CLIZIA, di Niccolo' Machiavelli - pagina 1
CLIZIA
Niccolò Machiavelli
Canzona
Quanto sia lieto el giorno
che le memorie antiche
fa ch'or per voi sien mostre e celebrate
si vede, perché intorno
tutte le genti amiche
si sono in questa parte ragunate.
Noi, che la nostra etate
ne' boschi e nelle selve consumiamo,
venuti ancor qui siamo,
io ninfa e noi pastori,
e giàm cantando insieme e nostri amori.
Chiari giorni e quïeti!
Felice e bel paese,
dove del nostro conato el suon s'udia!
Pertanto, allegri e lieti,
a queste vostre imprese
faren col cantar nostro compagnia,
con sì dolce armonia,
qual mai sentita più non fu da voi:
e partirenci poi,
io ninfa e noi pastori,
e tornerenci a' nostri antichi amori.
PROLOGO
Se nel mondo tornassino i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbono mai cento anni, che noi non ci trovassimo un'altra volta insieme a fare le medesime cose che ora.
Questo si dice, perché già in Atene, nobile ed antichissima città in Grecia, fu un gentile uomo, al quale, non avendo altri figliuoli che uno maschio, capitò a sorte una picciola fanciulla in casa, la quale da lui infino alla età di diciassette anni fu onestissimamente allevata.
Occorse dipoi che in uno tratto egli ed il figliuolo se ne innamororno: nella concorrenzia del quale amore assai casi e strani accidenti nacquono; i quali trapassati, il figliuolo la prese per donna, e con quella gran tempo felicissimamente visse.
Che direte voi, che questo medesimo caso, pochi anni sono, seguì ancora in Firenze? E, volendo questo nostro autore l'uno delli dua rappresentarvi, ha eletto el fiorentino, iudicando che voi siate per prendere maggiore piacere di questo che di quello: perché Atene è rovinata, le vie, le piazze, i luoghi non vi si ricognoscono; dipoi, quelli cittadini parlavano in greco, e voi quella lingua non intenderesti.
Prendete, pertanto, el caso seguito in Firenze, e non aspettate di riconoscere o il casato o gli uomini, perché lo autore, per fuggire carico, ha convertiti i nomi veri in nomi fitti.
Vuol bene, avanti che la comedia cominci, voi veggiate le persone, acciò che meglio, nel recitarla, le cognosciate.
Uscite qua fuora tutti, che 'l popolo vi vegga.
Eccogli.
Vedete come e' ne vengono suavi? Ponetevi costì in fila, l'uno propinquo all'altro.
Voi vedete.
Quel primo è Nicomaco, un vecchio tutto pieno d'amore.
Quello che gli è allato è Cleandro, suo figliuolo e suo rivale.
L'altro si chiama Palamede, amico a Cleandro.
Quelli dua che seguono, l'uno è Pirro servo, l'altro Eustachio fattore, de' quali ciascuno vorrebbe essere marito della dama del suo padrone.
Quella donna, che vien poi, è Sofronia, moglie di Nicomaco.
Quella appresso è Doria, sua servente.
Di quegli ultimi duoi che restano, l'uno è Damone, l'altra è Sostrata, sua donna.
Ècci un'altra persona, la quale, per avere a venire ancora da Napoli, non vi si mosterrà.
Io credo che basti, e che voi gli abbiate veduti assai.
Il popolo vi licenzia: tornate dentro.
Questa favola si chiama «Clizia» perché così ha nome la fanciulla, che si combatte.
Non aspettate di vederla, perché Sofronia, che l'ha allevata, non vuole per onestà che la venga fuora.
Pertanto, se ci fussi alcuno che la vagheggiassi, arà pazienza.
E' mi resta a dirvi, come lo autore di questa commedia è uomo molto costumato, e saprebbegli male, se vi paressi, nel vederla recitare, che ci fussi qualche disonestà.
Egli non crede che la ci sia; pure, quando e' paressi a voi, si escusa in questo modo.
Sono trovate le commedie, per giovare e per dilettare alli spettatori.
Giova veramente assai a qualunque uomo, e massimamente a' giovanetti, cognoscere la avarizia d'uno vecchio, il furore d'uno innamorato, l'inganni d'uno servo, la gola d'uno parassito, la miseria d'uno povero, l'ambizione d'uno ricco, le lusinghe d'una meretrice, la poca fede di tutti gli uomini.
De' quali essempli le commedie sono piene, e possonsi tutte queste cose con onestà grandissima rappresentare.
