbore di Aragona e de l'eterna pianta d'Avolos, che, inestati in uno istesso ceppo, senza temer che i nembi de la sorte col secco del suo verno disperda il verde del vostro aprile, producete frondi di lode, fiori di onore e frutti di gloria, ma vi dimostrate a noi quasi miracoli, che empiete il mondo d'altro stupore che non fece Vener di Gnido et il Colosso di Rodi. Et è ben dritto, da che ne le due statue si vide la fatica de l'arte, il pellegrino de l'ingegno et il pregio del marmo, e ne la coppia ch'io dico appare il piacer de Iddio, la sodisfazione de la Natura et il diletto de i Pianeti; sà che ceda la gran figura del Sole et il bello intaglio di Citerea al merito del rettor de l'armi cesaree et a l'assempio de la forma de gli angeli; ceda a la età nostra il secolo sollevato da la superbia mercé di cotali imagini; o, volendo vantarsi e meravigliarsi, impari a conoscere ciò ch'è vanto e maraviglia ne l'opere sue e ne l'eccellenze vostre. Quali termini de l'universo non tocca il dito del valore de sà magno cavaliero? L'aere di qual clima non trattano le penne de la fama di cotanto principe? Quai raggi non gli circondano il perpetuo del nome? Ecco la Invidia che, non torcendo punto il guardo, perduta ogni sua menda ne la maestà de la vostra sembianza, astratta ne i reverendi movimenti de gli occhi vostri, stassi godendo de l'odore che vi spira da le chiome e, confusa ne l'oro per cui rifulgano, confessa che s'ingiuria la potenza del Cielo, da cui traete l'origine, a dirvisi donna e non dea.
AL GRAN MARCHESE DEL VASTO
PRIMO CANTO
1
Io vorrei dir la donna ch'ebbe il vanto
di leggiadra et angelica bellezza,
la qual l'amato ben sospirò tanto
che depose la gioia e l'alterezza,
et imparato a pianger con quel pianto
che ad altri insegnò già la sua durezza:
Medor pur chiama in suon languido e fioco,
che non l'ascolta e 'l suo mal prende a gioco.
2
Ma non lice ch'io scriva o ch'io favelle
se pria non porgo i caldi prieghi miei
al chiaro Alfonso, per sue opre belle
già nel numero eletto de gli dei,
che, asceso nel collegio de le stelle,
quel valor, di che lampa et idol sei,
sà come al mondo face alzar le ciglia,
cosà il cielo empierà di maraviglia.
3
O de i gentili spirti unica spene
e de le lor memorie alto sostegno,
che senza il favor tuo non si conviene
ne le carte spiegar penna d'ingegno,
come a bearti il dà prescritto viene,
in qual pianeta, in qual cielo, in qual segno
apparirai nel tuo lucente seggio,
a cui l'alma inchinar col mondo deggio?
4
Ciascuna stella vorrà loco farti
tosto ch'a gir lassuso il volo pigli:
se in vece de la Libra vuoi locarti
a sé ritirerà Scorpio gli artigli.
Ma devi, giunto a quelle sante parti
u' gli eterni udirai di Dio consigli,
risplender dove i giusti prieghi e i voti
possa meglio ascoltar de i tuoi devoti.
5
Benché translato in ciel, forse vorrai
regger la terra o porre a l'acque il freno
(de l'abisso non parlo, che non hai
desio d'ivi regnar nel real seno).
Ma ora aita - qual che tu sarai,
che mortal uom non l'antivede a pieno -
l'umile musa mia fatta superba
per la divinità che il ciel ti serba.
6
Piovi, Signor, de la tua grazia rara
sopra me sà ch'io scorga quelle vie
dove debbo por giú con lode chiara
il fascio alter de le fatiche mie.
Or di ricever le mie note impara
ne le tue caste e grate orecchie pie,
acciò tu riconosca dal ciel poi
le voci ch'io ti porgerò fra noi.
7
Già sento un nuovo ardor ne l'intelletto
che 'l move a dir d'Angelica, che spinse
sé ad amar con tanto audace affetto
Medor, che sà di foco il cor le cinse
ch'al giogo marital sotto umil tetto,
qual piacque al ciel, seco s'offerse e strinse,
né avendo di lui piú caro pegno
li fe' don del diadema del suo regno.