Ma, volendo dilettare, è necessario muovere gli spettatori a riso: il che non si può fare mantenendo il parlare grave e severo, perché le parole, che fanno ridere, sono o sciocche, o iniuriose, o amorose; è necessario, pertanto, rappresentare persone sciocche, malediche, o innamorate: e perciò quelle commedie, che sono piene di queste tre qualità di parole, sono piene di risa; quelle che ne mancano, non truovano chi con il ridere le accompagni.
Volendo, adunque, questo nostro autore dilettare, e fare in qualche parte gli spettatori ridere, non inducendo in questa sua commedia persone sciocche, ed essendosi rimasto di dire male, è stato necessitato ricorrere alle persone innamorate ed alli accidenti, che nello amore nascano.
Dove se fia alcuna cosa non onesta, sarà in modo detta che queste donne potranno sanza arrossire ascoltarla.
Siate contenti, adunque, prestarci gli orecchi benigni: e, se voi ci satisfarete ascoltando, noi ci sforzeremo, recitando, di satisfare a voi.
ATTO PRIMO
Scena prima
PALAMEDE, CLEANDRO
PAL.
Tu esci sì a buon'ora di casa?
CLE.
Tu, donde vieni sì a buon'ora?
PAL.
Da fare una mia faccenda.
CLE.
Ed io vo a farne un'altra, o, a dire meglio, a cercarla di fare, perché s'io la farò, non ne ho certezza alcuna.
PAL.
È ella cosa che si possa dire?
CLE.
Non so, ma io so bene che la è cosa, che con difficultà si può fare.
PAL.
Orsù, io me ne voglio ire, che io veggo come lo stare accompagnato t'infastidisce; e per questo io ho sempre fuggito la pratica tua, perché sempre ti ho trovato mal disposto e fantastico.
CLE.
Fantastico no, ma innamorato sì.
PAL.
Togli! Tu mi racconci la cappellina in capo!
CLE.
Palamede mio, tu non sai mezze le messe.
Io sono sempre vivuto disperato, ed ora vivo più che mai.
PAL.
Come così?
CLE.
Quello ch'io t'ho celato per lo adrieto, io ti voglio manifestare ora, poiché mi sono redutto al termine che mi bisogna soccorso da ciascuno.
PAL.
Se io stavo mal volentieri teco in prima, io starò peggio ora, perché io ho sempre inteso, che tre sorte di uomini si debbono fuggire: cantori, vecchi ed innamorati.
Perché, se usi con uno cantore e narrigli uno tuo fatto, quando tu credi che t'oda, e' ti spicca uno «ut, re, mi, fa, sol, la», e gorgogliasi una canzonetta in gola.
Se tu sei con uno vecchio, e' ficca el capo in quante chiese e' truova, e va a tutti gli altari a borbottare uno paternostro.
Ma di questi duoi lo innamorato è peggio, perché non basta che, se tu gli parli, e' pone una vigna che t'empie gli orecchi di rammarichii e di tanti suoi affanni, che tu sei sforzato a moverti a compassione: perché, s'egli usa con una cantoniera, o ella lo assassina troppo, o ella lo ha cacciato di casa, sempre vi è qualcosa che dire; s'egli ama una donna da bene mille invidie, mille gelosie, mille dispetti lo perturbano; mai non vi manca cagione di dolersi.
Pertanto, Cleandro mio, io userò tanto teco, quanto tu arai bisogno di me, altrimenti io fuggirò questi tuoi dolori.
CLE.
Io ho tenute occulte queste mie passioni infino ad ora per coteste cagioni, per non essere fuggito come fastidioso o uccellato come ridiculo, perché io so che molti, sotto spezie di carità, ti fanno parlare, e poi ti ghignano drieto.
Ma, poiché ora la Fortuna m'ha condotto in lato, che mi pare avere pochi rimedii, io te lo voglio conferire, per sfogarmi in parte, e anche perché, se mi bisognassi il tuo aiuto, che tu me lo presti.
PAL.
Io sono parato, poiché tu vuoi, ad ascoltar tutto, e così a non fuggire né disagi né pericoli, per aiutarti.
CLE.
Io lo so.
Io credo che tu abbia notizia di quella fanciulla, che noi ci abbiamo allevata.
PAL.
Io l'ho veduta.
Donde venne?
CLE.
Dirottelo.
Quando, dodici anni sono, nel 1494, passò il re Carlo per Firenze, che andava con uno grande essercito alla impresa del Regno, alloggiò in casa nostra uno gentile uomo della compagnia di monsignor di Fois, chiamato Beltramo di Guascogna.
Fu costui da mio padre onorato, ed egli, perché uomo da bene era, riguardò ed onorò la casa nostra; e dove molti feciono una inimicizia con quelli Franzesi avevano in casa, mio padre e costui contrassono una amicizia grandissima.
PAL.