8
La Fama, vaga de sà nuova cosa,
tosto divolga in questa parte e in quella
come s'è fatta d'un vil moro sposa
Angelica e ciascun di ciò favella;
né si creda però che stesse ascosa
a i fidi servi suoi l'empia novella,
anzi l'udir tanto de gli altri in prima
quanto di lei fan piú de gli altri stima.
9
Ma il caso a passion varie movea
qualunche l'ode e seco ne bisbiglia:
chi per fama la donna conoscea
ha del fin del suo amor gran meraviglia;
chi la vide del ben ch'altri n'avea
meraviglia et invidia insieme piglia;
chi l'ama e intende di chi sposa ella era
n'ha invidia, meraviglia e doglia fera.
10
Quella fu doglia, quella invidia fue,
quella fu meraviglia che ne l'alma
ebber color che le bellezze sue
inchinar come cosa del cielo alma,
né gli ritenne alcun dubbio infra due
con sà e no, ma ne l'aperta palma
par ch'avesser il ver - cosà si crede -
dando a quel che n'udiro intera fede.
11
S'amanti provar mai tormenti fieri,
con lagrime provargli e con sospiri
d'Angelica gli accesi cavalieri,
che meritar corona di martÃri,
quel dà che in mezzo de' lor cori alteri,
già colmi di speranze e di desiri,
sonò come il felice e bel Medoro
sentiti i frutti avea del sudor loro.
12
Ma dentro a gli arsi e disdegnosi petti
l'amorosa et acerba pena dura,
benché egual fosse, fe' diversi effetti,
forse perché diversa ebber natura.
Orlando, primo infra gli amanti eletti,
non come gli altri udà l'alta ventura
del garzon fortunato: ei vide espresso
quel che 'l fece uscir tosto di se stesso.
13
Ei vide l'antro ove a la donna piacque
bear chi ell'ama; ei lesse l'epigramma
in cui Medoro il suo gioir non tacque,
il suo gioir che altri a dolersi infiamma;
nel letto ei fu dove la coppia giacque;
egli udÃ, sé struggendo a dramma a dramma,
l'istoria dal pastor de la sua dea;
vide il cierchio ch'al braccio essa tenea.
14
Onde sà fiero duolo e sà possente
assalse il cor de l'infiammato conte,
che, mancatoli il pianto e 'l suon dolente
del sospirare e le querele pronte,
mosse in tanto furor che follemente
scoperse ignude le sue membra conte
e se pietà celeste non avia
cura di lui, restava in tal follia.
15
Ranaldo, mentre il comun grido ascolta,
in preda al duol qual l'inesperto Orlando
non diede sé, che esperienzia molta
avea in amar, però fu saggio amando:
ei pianse ben, no già con voce sciolta,
ma con suono interrotto sospirando;
premendo il duol che l'anima gli afflisse
con la lingua si tacque e col cor disse.
16
Fatto a la fin con la sua doglia tregua,
quasi uom ch'ha pur di sé qualche pietade,
" Sarà mai " dice " che piú ami o segua
donna che vive sol di crudeltade
e da gli uomini illustri si dilegua
perché goda de l'alta sua beltade
un garzon peregrino, un senza nome,
sol per aver begli occhi e belle chiome? ".
17
Cosà dicendo sente por la mano
del giusto sdegno nel suo nobil core
e per l'atto d'Angelica villano
svegliarne a forza il desleale amore,
né piú gli par che il dolce viso umano
vinca il lume del sol col suo splendore,
anzi non può soff[e]rir che alcuno dica
ch'ella fosse giamai bella o pudica.
18
L'ultimo a udire il fatto è Sacripante,
in cui fan nido i nobili costumi,
che né Marte né Amor si scorge inante
servo che il nome piú gli impenni e allumi.
Il sacro re, il singulare amante
sen gÃa solingo, ne i bei dolci lumi
d'Angelica il pensier fisso tenendo,
di gelosia come d'amor ardendo.
19
E mentre per drittissimo camino
va de la donna sua cercando l'orme,
un bel boschetto a sé scopre vicino,
che d'un picciol teatro ha natie forme
e s'alcun v'entra stanco e peregrino
ivi s'arresta, ivi s'adagia e dorme,
tosto ponendo ogni noia in oblio
al suon d'un chiaro e fresco e dolce rio.
20
Par che il bel rio col mormorar suo lento
chiami a posarsi ogniun ch'al bosco arriva
e par che da le frondi, u' spira il vento,
piovino i sonni in grembo a l'ombra estiva;
arresta de gli augei l'almo concento
qualunque vien per la fiorita riva;
l'aria rider fa il luogo e il verde eletto
par s'offerisca e per seggio e per letto.
21
Giunto il degno et errante cavaliero
al bel boschetto verdeggiante e raro,
per quetar l'amoroso alto pensiero
a l'ombra fresca del bel sito caro
del caval smonta. Intanto ecco un corriero
che lo saluta con sembiante chiaro,
e 'l gentil Sacripante lo dimanda
chi egli è e dove va e chi lo manda.
22
- D'Angelica immortal messo son io -
l'uom fedel tutto lieto li rispose -,
che al mondo ho da far noto che d'un dio
s'è fatta sposa, come il ciel dispose;
e se l'effigie hai di veder desio
di quel ch'ella ama sopra l'altre cose,
io te la mostrerò, ma falle onore,
che l'ha con le man sue dipinta Amore -.
23
Cosà dicendo il naturale e vivo
essempio a sé trasse il corrier di seno,
il quale, per mostrar l'idol suo divo,
di leggiadria e d'alme grazie pieno,
e per far anco di speranza privo
color che tien con l'amoroso freno,
fa publicare Angelica e sol brama
che piú tosto lo veggia chi piú l'ama.
24
Quando gli occhi a l'imagine il re porse,
sparse le guancie di color di morte;
freddo sudor per le sue membra corse,
fe' la bocca di fel, le labbra smorte,
il lume perde e di se stesso in forse
li mor la lingua e il cor li batte forte,
l'alma sua langue in passione accerba,
la lena manca, ond'ei cade in su l'erba.
25
Parve un uom che de subito s'accora,
novella udendo che non pensa udire,
che ad un tratto nel volto si scolora
e poscia cade vinto dal martÃre,
stando senza potere un terzo d'ora
pur respirar, non che parola dire;
ma gli spirti a i suoi luoghi ritornando,
fa segno d'esser vivo sospirando.
26
L'altissimo signor con un sospiro
in sé riviene e fa di pianto un lago;
poi con incomprensibile martÃro
prende tremando di Medor l'imago,
dicendo: - Pur l'umÃl sembianza miro
di quel ch'è piú di me felice e vago,
non già piú degno. Eh! perché, crudo fato,
misero un re e un servo far beato?
27
Io mi credea che 'l valor, ch'è immortale
e non ha men che 'l sol lume né rai,
a la vaga beltà caduca e frale
si dovesse proponer sempre mai
e altier men giva di credenza tale,
che s'è valore in me tu, Albracca, il sai,
che te salvai d'Agrican fero e crudo,
del letto uscendo sol, ferito e nudo.
28
E benché lodar sé non sia permesso,
il dirò pur: dovea beato farme
Angelica per l'atto al mondo espresso
e per mille altri ch'io le ‹ho› mostro in arme;
ma, non che trapassar, non può gir presso
il valor mio a la beltà , che parme
qui sà vaga veder (se questa è vera),
di cui gioisce la mia donna fera.
29
E non s'acorge che i bei soli ardenti
di chi tanto ama e l'ostro, il qual colora
il puro latte, e i crin d'oro lucenti
e del bel viso e de la fronte ancora
l'aria e 'l sereno et i soavi accenti
che tra perle e rubini escono fora
son quasi un vago e delicato fiore
che con quel dà che nasce con quel more -.
30
Ciò detto, afflitto, mesto e lagrimoso,
dal messo, ch'ode la sua pena grave,
spia se 'l garzon piú ch'altro aventuroso
è tal qual la pittura mostra gli have;
et egli a lui: - Il giovan grazioso
che tien del cor d'Angelica la chiave
è senza par, né può la man de l'arte
tanta divinità ritrare in carte.
31
Come Angelica egli è tener d'etade,
lascivi ha gli atti, ha dolce il guardo amato
e, pien di grazie, è colmo d'onestade,
vezzoso ne l'andar, ne lo star grato,
parla soave, ha in fronte maestade,
Cupido par, anzi un angel beato,
ha d'or fino i ...
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