Voi avesti una gran ventura più che gli altri, perché quelli che furono messi in casa nostra ci feciono infiniti mali.
CLE.
Credolo; ma a noi non intervenne così.
Questo Beltramo ne andò con il suo re a Napoli; e, come tu sai, vinto che Carlo ebbe quel regno, fu constretto a partirsi, perché 'l papa, imperadore, Viniziani e duca di Milano se gli erano conlegati contro.
Lasciate, pertanto, parte delle sue gente a Napoli, con il resto se ne venne verso Toscana; e, giunto a Siena, perch'egli intese la Lega avere uno grossissimo essercito sopra il Taro, per combatterlo allo scendere de' monti, gli parve da non perdere tempo in Toscana; e perciò, non per Firenze, ma per la via di Pisa e di Pontremoli, passò in Lombardia.
Beltramo sentito il romore de' nimici, e dubitando, come intervenne, non avere a fare la giornata con quelli, avendo in tra la preda fatta a Napoli questa fanciulla, che allora doveva avere cinque anni, d'una bella aria e tutta gentile, deliberò di tôrla d'inanzi a' pericoli, e per uno suo servidore la mandò a mio padre, pregandolo che per suo amore dovessi tanto tenerla, che a più commodo tempo mandassi per lei; né mandò a dire se la era nobile o ignobile: solo ci significò che la si chiamava Clizia.
Mio padre e mia madre, perché non avevano altri figliuoli che me, subito se ne innamororono.
PAL.
Innamorato te ne sarai tu!
CLE.
Lasciami dire! E come loro cara figliuola la trattorono.
Io, che allora avevo dieci anni, mi cominciai, come fanno e fanciulli, a trastullare seco, e le posi uno amore estraordinario, il quale sempre con la età crebbe; di modo che, quando ella arrivò alla età di dodici anni, mio padre e mia madre cominciorono ad avermi gli occhi alle mani, in modo che, se io solo gli parlavo, andava sottosopra la casa.
Questa strettezza (perché sempre si desidera più ciò che si può avere meno) raddoppiò lo amore, ed hammi fatto e fa tanta guerra, che io vivo con più affanni, che s'io fussi in inferno.
PAL.
Beltramo, mandò mai per lei?
CLE.
Di cotestui non si intese mai nulla: crediamo che morissi nella giornata del Taro.
PAL.
Così dovette essere.
Ma dimmi: che vuoi tu fare? A che termine sei? Vuo'la tu tòr per moglie, o vorrestila per amica? Che t'impedisce, avendola in casa? Può essere che tu non ci abbia rimedio?
CLE.
Io t'ho a dire dell'altre cose, che saranno con mia vergogna, perciò ch'io voglio che tu sappi ogni cosa.
PAL.
Di' pure.
CLE.
E' mi vien voglia, disse colei, di ridere, ed ho male! Mio padre se n'è innamorato anch'egli.
PAL.
Chi, Nicomaco?!
CLE.
Nicomaco, sì.
PAL.
Puollo fare Iddio?
CLE.
E' lo può fare Iddio e' santi!
PAL.
Oh! questo è il più bel caso, ch'io sentissi mai: e' non se ne guasta se non una casa.
Come vivete insieme? che fate? a che pensate? tua madre, sa queste cose?
CLE.
E' lo sa mia madre, le fante, e famigli: egli è una tresca el fatto nostro!
PAL.
Dimmi: infine, dove è ridotta la cosa?
CLE.
Dirottelo.
Mio padre, per moglie, quando bene e' non ne fussi innamorato, non me la concederebbe mai, perché è avaro, ed ella è sanza dota.
Dubita anche che la non sia ignobile.
Io, per me, la torrei per moglie, per amica, ed in tutti quelli modi ch'io la potessi avere.
Ma di questo non accade ragionare ora.
Solo ti dirò dove noi ci troviamo.
PAL.
Io l'arò caro.
CLE.
Tosto che mio padre si innamorò di costei, che debbe essere circa uno anno, e desiderando di cavarsi questa voglia, che lo fa proprio spasimare, pensò che non c'era altro rimedio che maritarla ad uno che poi gliene accomunassi, perché tentare d'averla prima che maritata gli debbe parere cosa impia e brutta; e, non sapendo dove si gittare, ha eletto per il più fidato a questa cosa Pirro, nostro servo, e menò tanta segreta questa sua fantasia che ad uno pelo la fu per condursi, prima che altri se ne accorgessi.
Ma Sofronia, mia madre, che prima un pezzo dello innamoramento si era avveduta, scoperse questo agguato, e con ogni industria, mossa da gelosia ed invidia, attende a guastare.
...
[Pagina successiva]